LESSONS OF LOVE
Il contributo di Fondazione Cariplo nell'ambito del progetto Grandi Speranze ha offerto la possibilità di creare uno spin-off del Locarno Film Festival in Lombardia, volto a rafforzare gli scambi culturali tra Milano e il Festival attraverso borse di studio e programmi di tutoraggio per i giovani filmmaker lombardi. In questo contesto è anche previsto un appuntamento formativo legato al film di Chiara Campara, Lessons of Love, che verrà proiettato presso il Cinema Arlecchino domenica 26 settembre alle ore 21.30 insieme ai film della rassegna Locarno a Milano, in cui le opere più interessanti del 74° Locarno Film Festival verranno mostrate al pubblico italiano. La regista Chiara Campara, già selezionata tra i partecipanti della Locarno Filmmakers Academy, sarà presente alla proiezione insieme al project manager dell'Academy Stefano Knuchel e alla direttrice della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti Minnie Ferrara.
Unitamente a Lessons of Love saranno proiettati due dei videosaggi nell'ambito del progetto Grandi Speranze, riguardanti la retrospettiva sul cinema di Roberto Lattuada, proposta all'interno del 74° Locarno Film Festival, e realizzati dai ragazzi e dalle ragazze selezionati dal bando di Filmidee.
L'ingresso è gratuito, per prenotare il tuo posto scrivi a info@filmidee.it.
LOCARNO 74:
L’ÉTÉ L’ÉTÉRNITÉ
Ricordo sempre con intimo, quasi amaro piacere quei pomeriggi di maggio o di giugno, in cui, tornando da scuola, coglievo nell’aria il primo sentore dell’estate: quando già si intravedeva, oltre la fine del quadrimestre coi suoi giorni scanditi e progressivi, il cielo terso e mite di un tempo diverso, di un Mediterraneo ardente e trasognato, carico di grazia come certe poesie di Sandro Penna.
Sta (almeno in parte) in quelle fantasie luminose d’adolescenza il senso di L’été l’éternité, primo lungometraggio di Émilie Aussel presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente. Anche nel film (come del resto in Penna) si respira il tepore un po’ alessandrino di una gioventù semi-divina, fuori dal tempo. O meglio: racchiusa in un tempo suo proprio, in cui ancora si allunga il cosmo sicuro dell’infanzia, ma già emergono pulsioni nuove, l’impulso ad aprirsi al mondo e alle sue misteriose promesse. È una stagione formidabile, in cui passato e futuro si abbracciano in un presente vitale, allo stesso tempo immanente e come sospeso.
Dico ‘almeno in parte’ perché Aussel abbandona presto questa rêverie de jeunesse per entrare nell’orbita di un altro tempo astratto, per così dire: quello del trauma. È l’estate della maturità: l’ozio di un gruppo di adolescenti in vacanza a Marsiglia viene sconvolto quando una di loro, Lola, scompare in mare. Lise, amica e confidente, si richiude su sé stessa, abbandona il gruppo, e accetta invece l’ospitalità di una piccola troupe di teatranti. Su questo canovaccio minimo il film innesta uno studio di personaggi che si appoggia sulla figura di Lise pur rimanendo, a tutti gli effetti, corale.
Alle due dimensioni temporali di cui accennavo sopra—quella mitica e alessandrina dell’adolescenza, e quella congelata del trauma—Aussel accompagna due diverse strategie di messa in quadro. Per esplorare il non-tempo del trauma, il film ricorre a delle interpellazioni in camera, monologhi di derivazione teatrale, in cui i personaggi si rivolgono a figure perdute del proprio passato. Una soluzione elegante, ma in ultima analisi fallimentare. Se pure traduce bene l’alterità, e il senso di rimozione che si prova a vivere dentro la perdita (in un mondo che si è fermato), la riconciliazione cercata da questi dialoghi impossibili (la sublimazione artistica, se si vuole) fatica a raggiungere lo spettatore, per il quale la modalità retorica ricalca troppo da vicino moduli documentaristici ai quali il cinema è più abituato.
Più efficace è la sottrazione di ogni esplicita marca temporale dalla messinscena, che lascia sfumare il racconto in una sorta di presente sotto vetro, sulla scolta di Philippe Garrel. Sulla stessa falsariga si muove la colonna sonora dei Postcoïtum, in cui si mescolano suggestioni strumentali e minimalismo elettronico.
Ma è nel registro mitico che il film ottiene, suo malgrado, i risultati migliori. Le sequenze iniziali, coi ragazzi sulla spiaggia, irradiate dalla luce dolce del Midi, sono imbevute di una naturalezza priva di fronzoli, frutto del lungo lavoro di preparazione (anch’esso di stampo teatrale) svolto dalla regista, che ha adattato il canovaccio ai vissuti dei giovani interpreti, coltivando spazi di improvvisazione e spontaneità. L’intenzione, abbastanza palese, è quella di lasciare che la familiarità generata nel percorso di avvicinamento al film si traduca, nell’inquadratura, in una sorta di naturalezza immediata, priva di coordinate (narrative): un riverbero di vita irradiato di sole che trabocca direttamente nell’immagine. Non funziona, ovviamente, così.
Paradossalmente, il film fallisce e riesce per lo stesso motivo. Fallisce nei moduli più smaccatamente teatrali (i monologhi in camera) perché attende da questi codici ‘di presenza’ un impatto che al cinema non hanno, sopraffatti come sono dall’interferenza di altri codici molto più forti (come quelli del documentario). A teatro, un soliloquio rivolto a una figura perduta apre uno spazio-tempo interiore, oltre il presente scenico. Al cinema, l’interpellazione in camera sospende la meccanica del desiderio che rende l’immagine permeabile allo spettatore: ottiene, in sostanza, l’effetto opposto.
Il film fallisce anche nell’immaginare che ci sia ‘qualcosa’ in quei giovani, qualcosa di inafferrabile che la prossimità e la familiarità acquisita debbano e possano osservare, rispettare: dico l’idea di una verità segreta che si esprima attraverso l’interprete e che prenda forma nell’atto di recitare. Forse a teatro: ma nel cinema, per banalizzare Bazin, si può credere all’immagine o si può credere al mondo. Al mondo interiore no.
Eppure, dicevo, in parte L’été l’éternité riesce. Riesce perché l’approccio contemplativo che vorrebbe lasciare spazio alla verità segreta di questi adolescenti finisce, invece, col lasciare spazio allo spettatore. E così, da un lato, le immagini del film finiscono per evocare il fascino iconografico e letterario che sul corpo dell’adolescente si concentra da secoli, da Antinoo alla Cecile di Sagan. Dall’altro, finisce per suggerire alla memoria tutta una mitologia di altri film, fatti di cameratismo innocente e avventure estive mai davvero vissute. In un momento di sorprendente lucidità, una dei personaggi secondari, rivolgendosi nel suo monologo a Lola, chiosa: “sei tu che mi ha fatto scoprire tutto quello che avevo visto nei film e che sognavo di conoscere.”
Ecco, nei suoi momenti migliori L’été l’éternité ci fa ricordare cosi si provava, da giovani, a sognare di conoscere tutto quello che avevamo visto nei film. Perché tutto si perde: anche l’adolescenza. Ma ciò che resta, al cinema, non è la morte. Sono le immagini.
L'été l'étérnité fa parte della rassegna Locarno a Milano, in cui i migliori film del 74° Locarno Film Festival verranno presentati al Cinema Arlecchino di Milano.
Per info e biglietti: lombardiaspettacolo.com
Per la scheda del film: https://leviedelcinema.lombardiaspettacolo.com/18m/lete-leternite-di-emilie-aussel-1
Leggi anche: https://www.filmidee.it/2021/08/zeros-and-ones/
GRANDI SPERANZE:
LOCARNO A MILANO
Filmidee e Locarno Film Festival sono lieti di annunciare un rinnovato e ampliato coinvolgimento nella rassegna “le vie del cinema”, organizzata da Agis Lombarda. Saranno infatti ben tre le giornate – dal 24 al 26 settembre al cinema Arlecchino di Milano – in cui il pubblico potrà scoprire una ricca selezione di film presentati alla 74esima edizione del Festival, accompagnati dalle registe e dai registi, con il direttore artistico Giona A. Nazzaro e la selezionatrice Daniela Persico. L’iniziativa è resa possibile grazie al contributo di Fondazione Cariplo.
Dal 22 al 30 settembre 2021 torna uno degli appuntamenti più apprezzati dal pubblico cinefilo milanese: le vie del cinema, l’iniziativa organizzata da Agis Lombarda che offre una panoramica delle nuove produzioni presentate alla Mostra del Cinema di Venezia, al Locarno Film Festival e, quest’anno, anche a Cannes. Come di consueto, le anteprime verranno proposte sul grande schermo in versione originale con sottotitoli in italiano.
Tra le maggiori novità dell’edizione 2021, c’è una rinnovata e ampliata collaborazione con il Locarno Film Festival, che porterà a Milano alcuni dei titoli più rappresentativi della 74esima edizione, tenutasi dal 4 al 14 agosto. Dopo l’aperitivo di inaugurazione, venerdì 24 settembre in presenza del direttore artistico Giona A. Nazzaro, del direttore operativo Raphaël Brunschwig e della selezionatrice Daniela Persico, tre giornate – dal 24 al 26 settembre – saranno interamente dedicate ai film del Locarno Film Festival. Un’importante sala storica della città sarà il fulcro delle proposte locarnesi: il Cinema Arlecchino, che per l’occasione diventerà il quartier generale della manifestazione a Milano. Per festeggiare il primo anno della nuova collaborazione, i film saranno accompagnati dalle registe e dai registi, e introdotti dal direttore artistico Nazzaro e da Daniela Persico, membro del comitato artistico del Festival.
Il contributo di Fondazione Cariplo, ha offerto la possibilità di creare uno spin-off del Locarno Film Festival in Lombardia, all’interno del progetto Grandi speranze, volto a rafforzare gli scambi culturali tra Milano e il Festival attraverso borse di studio e programmi di tutoraggio per i giovani filmmaker lombardi. In questo contesto è anche previsto un appuntamento formativo legato al film di Chiara Campara, Lessons of Love.
Il programma di Locarno a Milano
I titoli di Locarno74 selezionati per la rassegna sono i seguenti:
• Chute (Strangers)
di Nora Longatti – Svizzera, 2021 – Pardi di domani: Concorso nazionale – Pardino d’oro Swiss Life per il migliore cortometraggio svizzero (Domenica 26 Settembre, ore 15 - 17, Cinema Arlecchino)
• I giganti
di Bonifacio Angius – Italia, 2021 – Concorso internazionale (Sabato 25 Settembre, ore 19, Cinema Arlecchino - ore 21.50, Cinema Beltrade)
• Il faut fabriquer ses cadeaux (Gotta Fabricate Your Own Gifts)
di Cyril Schäublin – Svizzera, 2021 – Pardi di domani: Concorso Corti d'autore (Venerdì 24 Settembre, ore 21, Cinema Arlecchino)
• L'Été l'éternité (Our Eternal Summer)
di Émilie Aussel – Francia, 2021 – Concorso Cineasti del presente – Premio speciale della giuria Cine+ (Domenica 26 Settembre, ore 15 - 17, Cinema Arlecchino)
• Petite Solange
di Axelle Ropert – Francia, 2021 – Concorso internazionale (Sabato 25 Settembre, ore 17 - 21.30, Cinema Arlecchino)
• Soul of a Beast
di Lorenz Merz – Svizzera, 2021 – Concorso internazionale – Menzione speciale e Premio ecumenico (Domenica 26 Settembre, ore 19, Cinema Arlecchino)
• Zeros and Ones
di Abel Ferrara – Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, 2021 – Concorso internazionale – Pardo per la migliore regia (Venerdì 24, ore 21, Cinema Arlecchino. Ospite speciale: il direttore artistico del Locarno Film Festival Giona Nazzaro)
• Lessons of Love
di Chiara Campara – Italia - Nell'ambito della collaborazione con Fondazione Cariplo (Domenica 26 Settembre, ore 21.30, Cinema Arlecchino. Ospiti speciali: Stefano Knuchel, project manager della Locarno Filmmakers Academy, e Minnie Ferrara, direttrice della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti)
Il programma definitivo è online dalle 12.00 di oggi, venerdì 17 settembre. Sempre da oggi è anche possibile acquistare la Cinecard per seguire la rassegna, mentre i singoli biglietti saranno in vendita da martedì 21 settembre. In ottemperanza ai protocolli di sicurezza vigenti, anche quest'anno sarà possibile acquistare in prevendita Cinecard e biglietti sul sito de le vie del cinema. Le sale cinematografiche che ospitano i film de le vie del cinema rispettano i protocolli previsti dalla normativa italiana vigente per garantire la sicurezza di tutti: clicca qui per maggiori informazioni.
Scopri il programma completo qui: https://bit.ly/3AnfMv0
LOCARNO 74: ZEROS AND ONES
“Forse sono mancato troppo tempo, perché i miei sentimenti sono morti. Io...Non provo alcun rimorso. È terribile, vero?”
King of New York
Prosegue la disamina sul post cinema di Abel Ferrara, che con Zeros and Ones, vincitore del Pardo per la miglior regia al 74° Locarno Film Festival, decostruisce un’altra storia, ambientata in questo caso in un contesto da film di spionaggio. Modellando una non drammaturgia sulla figura attoriale di Ethan Hawke, interprete di due ruoli opposti per ideologia ma che in seguito confluiranno in un unico nucleo di ambiguità e inadeguatezza, Ferrara crea un contrasto volutamente posticcio tra l’interpretazione virtuosa di Hawke e una messa in scena minimale, divincolata dal cinema per poter paradossalmente crearne di nuovo.
Come del resto succede dall’ormai lontano 2011 con 4:44 - Ultimo giorno sulla terra (opera caposaldo che porta Ferrara definitivamente al di là di ogni canone), i lavori di questo regista incredibilmente non inquadrabile hanno come unico punto in comune la presa d’atto dell’incapacità dell’essere umano contemporaneo di poter leggere il presente. A maggior ragione la devastante crisi di senso che la pandemia ha portato con sé dilata questa poetica fino allo sfinimento, trasformando gesti plateali come l’igienizzazione delle mani con una confezione tascabile di amuchina e un bacio dato da dietro due mascherine chirurgiche quasi in atti di resa della messa in scena davanti all'instancabile avanzata del cattivo gusto.
Il film si dichiara da subito contrario a creare gradi di separazione tra sottotesto e narrazione, tra regia ed estetica: il rumore video che accompagna costantemente gli interni e gli esterni e gli effetti visivi quasi caricaturali negano di fatto la possibilità che la finzione può avere oggi di costituirsi come estensione del reale, lasciando scoprire quindi il fallimento del cinema come arte popolare, ma costituendo paradossalmente nuove forme di interesse crepuscolare, proprio perché schiantare la propria arte annichilendola è forse l’unico modo per leggere (o non leggere) una contemporaneità smarrita, che colpisce sistematicamente e con rabbia un nemico che non riuscirà mai a vedere, e che forse non esiste.
Da qui l’uso della doppia interpretazione del protagonista soldato e del fratello rivoluzionario (non terrorista, non anarchico, non comunista, o forse tutti questi insieme), come fusione deformante delle due barricate ideologiche della Storia, l’ordine e il caos fusi insieme da una serie di esplosioni digitali, un’operazione, che ve lo dico a fare, profondamente pasoliniana (ah, quel Pasolini del 2014 così sottovalutato e non compreso) ambientata tra gli scheletri di una Roma decadente e buia, simulacro di ogni status symbol occidentale.
É una costante apocalisse del resto quella che Ferrara mette in scena da ormai un decennio a questa parte, lasciando smarrito, respinto e fin anche rancoroso, chi ancora si aggrappa a una nuova idea di mondo (che non c’è). All’uscita dalla sala gruppi di giovani cinefili si fissano perplessi e ammutoliti, in cerca di un significato che probabilmente non vogliono trovare; però, forse, il germe di questa bellissima debacle poteva già essere individuato trent’anni fa, nelle sparatorie indiscriminate di King of New York, in cui polizia e crimine vengono posti su un unico marcio piedistallo, prima che la forma si arrendesse, prima che la morale scoprisse i suoi vicoli ciechi, perché in fondo stiamo girando attorno alla nostra fine da molto più tempo di quello che non si creda, anche se Abel Ferrara sfida ogni didascalia (fin anche quella che nega se stessa), mostrando come ultimo frame, come fu in Tommaso, la figlia di quattro anni Anna, enigma di un futuro a cui continua a non esserci alternativa.
Zeros and Ones fa parte della rassegna Locarno a Milano, in cui i migliori film del 74° Locarno Film Festival verranno presentati al Cinema Arlecchino di Milano.
Per info e biglietti: lombardiaspettacolo.com
Per la scheda del film: https://leviedelcinema.lombardiaspettacolo.com/18m/zeros-and-ones-di-abel-ferrara
Leggi anche: https://www.filmidee.it/2021/09/locarno-74-petite-solange/
LOCARNO 74: IL CUORE OLTRE IL BOATO
Sulla carta sembrava esserci una forte interruzione di continuità tra il film d’esordio di Ferdinando Cito Filomarino e il suo secondo lavoro: difficile che un "manhunt thriller" ispirato dai film americani a sfondo politico degli anni ’70 potesse dire qualcosa di simile a una riflessione biografica sugli anni di formazione della poetessa Antonia Pozzi. Paradossalmente invece Beckett, film di apertura di Locarno 74, continua in maniera coerente, per quanto diversificata, le costruzioni di senso pensate in Antonia. Le immagini dei due film dicono cose diverse, ma condividono la stessa grafia, sempre rilevabile o meglio decifrabile in quello spazio vertiginoso presente prima che i contenuti si cristallizzino in forma definita. Questa grafia condivisa che ogni tanto si affaccia luminosa sulla scena per spezzare le cornici delle definizioni non è una firma solo formale o un segno narrativo, ma è proprio una atmosferica sintesi dei due aspetti, una soluzione di linguaggio in grado di argomentare per immagini. Cosa nello specifico? In entrambi i casi, e questo pare il punto di contatto tra i film, il ruolo della perdita nella costruzione dell’identità, il segno di ciò che è assente su ciò che è presente e quindi il modo che la presenza ha di volgersi all’assenza, qualcosa di impalpabile, che passa lasciando un solco, una traccia su chi resta.
Mentre in Antonia questo discorso trovava un ideale segno espressivo nel corpo frustato dalle delusioni d’amore e dall’incomprensione generale della voce della poetessa, in Beckett la dialettica tra identità e perdita si misura su altre dimensioni: Beckett (John David Washington) è un turista americano che sta facendo le vacanze in Grecia con la sua fidanzata April (Alicia Vikander), fino a quando, a causa di un incidente stradale, la ragazza muore; senza avere tempo per elaborare il lutto l’uomo si ritrova implicato in quello che sembra un complotto delle istituzioni ai suoi danni. Si tratta di un equivoco o nell’incidente l’americano ha visto qualcosa che sarebbe dovuto rimanere nascosto? Il film sceglie presto che direzione prendere rispetto a questo bivio e accetta di giocare fino in fondo le regole del thriller, senza però cedere totalmente il controllo della propria postura al genere: riesce infatti nel difficile compito di elaborare il tema dell’identità anche con codici non immediatamente psicologici, tracciando il percorso identitario attraverso l’esponente sociopolitico della crisi greca del 2015, tra cittadini in rivolta contro l’austerità, l’insorgenza di movimenti neofascisti nel dibattito pubblico e lo spettro della tragedia dei migranti.
La grafia sensibile di Filomarino, attenta al tratteggio su piccola scala, non si perde nella cornice di grave tensione di massa, anzi, fa sì che quest’ultima catalizzi il trauma del personaggio, rendendola estensione deformante o specchio della crisi identitaria dell’individuo protagonista. Il personaggio di Beckett sembra essere vittima di una indecisione identitaria (le sue prime battute riguardano questo stato di non riconoscimento) che il lutto, come perdita di una parte di sé, rende cosciente; parallelamente la situazione di crisi lo obbliga a trovare una soluzione a questa indecisione, almeno per sopravvivere: Beckett è chiamato a continue risposte decisive. La progressiva ricapitolazione di sé tramite il lutto e la prassi in uno stato di tensione fuori dal normale (deformazioni del corpo dovute a ferite ricorrono nel film a rilevare questa identità sformata) è proiettata sulla scala di una crisi individuale condivisa. Ma il film non passa dal lutto personale alla crisi di una nazione per poi ripiegare all’indietro senza un termine di passaggio intermedio: usa la paranoia (il genere del "manhunt thriller" è anche detto "paranoia thriller") come sentimento che traduce la coscienza del non controllo sulla propria identità a causa di un trauma in un'interpretazione degli altri come individui minacciosi e quindi come perfetto sentimento su cui si imperniano l’individuo e la collettività.
Il punto a cui il film è interessato non è però il mero sintomo della paranoia: al film non preme provare che Beckett e la collettività dei cittadini greci sono paranoici che vedono la realtà come una minaccia (in un caso corporea nell’altro neoliberale e finanziaria) alla libertà individuale. A Filomarino sembra interessare di più la dimensione condivisa che precede e motiva questo sintomo, la radice comune del trauma, che genera un gioco di sponda tra situazione privata e situazione pubblica: come l’identità della Grecia traduce la situazione di crisi in paranoia collettiva (legittima o meno) che sfocia in protesta, così Beckett passa per contratto nello stato di paranoia per ricomporre il lutto in una forma di identità. Non è un caso che la risoluzione del complotto politico corrisponda a una presa di coscienza definitiva in prima persona da parte del protagonista; il lucido esponente sociopolitico in questo senso sta in bilico tra un MacGuffin, un mero espediente, e una funzione di amplificazione sentimentale, visto che la descrizione del dramma politico e sociale non è solo un modo per esplicitare il lutto ma allo stesso tempo non guadagna mai la scena principale (neanche in momenti determinanti, ricondotti a dimensione psicologica dal fuori campo).
La qualità della grafia di Filomarino sta nell’impressionare i due percorsi in un’unica immagine: è la grafia di cui sopra, che torna per dire dell’assenza che definisce l’identità nel continuo rimpallo tra assente e presente. Mentre in Antonia il vettore della dialettica tra identità e perdita era una progressiva addizione e concentrazione di sensazioni corporee fino al loro dissolversi – la progressiva perdita delle speranze era patita dal corpo e come esorcizzata fino alla scomparsa, con il suicidio, di Antonia stessa – in Beckett avviene l'opposto, un movimento di virtualizzazione che sfocia nel corporeo, in cui il trauma provocato dalla perdita improvvisa della fidanzata è elaborato dal protagonista attraverso una serie di virtualità (le virtualità spettrali della geopolitica) che ingigantiscono la ferita su dimensioni pubbliche senza perdere però l’intensità propria della dimensione raccolta che gli è propria. In entrambi i casi l'immagine è in grado di cogliere l’assenza di ciò che era presente o la sua persistenza in forma di ricordo, il concretizzarsi del virtuale e la fantasmatica virtualità del concreto. In Beckett è la grafia di questa immagine a dire del segno che costituisce l'identità in lutto, privata e pubblica, è la grafia a dire della presenza di una ferita invisibile ma non cancellabile, persistente anche se sottile. Anche solo, come si nota nel finale del film, nella forma di un disegno d’amore che resiste sul palmo della mano mentre tutto intorno sbiadisce in un grande boato.
LOCARNO GRANDI SPERANZE: PROFILI SELEZIONATI
In seguito all'arrivo di numerose candidature in merito al progetto Locarno Grandi Speranze, ideato dall’associazione Filmidee, insieme a Locarno Film Festival e Agis Lombarda con il contributo di Fondazione Cariplo, i profili selezionati per le borse di studio sono i seguenti:
Tommaso Santambrogio
Giulia Oglialoro
Giulia Zini
Pietro Floris
MariaVittoria Daquino
Gilda Panizza
Rebecca Ricci
Tommaso Frangini
Inoltre grazie all'alta qualità delle candidature ricevute saranno inclusi nel progetto ulteriori otto profili:
Claudio Balboni
Mattia Borgonovo
Antonio Morra
Gabriele Umidon
Luca Grazioli
Eva Olcese
Chiara Asia Carnevale
Chiara Delbecchi
I filmmaker e i critici selezionati alloggeranno al BaseCamp, uno spazio per i giovani del Locarno Film Festival, nato in collaborazione con il comune di Losone. Oltre a permettere a duecento giovani di soggiornare gratuitamente nella regione dal 4 al 14 agosto, il BaseCamp è un’occasione d’incontro unica, un’esperienza comunitaria condivisa in cui 200 ragazzi vivranno insieme per dieci giorni condividendo progetti creativi ad hoc e la vita del Festival: un tutor seguirà da vicino i partecipanti, permettendo di cogliere al meglio l’opportunità tra incontri professionali e scrittura critica.
Inoltre, a partire dall'ultima settimana di settembre si terrà Locarno a Milano: una serie di proiezioni di alcuni film selezionati dal concorso ufficiale del Locarno Film Festival, con lo scopo di valorizzare lo scambio di contenuti di alta qualità artistica e culturale tra il capoluogo lombardo e uno dei festival più importanti del mondo.
LOCARNO GRANDI SPERANZE CALL FOR ACTION
L’associazione Filmidee, insieme a Locarno Film Festival e Agis Lombarda con il contributo di Fondazione Cariplo, ha messo a punto un’azione pensata per valorizzare l’ingresso nel mondo del cinema internazionale di giovani professionisti dell’area lombarda. Otto borse di studio, rivolte a giovani registi e critici che sono domiciliati in Lombardia per nascita o motivi di studio, permetteranno di seguire l’attività del Locarno Film Festival da protagonisti. Questo progetto è stato pensato per favorire lo scambio tra il settore cinematografico lombardo e il grande festival internazionale più vicino (geograficamente e idealmente) a Milano.
I filmmaker e i critici selezionati alloggeranno al BaseCamp, uno spazio per i giovani del Locarno Film Festival, nato in collaborazione con il comune di Losone. Oltre a permettere a duecento giovani di soggiornare gratuitamente nella regione dal 4 al 14 agosto, il BaseCamp è un’occasione d’incontro unica: è un’esperienza comunitaria condivisa in cui lo spirito di adattamento e d’iniziativa saranno indispensabili. 200 ragazzi vivranno insieme per dieci giorni condividendo progetti creativi ad hoc e la vita del Festival: un tutor seguirà da vicino gli otto partecipanti lombardi, permettendo di cogliere al meglio l’opportunità tra incontri professionali e scrittura critica. Per ulteriori informazioni sul BaseCamp cliccate qui.
Proprio per la natura unificatrice e per le condizioni di soggiorno del BaseCamp la situazione ideale per tutti prevede che coloro che verranno selezionati abbiano già effettuato entrambe le dosi del vaccino anti covid, per poter procedere in serenità e allegria durante questi giorni di festa e arte condivisa.
Il Festival offrirà, assieme a un accredito, il soggiorno al BaseCamp per i candidati che si presenteranno tramite questo bando. Il collegamento tra il BaseCamp a Losone e il cuore del Festival sarà costante, aprendo così a ragazze e ragazzi le porte sul palcoscenico di uno dei Festival cinematografici più importanti del mondo.
La 74esima edizione del Locarno Film Festival si terrà dal 4 al 14 agosto 2021.
Per partecipare al bando potete scrivere a info@filmidee.it, con oggetto RESIDENZA LOCARNO GRANDI SPERANZE e in allegato cv (con luogo e data di nascita, scuola/università che si sta frequentando, link a film realizzati o articoli scritti) e lettera motivazionale. La scadenza per la presentazione delle candidatura è prevista per Domenica 11 luglio.
OLTRE LA SPECIE
Space Dogs è un film di Elsa Kremser e Levin Peter, presentato nel 2019 in anteprima mondiale al Festival del Film di Locarno e ora in concorso a IsReal - Festival del Cinema del Reale di Nuoro. Un'opera sorprendente che riesce nel compito di minare dalle fondamenta lo sguardo antropocentrico per restituire potere all'occhio animale. I registi seguono un branco di cani randagi nei sobborghi di Mosca, conformandosi ai ritmi e alla dimensione “extra-morale” delle loro esistenze e intervallando il pedinamento con filmati di repertorio che testimoniamo degli esperimenti compiuti ai danni dei cani mandati in orbita durante la corsa allo spazio, tra i quali la tristemente nota Laika.
Da dove nasce lo spunto per il film e come siete arrivati all’idea di Laika e dei cani moscoviti?
(EK) All’inizio volevamo dedicarci ai cani randagi. Volevamo cambiare la prospettiva, il punto di vista, era qualcosa che avevamo in mente a livello cinematografico. A parte questo, non avevamo molto altro. Non c’erano location specifiche, volevamo soltanto seguire questo gruppo di cani randagi e osservarlo da vicino, molto vicino. Solo successivamente ci siamo resi conto che c’erano cani là fuori nello spazio e cani qui, per le strade. E che c’era un fantasma che tornava indietro nel tempo. Da quel momento in poi è stato davvero affascinante scoprire Mosca attraverso lo sguardo di questi cani; anche perché noi, prima, non la conoscevamo, ed eravamo arrivati in città con lo scopo di fare un casting per trovare i nostri protagonisti. Abbiamo davvero girato in lungo e in largo, da nord a sud, da est e a ovest, e ne abbiamo incontrati molti.
Un casting inusuale trattandosi di un casting canino, anzi di cani randagi. Immagino sia stato complesso.
(PL) Molto difficile, ovviamente. Era la principale preoccupazione che avevamo quando abbiamo iniziato a girare. Non sapevamo che fine avrebbe fatto il branco scelto. Infatti siamo partiti per due settimane durante una pausa di lavorazione e, quando siamo tornati, se ne erano andati. È stato molto snervante. Alcuni ci dicevano per esempio: “andate a nord, in quell’area industriale” e noi andavamo a nord e non c’erano cani. E allora un altro ci diceva: “No, no, dovete andare a sud, per le strade”. Ci sono state settimane in cui ci svegliavamo al mattino presto e andavamo su e giù per la città alla ricerca del branco, è stato molto frustrante. Ma volevamo davvero che questi cani fossero i protagonisti principali, gli “eroi”, quindi dovevano essere speciali. Lo spazio attorno a loro doveva essere molto particolare, diverso, e loro dovevano essere figure molto forti. Ci sono voluti mesi per trovarli. E poi abbiamo scoperto abbastanza presto che in realtà non facevano grandi giri in città: il loro territorio era piuttosto ristretto e tutti avevano un luogo in cui dormire, una tana, una sorta di casa. Questa scoperta ci ha aiutato moltissimo. Così, alla fine, le riprese ricominciavano nel luogo in cui andavano a dormire, li incontravamo lì e iniziavamo a girare. Siamo stati fortunati che il territorio del branco fosse così limitato.
Sempre a proposito dei cani: la questione di sguardo è centrale nel vostro lavoro. Nel film configurate uno sguardo non antropocentrico, teso a problematizzare la visione dello spettatore, il cui occhio viene portato ad altezza di animale. La scelta era presente già in principio d’opera o è emersa successivamente in relazione al comportamento dei cani?
(EK) Era un punto cruciale da molto prima di iniziare a girare, forse già da un anno prima. Perché nella storia del cinema, personalmente, non conosciamo film che siano andati davvero in quella direzione, dedicando così tanto spazio alla visione non umana. Ovviamente c’è sempre un punto di vista umano perché nel cinema c’è sempre lo sguardo umano, ma volevamo tentare di staccarci da ciò per vedere dalla prospettiva dei cani. Io sono cresciuta con molti cani intorno a me, perché i miei genitori erano allevatori. Volevo rendere al cinema questo sentimento molto infantile portandolo a un livello più alto e condividendo anche altre emozioni, per mezzo dell'osservazione. Perché ovviamente quello che fanno altri film, come quelli della Disney, è semplicemente prendere gli animali e affibbiargli un ruolo antropomorfo. Si crea qualcosa che sia facilmente comunicabile allo spettatore. Ma così si impone qualcosa, il loro aspetto, la loro apparenza è tradita. Quello che volevamo fare noi era creare uno spazio cinematografico aperto in cui si potesse guardare per molto tempo un cane, per un tempo davvero lungo, ma sempre in modo “cinematografico”, come se si guardasse un attore, e poi domandarsi cosa ci si è visto dentro, come esseri umani. Guardarli veramente, ecco: quello che volevamo fare era guardarli veramente!
Vi era chiaro dall’inizio che avreste girato all’altezza degli occhi dei cani?
(PL) Non abbiamo mai avuto dubbi a riguardo. E la cosa interessante è che abbiamo portato il punto di vista di Elsa da bambina. Lei era alta come i cani da caccia che aveva in casa. Per me invece era un’esperienza del tutto nuova rispetto a quella avuta da Elsa. E quando eravamo lì a fare le nostre ricerche per me non era molto cinematografico, ma al contrario era abbastanza noioso il doversi abbassare con la camera all’altezza dei loro occhi. Era molto più stressante, più caotico. Con gli umani è molto diverso, sono più grandi, l’angolazione è molto diversa, ogni movimento è molto più preciso.
Infatti non cercate mai di antropomorfizzarli. Sono cani, non sono umani. Il loro comportamento è canino. All’inizio ci sono anche delle scene molto divertenti, come quella dell’allarme per esempio. Però alla fine le scene più potenti, quelle che restano più impresse, sono quelle dei cani randagi che “si comportano” da randagi. Queste scene pongono lo spettatore stesso davanti all'impossibilità di antropomorfizzarli.
(EK) In fase di montaggio è stato uno dei nostri obiettivi. Inizialmente si può pensare: “Ah che teneri questi cani! Che bello guardarli! Fanno cose divertenti.” Poi iniziano a scontrarsi intorno alla macchina, per il pallone... Tutti vogliono cani carini, dolci, amichevoli. Li abbiamo messi lì perché volevamo mostrare che è sbagliato pensarli come “solo carini”, perché in realtà sono animali selvaggi. Basti pensare alla scena del gatto, è una visione molto crudele, spaventosa, scioccante, ma ovviamente per loro non lo è, stanno semplicemente seguendo il loro istinto anche se non hanno bisogno di uccidere per sopravvivere. È stato molto strano quando è successo, e anche per noi che eravamo lì è stato abbastanza orribile. Perché è così difficile, vedere un cane uccidere un gatto rispetto a un leone uccidere una gazzella? Perché? Tutta la troupe ha reagito allo stesso modo, è stato duro. Ma ovviamente un cane dovrebbe essere controllato da un umano, non essere pericoloso e ovviamente un gatto dovrebbe essere dolce e al sicuro. Questo è il motivo per cui è così contraddittorio; ma questi animali sono selvaggi, vivono in strada, non hanno padroni, questa è la loro vita e l’atto di uccidere è qualcosa che semplicemente capita.
(PL) Siamo consapevoli del fatto che la scena dell’uccisione nel film sia un’esperienza diversa. Ovviamente abbiamo deciso di non stare troppo vicini, in quel momento, e il film lì mostra tutte le sue contraddizioni, perché non è facilmente categorizzabile. I movimenti di camera sono molto rudi ma allo stesso tempo c’è un’armonia. Credo davvero che quella scena contenga tutto quello che volevamo creare e, dall’altra parte, credo che sia anche ciò che l’ha resa così dura per le persone da vedere. Se fosse stato un unico piano da lontano, da 50 metri, senza movimenti di camera, parleremmo di un altro film.
È una scena cruciale nel film. Penso che sia il momento in cui dimostrate che il vostro sguardo non è giudicante. Forse alcuni non lo capiscono subito ma poi diventa molto evidente.
(PL) Sì, ovviamente tutto era fuori controllo in quel momento. Ci avete chiesto come abbiamo lavorato con i cani, come è stato possibile “controllarli” il più possibile. Ma in quel momento è chiaro che non c’era alcun controllo.
E voi avete deciso di essere parte di quell’atto, di partecipare.
Sì, perché è un momento importante per loro, questo è il punto!
Vedendo il vostro film è impossibile non pensare al testo scritto da John Berger sull'impossibilità di un mutuo riconoscimento tra lo sguardo dell'uomo e quello dell'animale...
(EK) Assolutamente! Era uno dei nostri testi di riferimento, così come il suo romanzo King: A Street Story, tutto raccontato dal punto di vista di un cane randagio.
È anche una sfida per il pubblico, capire le differenze tra lo sguardo umano e il loro comportamento. C’è anche la parte della scoperta dello Spazio, con un materiale d’archivio straordinario. Troviamo che ci sia una sorta di componente umana della scoperta. Spesso nella filmografia dedicata allo Spazio si parla di eroi e grandi successi, ma vedere questi cani può sembrare un paradosso: mostrate un lato della sofferenza spesso appannaggio unicamente degli esseri umani. Com’è stata la scoperta di questi materiali d’archivio e come hanno preso parte al film e lo hanno influenzato, nelle riprese e nella sua stessa forma?
(EK) In realtà il materiale d’archivio è arrivato molto dopo, al momento del montaggio. Quindi non abbiamo scoperto che tesoro avevamo tra le mani, se non molto tardi. Dopo molti anni di lavoro e dopo aver ottenuto queste riprese mai viste, le abbiamo guardate e ci sembravano di sci-fi, come la fantascienza di una volta. Erano belle riprese, ed era evidente che ci fosse un grande sforzo dietro per renderle esteticamente belle, anche se si trattava soltanto di documentazione scientifica, materiali realizzati in un contesto molto specifico. Ma la scoperta di quello che davvero accadeva a questi animali, il vederlo con i nostri occhi dopo 22 giorni che erano nella capsula spaziale, vederli lì, a guardare fuori dall’oblò, per tre settimane, è stato incredibile. Come la scena in cui devono re-imparare a camminare, che è stata fortissima. Riguardo questa combinazione di girato, avevamo sempre avuto centinaia di idee e riferimenti, approcci molto diversi, anche perché non sapevamo che materiale d’archivio avremmo avuto per le mani, non c'era nulla di pianificato. Avevamo un’idea generale e altre diverse, a corollario, alcune molto stupide e altre che ovviamente non sono nel film. Questo è stato importante perché sapevamo che avremmo dovuto legare le cose, ed è stato difficile creare questa connessione nel modo giusto. Volevamo farlo senza far percepire interruzioni nel tempo, dando la sensazione nel film che in qualche modo non fosse importante quando fosse accaduto qualcosa e che i livelli di tempo e racconto propri della Mosca contemporanea e dei materiali d’archivio fluissero l’uno nell’altro.
(PL) Esatto. Parlando di forma: i materiali d’archivio hanno dettato molto in sede di montaggio, semplicemente perché siamo riusciti a lavorare soltanto con parti molto brevi, ed è stato interessante perché era materiale molto costoso per l’epoca, in 16mm e con bellissime riprese fatte per pochissimi secondi. Questo è quello che ho trovato molto interessante nel nostro film, nella forma, nel modo di pensare il cinema, del fare film. C’è il nostro girato a Mosca, centinaia di ore di materiale, una raccolta di tonnellate di dati, riprese molto lunghe e poi, al contrario, questo archivio così limitato, un vero tesoro. Sapevamo che al montaggio avremmo avuto due livelli da organizzare, uno sarebbe stato quello notturno con i cani e l’altro il materiale d’archivio, e avevamo uno spazio limitato, il che è stato frustrante, perché non siamo sempre riusciti a fare quello che avremmo voluto.
Il narratore è stato d’aiuto in questo senso. L’utilizzo della voice off vi è venuto in mente dopo?
(EK) Molto presto in realtà, l’idea di avere un narratore, così come lo stile di base del film, ci erano da subito molto chiari, doveva essere qualcosa tra la pazzia scientifica, un diario e una voce dallo spazio più profondo. Creare il testo è stato comunque un lavoro molto lungo, siamo stati fortunati perché avevamo a disposizione vari diari di scienziati che avevano lavorato con i cani e da questi abbiamo tratto parecchie folli e incredibili informazioni. Ci sarebbero libri interi da riempire con quelle storie! Abbiamo davvero lavorato per condensarle tutte, una frase viene eliminata per essere sostituita da un’altra e poi una parola, e così via fino alla fine, quando siamo arrivati a un testo davvero sintetico, essenziale.
Parliamo del suono e della musica, che sono molto importanti. Visto che gli animali non parlano, li capiamo anche attraverso le voci, i suoni. Come avete lavorato alla composizione sonora?
(PL) Sapevamo fin dall’inizio che nel film non ci sarebbe stato linguaggio né dialoghi, quindi ogni suono della città era molto importante e i cani, anche nel rumore della città, riescono a sentire piccoli suoni provenire da ogni parte. Volevamo lavorare su questo. I materiali d’archivio erano invece silenziosi e questa è stata un’altra sfida con il sound designer, un lavoro di più di due anni per creare livelli diversi.
(EK) Poi ovviamente volevamo creare qualcosa che si collegasse ai film di fantascienza, perché ne abbiamo guardati diversi nel periodo di realizzazione del film! In qualche modo abbiamo cercato di ricreare il suono e l’atmosfera della navicella spaziale che vediamo nelle immagini di archivio. Abbiamo cercato di portare l’atmosfera degli archivi nel mood della colonna sonora. Anche se il tema musicale viene fuori dalla combinazione tra i suoni di Mosca, i suoni degli archivi e i suoni dello Spazio, Jonathan (Schorr) e Simon (Peter) hanno lavorato tantissimo sulle singole composizioni. Abbiamo iniziato a confrontarci molto presto con loro, dell’idea che avessimo bisogno di un tema per Laika e per i fantasmi, e ci sono state tante conversazioni su temi metafisici. Così sono arrivati a questa musica straordinaria.
(PL) Credo che la parte più difficile per John, il musicista, fosse che noi gli avevamo detto fin dall’inizio che si sarebbe dovuto trattare di musica classica ma in un’accezione science fiction. Che sarebbe dovuta essere analogica ma che non avremmo voluto un’orchestra. Lui ha lavorato con questo incredibile strumento che è il Roli Seaboard che permette sonorità incredibili e ha dato il risultato che volevamo.
(EK) E poi ha aggiunto veri violini e strumenti perché non voleva creare una musica artificiale, ma qualcosa di futuristico in chiave retrò.
Intervista realizzata da Alessandro Del Re e Alessandro Stellino il 10 agosto 2019 durante il Festival del Film di Locarno. Trascrizione e traduzione a cura di Giulia Briccardi.
LOVE ME TENDER
A tre anni da Il nido, Klaudia Reynicke torna a Locarno nella sezione Cineasti del presente con Love me Tender, per immergersi nel racconto della vita di una giovane ticinese, filtrato da un angolo di osservazione obliquo e nascosto. La casa di Seconda, sin troppo giovane proprietaria di un appartamento di proprietà familiare, raccoglie a stento la luce proveniente dal mondo esterno, simbolicamente racchiuso in una piazza bianca e squadrata. Seconda di due figlie, la ragazza vive dolorosamente in un luogo che trattiene le tracce di una memoria imprescindibile, i segni di una tragedia che a poco a poco decreta la morte di ogni colore e forma di vita presente.
Ogni stanza, vissuta come nel corso di un’eterna e noiosa estate, è satura di elementi e tinte stantie, oggetti usurati e piccoli cimeli, che sembrano ammiccare alla composizione di una natura morta, nella quale si specchia il corpo potenzialmente energico della protagonista, unico barlume di vitalità, alla ricerca di una liberazione. Vitali e incalzanti risultano anche i ritmi musicali di alcuni degli istanti più catartici della vicenda, insieme a quelle che potrebbero essere identificate come delle sorprendenti e a volte pedanti apparizioni di immagini semi-surreali, chiaramente forgiate sulla simbologia del dolore di Frida Khalo: molto probabilmente un modello di resistenza e anticonformismo scelto da Reynicke per sottolineare la forza sovversiva della protagonista.
Costruendo la storia estrema di Seconda, la regista riesce a ritrarre con un gioco metaforico sottile e narrativamente essenziale non solo la paura dello scontro tra una giovane donna e il mondo esterno (i codici patriarcali che lo nutrono), ma anche, secondo un meccanismo inverso, le reazioni difensive o aggressive di chi crede di possedere una forza maggiore e invece si rivela, immancabilmente, portatore delle stesse debolezze e paure della propria preda. Da agorafobica, Seconda sostituisce gli incontri e i contatti quotidiani attraverso un surrogato: le immagini di lezioni di aerobica assorbite passivamente guardando la tv. Ogni confronto con l’esterno si realizza pertanto nell’aderenza a un modello estetico dominante o all’interno di una “tuta-muta” che racchiude il corpo della protagonista, rendendola particolarmente identificabile, ma, al contempo, opaca e insondabile, proprio come uno schermo spento o mal funzionante.
Il suo personaggio, spesso ripreso in istanti di annoiata o euforica intimità (tanto da far pensare alla giovane Akerman di Saute ma ville), pur volendosi sottrarre alla finzione e alle messe in scena della vita, incappa nell’inevitabile, dichiarando a gran voce la forza schiacciante degli schemi di relazione che abitano il quotidiano, e dando origine a un percorso labirintico che avrebbe come unica via d’uscita la morte, se solo non fosse anch’essa beffata da una reazione provocata da agenti estranei e disturbanti. Un film sorprendente e coraggioso.
L'OSPITE
Ultimo film del regista toscano Duccio Chiarini, L’ospite è inaspettatamente segnato, nel bel mezzo del racconto, dall'apparizione di Brunori Sas: il cantautore indipendente cosentino si esibisce in una camera da musica che è puro sogno, una rêverie romantica che punta i riflettori su Roberta e Guido, alla loro prima uscita di coppia dopo storie d'amore rivelatesi, per un verso o per un altro, vicoli ciechi. La performance di Brunori è tutto l’inverso del mondo di vite e rapporti umani ricreati dal film: diluisce, in un istante, le asprezze caratteriali sapientemente messe in scena, appiattendone l’ostica complessità emotiva. Per fortuna, il momento è un finto lieto fine che fa riguadagnare spazio, un attimo dopo la dissolvenza, alle paturnie dei protagonisti, sempre inseriti in una cornice tragicomica, da cui quasi sembrano dipendere: giovani non più veramente giovani che fanno i conti con le proprie scelte e tentano, ognuno come può, di rimescolare le carte in tavola e raggiungere uno sprazzo illusorio di vero sentire, di vita desiderata.
L’ambientazione sociale del milieu borghese romano è del resto quella probabilmente più vicina alla realtà del giovane regista, che in Hit the road, nonna aveva raccontato le vicende anticonvenzionali di una nonna indipendente alle prese con le memorie dei fasti della sua carriera passata. Guido, la sua famiglia e i suoi amici abitano case spaziose e ben arredate, e in alcuni casi sembrano essere inseriti in luoghi che vanno al di là delle loro possibilità economiche. Quest’ultimo è proprio il caso di Guido: ricercatore precario, decide di spostarsi a vivere da solo, dopo aver abitato in un enorme casa-giocattolo con Chiara, mentre è evidentemente in ristrettezze economiche. L’incoerenza potrebbe essere fine a se stessa, oppure nascondere la volontà del regista di risvegliare “l’onirismo comico” connaturato ai propri set, come già accadeva per cifre opposte, estive, in Short Skin, conferendo loro una nota di stile e una visione estetica fondamentalmente paradossale, ma, in verità, neanche troppo lontana dalla realtà: quanti sono, in Italia, i ricercatori attempati che continuano a gravitare nell'ambiente accademico appoggiandosi in gran parte sulle risorse economiche (tra l’altro a rischio esaurimento) della propria famiglia d'origine?
Il paradosso estetico e le sue astrazioni diventano più intense nella rappresentazione dello spazio che avvolge le peregrinazioni del protagonista. Siamo nel centro di Roma, la città è pittoresca in alcuni scorci passeggeri, ma risulta, al contempo, essenzialmente caotica, abbandonata a se stessa. Forte e netto il senso di spaesamento reso dai quadri di Guido che attraversa un breve tratto della stazione Tiburtina o che aspetta, per un tempo palesemente infinito, l’autobus sotto una pensilina nuova, ma già profondamente usurata e votata allo sfacelo. Guido, il primo di una galleria di personaggi sempre più sfaccettati psicologicamente, diventa a partire dalla propria condizione l'elemento dinamico e il punto di osservazione non solo della città, ma anche della vita dei suoi amici, dei famigliari, di chi, in un modo o nell'altro, entra a far parte del suo quotidiano in un’ineludibile, e dolorosa, fase di cambiamento sentimentale.
La rottura di una lunga storia d’amore, quella tra Guido e Chiara, è inscenata mediante la creazione metaforica di crepe e punti di rottura che alludono alle ferite del cuore di Guido, all’allontanamento forzato del protagonista dal vecchio se stesso, dalla vita sentimentale, lavorativa e anche famigliare alla quale pensava di essere votato. Chiara e Guido, avvolti in una nudità diafana, constatano con un’intensità sempre maggiore la fine spietata di un rapporto, tentando, al contempo, di rispettare con dignità le sue spoglie: un nostalgico e profondo affetto reciproco, il bizzarro legame tra ex, che Chiarini riesce a tratteggiare con delicatezza, senza cadere in plateali esplosioni di disperazione. Il vuoto creato nella vita del protagonista si dispiega in una discreta ansia tachicardica, ma anche nell’occasione di poter guardare meglio nella quotidianità degli altri, di comparare le relazioni (tutte potenzialmente critiche) ed esplorare, come il citato Palomar, i significati insiti nell’osservazione della realtà.
Spostandosi da un divano di un amico a quello di un altro, Guido è uditore di storie che, a partire da una base bozzettistica, diventano gradualmente sempre più autentiche e dettagliate, sempre più complesse. Ogni storia si schiude e guadagna veridicità psicologica a partire dai dialoghi instaurati tra Guido e i suoi conoscenti, tra quello che potremmo considerare un narratore-protagonista e le figure con cui si esprime un confronto quasi sempre frustrato. L’intimità dei dialoghi diventa il fulcro narrativo di un meccanismo virtuoso sia per la vicenda, sia per il valore complessivo del film, che fin dalla regia, spesso impegnata nel mettere in scena confidenze a due e conversazioni collettive, si presta a diventare metafora della necessità di uno scambio umano concreto, di un ascolto silenzioso dell'altro, finalmente gratuito, malinconicamente universale.