LOCARNO A MILANO 2022
Torna Locarno a Milano! Alcuni dei film più interessanti del Locarno Film Festival verranno proiettati al Cinema Beltrade di Milano, per ribadire il rapporto sempre stretto e proficuo tra la capitale meneghina e uno dei festival più importanti del mondo.
I film di Locarno a Milano:
REGRA 34 di Julia Murat
Brasile/Francia, 2022, 100’, v.o. portoghese, s.t. italiano
Concorso internazionale – Pardo d’oro, Gran Premio del Festival della Città di Locarno
Simone è una giovane studentessa di giurisprudenza che per lavoro segue in maniera appassionata e perseverante i casi di abusi nei confronti delle donne, nonostante i propri desideri sessuali la portino verso un mondo in cui si intrecciano violenza ed erotismo. Il terzo lungometraggio di finzione della regista brasiliana Julia Murat pone una riflessione sulla vera natura delle regole che informano la socialità, sia dal punto di vista pubblico che da quello privato. Il sadomasochismo viene visto come tratto comune della storia del Brasile, partendo dal colonialismo, passando per la dittatura passata e arrivando a quella presente.
GIGI LA LEGGE di Alessandro Comodin
Italia/Francia/Belgio, 2022, 98’, v.o. italiano/dialetto fiulano, s.t. italiano/inglese
Concorso internazionale – Premio speciale della giuria dei comuni di Ascona e Losone
Gigi è un vigile di campagna, dove sembra non succedere mai niente. Un giorno però una ragazza si uccide sotto un treno. Non è la prima volta. Comincia un’indagine su un’inspiegabile serie di suicidi attraverso un mondo di provincia a metà tra realtà e fantasia, dove un giardino può anche essere una giungla e un poliziotto avere un cuore sempre pronto a sorridere. Nel terzo film di Alessandro Comodin tutto sembra semplice e al contempo vertiginoso: quel giardino è la sineddoche di un microcosmo stregato, una periferia dell’anima che, prima ancora che scenario naturalistico, al regista interessa in quanto astrazione, geografia fatale della legge del cuore.
MEDUSA DELUXE di Thomas Hardiman
Gran Bretagna, 2022, 100’, v.o. inglese, s.t. italiano
Piazza Grande
Medusa Deluxe è un thriller ambientato durante un concorso ad altissimo tasso di competizione. Stravaganza ed eccesso si incontrano e si scontrano, mentre un omicidio semina discordia in una comunità la cui passione per i capelli rasenta l’ossessione. L’opera prima di Thomas Hardiman si fa apprezzare per una messa in scena e una fotografia volutamente lisergiche, dove il colore diventa tratto narrativo, senza abbandonare il buon gusto e la giusta misura delle cose. Del resto, come ha affermato lo stesso regista, i capelli sono la corona che non ti togli mai.
ASTRAKAN di David Depesseville
Francia, 2022, 104’, v.o. francese, s.t. italiano
Concorso Cineasti del presente
Samuel è un orfano dodicenne dai modi selvatici che da qualche settimana è stato messo a balia da Marie. Quest’ultima, sposata con Clément e madre di due figli – Alexis e Dimitri –, si dibatte tra i propri sentimenti e il bisogno di soldi. Ben presto Samuel dovrà fare la conoscenza di questa nuova famiglia e scoprirne i segreti. Un film che partendo dalle istanze più realiste del cinema francofono approda tuttavia verso ampi momenti marcatamente metaforici, perfetta rappresentazione dei moti interiori del protagonista. Questa alternanza tra una messa in scena che ricorda il miglior cinema dei Dardenne e sprazzi di uno stile quasi barocco assiste la grande prova dell’attore protagonista, che davanti alla macchina da presa impressiona per la sua inquietante semplicità, mostrandoci un mondo volutamente ambiguo e misterioso.
SEMRET di Caterina Mona
Svizzera, 2022, 85’, v.o. tigirino/svizzero tedesco, s.t. italiano
Piazza Grande
Semret è una madre single eritrea che lavora all’ospedale di Zurigo. Quando la giovane figlia la incalza per saperne di più sulle sue origini, la donna rifiuta il confronto. Ma per non perdere ciò che ama, dovrà comunque affrontare il passato. L’opera prima di Caterina Mona è un film su come il trauma possa influenzare la propria vita e quella dei propri cari. La regista si affida alla forza della sottrazione, costruendo un film che con delicatezza e decisione entra nelle pieghe di un rapporto viscerale segnato dalla frattura della migrazione.
Locarno a Milano è la seconda fase del progetto Grandi Speranze: un ponte tra Locarno e Milano, un progetto di Filmidee in collaborazione con AGIS lombarda e Locarno Film Festival, con il contributo di Fondazione Cariplo e il supporto del Consolato svizzero di Milano.
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VENEZIA 79: POLITICA E POETICA DELLA CURA
“The wrong things are kept private in our society and it destroys people”
Nel 2019 la National Portrait Gallery di Londra rifiuta una donazione da 1.8 milioni di dollari da parte della famiglia Sackler. Storici filantropi e collezionisti d’arte, i Sackler sono proprietari della Purdue Pharma LP, azienda che produce e distribuisce OxyContin, un analgesico oppioide comunemente prescritto in caso di interventi o malattie gravi che ogni anno porta alla dipendenza e morte per overdose centinaia di migliaia di statunitensi. Varie sono le pressioni dal mondo dell’arte che inducono a tale scelta: prime fra tutte quella della fotografa e artista (nonché sopravvissuta a un’overdose da Oxycotin) Nan Goldin, che minaccia di ritirare le proprie opere dalla galleria. È la prima vittoria del gruppo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), fondato nel 2017 da Goldin stessa, che scatena una reazione a catena di boicottaggi ai Sackler da parte dei più importanti musei occidentali culminati nella rimozione del nome dell’azienda dal Louvre.
All the Beauty and the Bloodshed nasce nel segno della collaborazione tra la regista Laura Poitras e l’artista e fotografa Nan Goldin allo scopo di esporre il coinvolgimento e la responsabilità del mondo dell’arte nell’epidemia degli oppioidi. La posizione dell’artista verso il sistema contro cui sta lottando produce un’angolazione inedita sul problema dell’epidemia degli oppioidi, ampiamente discusso e parte centrale del dibattito sulla stato attuale della sanità nordamericana. Ma tale forza narrativa non viene sfruttata nella composizione di una storia eroica e lineare o, come potrebbe sembrare ad un primo sguardo, semplicemente biografica, bensì nello svelamento ed evocazione di un’archeologia di significati e possibilità, di una pratica e di un processo. Come sottolinea la voce fuori campo di Nan Goldin all’inizio del film “non si può raccontare un ricordo. Le storie non sono in grado di raccontare i ricordi, perché eseguono necessariamente un atto di semplificazione che verte al lieto fine. Mentre le memorie sono sporche, e hanno un cattivo odore”.
Così il demone interiore di Goldin, l’impossibilità di mantenere in vita le persone a lei care se non con un’istantanea, diventa la premessa registica di verità con cui Poitras riesce a creare un documentario capace di andare oltre la denuncia sociale per mettere in discussione i termini stessi del discourse contemporaneo riguardo cosa s’intenda per “pratica di cura”. Riprendendo scelte formali e contenuti fotografici da I’ll Be Your Mirror di Goldin e David Armstrong, le sequenze sulla biografia dell’artista sono guidate da un’intervista in cui la sua stessa voce espone con lucidità i momenti fondanti della sua vita e del suo percorso artistico (informandosi a vicenda). L’intimità del dialogo che si instaura tra intervistatrice e intervistata è fedele alla pratica artistica di Goldin stessa, alla ricerca di un’esposizione libera del soggetto per mezzo di un rapporto di fiducia, scambio e cura. Nan Goldin fotografava i suoi amici – le queens che avrebbe voluto portare sulle copertine di Vogue – e successivamente permetteva loro di appropriarsi delle istantanee, conservare le preferite e stracciare quelle in cui non si piacevano. Gli slideshow erano veri e propri eventi all’interno della comunità queer newyorkese: davanti alle immagini proiettate si ballava, si applaudiva, si contestava. Le fotografie venivano cambiate e riarrangiate – il soggetto della fotografia era parte del processo artistico, artista stesso, dall’inizio alla fine.
L’urgenza delle azioni politiche del gruppo PAIN, cascate di finte prescrizioni macchiate di liquido rosso che coprono i corpi inermi degli attivisti nel Guggenheim o repliche di boccette di Oxycotin lanciate attorno al Tempio di Dendur del Metropolitan, emerge nel riuscire a liberarsi dalla logica della società dell’immagine, del racconto a lieto fine incapsulato in un hashtag, grazie alla consapevolezza artistica dell’opera di Goldin e del suo attivismo. L’esposizione (nel senso di “expose vs exhibit”) è il tema politico centrale nelle sue fotografie, contro il silenziamento del mantra “don’t let the neighboors know” dell’America suburbana da cui Goldin scappa in seguito al suicidio della sorella Barbara, capace di vedere attraverso il silenzio dei genitori: “visions of the future and all the beauty and the bloodshed”. L’esposizione dell’assurdo di un atto di cura sistematicamente mancato e insabbiato. Come fu per la costrizione/costruzione sociale del “feminine mystique” e della famiglia nucleare, gli asylum degli anni ’60, la violenza di genere e l’epidemia di AIDS degli anni ’70 e ’80. Momenti della storia degli Stati Uniti che l’artista ha attraversato in prima persona esponendone il sangue versato, ma prima di tutto la bellezza degli atti di cura.
Montando in parallelo i due racconti, da un lato il resoconto biografico dell’artista e dall’altro il reportage del suo recente attivismo con il gruppo PAIN, Poitras rinuncia all’investigazione minuziosa del “caso” Sackler, tipica dei suoi lavori precedenti, e accompagna lo spettatore verso una consapevolezza storica del significato di politica della cura e in ultima analisi di tale consapevolezza come unica modalità possibile di creare arte politica.
Unico documentario in concorso, All the Beauty and the Bloodshed si aggiudica il Leone d’Oro, una scelta sorprendente quanto interessante. Il film accosta due forme che potremmo definire classiche all’interno del genere documentaristico, presentando un’avanguardia piuttosto nella capacità di responsabilizzare il pubblico e fuggendo una narrazione didattica o programmatica. Un manifesto del “non dire ma mostrare” che si dispiega nella pratica più che nella sintesi. I lavori di Goldin sono presentati sotto forma di slideshow, il contenente preferito dall’artista stessa e che con un po’ di licenza poetica possiamo definire provocatorio: forse le opere di Goldin, sono meglio esposte in un film che sulle pareti di musei che ancora non si assumono del tutto la responsabilità delle carenze etiche del mondo dell’arte.
Poitras si mette in qualche modo da parte e lascia alla materia e al soggetto la possibilità di essere liberi e di portare la loro verità. Possiamo comprendere il successo di questo film come rappresentativo di un filo rosso che sembra legare i titoli più coraggiosi in mostra a Venezia quest’anno, come Saint Omer di Alice Diop o Blanquita di Fernando Guzzoni, ovvero la decostruzione e messa in discussione di una definizione formale di verità accettate: cosa significa curare così come cosa significa essere madre o fornire falsa testimonianza, verso la presentazione di un realtà più complessa e necessariamente più umana.
THINK INVISIBLE THINGS
In programma 5, 6 e 7 settembre a Cosenza, torna per la sua sesta edizione il Laterale Film Festival. Il festival internazionale non competitivo e a ingresso gratuito, promosso dall’Associazione Culturale Laterale, continua nel suo percorso di valorizzazione di cortometraggi originali e insoliti, che spesso, ingiustamente, non trovano l’attenzione e la circolazione che meriterebbero.
“Futuro Remoto” è il concept che guida la sesta edizione del festival, una traccia che propone un ripensamento dell’essere umano, come se nella configurazione che conosciamo (sociale, biologica, architettonica) non possa essere più raccontato con i parametri usuali. Allora ci si affida alle sfasature sensoriali, alle analogie, alle metafore animalesche o naturali. “Non si tratta di un post umano come androide, bensì come tentativo di ritrovare l’umanità in un presente rotto” – sottolineano i curatori – “Per correre verso il futuro, bisogna pensare e creare immagini e suoni nuovi, abbracciando un futuro remoto”.
Immagini e suoni che trovano spazio nei 15 film brevi presentati nella selezione ufficiale del festival, lavori in cui la sperimentazione di linguaggi inconsueti non è puro esercizio di stile, ma un modo attraverso il quale interrogare la contemporaneità. Nel cinema cosiddetto sperimentale i mezzi tecnici diventano espressivi e, grazie alla forma breve, gli artisti infrangono “l’obbligo” del racconto per mettere in risalto, invece, le qualità poetiche dei processi creativi.
Impreziosiscono il cartellone della sesta edizione della rassegna tre importanti opere di registi di fama internazionale:
– Quando i corpi si toccano di Paolo Gioli (2012); riproponendo il suo cortometraggio del 2012, il festival rende omaggio a uno dei cineasti più importanti del panorama sperimentale mondiale, scomparso agli inizi del 2022;
– Night Colonies di Apichatpong Weerasethakul (2021), regista thailandese di spicco della scena autoriale contemporanea, che nel corso della sua carriera ha vinto importanti riconoscimenti, fra cui una Palma d’oro, due Premi della giuria e il Premio Un Certain Regard del Festival di Cannes;
– The Night di Tsai Ming-liang (2021), regista taiwanese di culto, vincitore di svariati premi internazionali, fra cui il Leone d’oro della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Il cinema laterale, dunque, è da intendere come frontiera ancora sconosciuta da esplorare con gli occhi grandi dei primi visitatori, con l’euforia che accompagna ogni prima volta. Rinnovare questo entusiasmo significa ricercare senso e valore all’interno di operazioni estetiche che sorgono contro ogni considerazione utilitaristica, in barba alle leggi di mercato. Per gli organizzatori, “cinema” è quella particolare proprietà che possiamo ritrovare in alcuni oggetti, nei film e forse qua e là anche altrove. È il nome di un rapporto, di un sentimento, di una relazione.
I FANTASMI DI OLIVIER
Una presenza infesta gli oltre cento anni del cinema. È quella di Irma Vep, mitica protagonista criminale della serie muta Les Vampires, realizzata nel 1915 da Louis Feuillade e passata alla storia per l'interpretazione della leggendaria Musidora. Olivier Assayas aveva già rivisitato nel 1996 il film e l'icona, inventandosi nella Parigi contemporanea un set molto vivo e un po' sconsclusionato in cui di Les Vampires il vecchio regista in declino René Vidal, interpretato da Jean-Pierre Léaud, girava un remake, attraversato dal corpo e dello sguardo alieni di Maggie Chung, promessa del cinema di Hong Kong e poi compagna di Assayas per diversi anni. Oggi il regista francese scrive e realizza un film per la piattaforma HBO lungo quasi otto ore (lo si può chiamare serie, ma non conviene abbandonarsi a troppo sommarie definizioni), con protagonisti Alicia Vikander e Vincent Macaigne, che sta a metà tra il remake e il sequel, in una zona di confine tra il gusto di tornare sulle proprie ossessioni passate e il bisogno deliberatamente sentimentale di tracciare un bilancio su se stessi e sulle intuizioni del cinema più recente.
Anche per questo Irma Vep può non piacere, specialmente al pubblico più fedele ai crismi della serialità consolidata. È un oggetto gioiosamente intellettuale, cinefilo e quasi autoreferenziale, che procede per adiacenze narrative al limite della dispersione e non per progressioni e conflitti portanti. È un gioco di scatole cinesi in cui a intrecciarsi sono la vita sul set di un ulteriore remake (ebbene sì, una serie per la tv), le scene in formato anamorfico di questo nuovo "progetto", estratti generosi e significativi del muto di Feuillade (in una sorta di lezione non dichiarata di analisi del film), le memorie di Musidora rimesse in scena come digressioni sul set del 1915 e, non ultima, la parabola autoriale e biografica dello stesso Assayas, che nel Vidal di Macaigne trova qui un alter ego al quadrato, con tanto di sedute psicanalitiche e sogni a costellarne ansie, crisi e infinite immaginazioni.
Fulcro della vicenda è la diva Mira Harberg, interpretata da Vikander, ma a partire da questa figura di attrice blockbuster molto autoconsapevole e alla ricerca di svolte personali, che (finalmente) si concede una parentesi artistica su un set europeo nei panni misteriosi di Irma Vep, capiamo che il vero protagonista del film è proprio il cinema. Non tanto o non solo il cinema da finanziare, organizzare, mettere in piedi e concretamente girare – binario comunque portante del racconto: in tanti momenti Irma Vep richiama con forza Effetto notte e quella fitta rete di incontri, sortite, empasse, capricci, seduzioni e bugie di truffautiana memoria; ma soprattutto il cinema in quanto oggetto culturale sempre più sfuggente e ineffabile, intorno alla cui identità e funzione grava ormai il peso insopportabile dell'industria, dei big data, degli avvocati e – in sintesi – delle stesse piattaforme. Per questo Irma Vep apre un canale privilegiato a chi ha conosciuto, magari in tempo reale, il film molto libero del '96, e oggi rivive l'emozione di una storia che lascia percepire molto bene tutto quello che è successo al cinema – e potremmo dire alla cultura digitale tutta – tra la metà degli anni Novanta e il nostro tempo.
Molti personaggi della serie si interrogano in qualche maniera – e con differenti sfumature, intelligentemente studiate in scrittura – sul destino del cinema, che tocca le loro vite e li riguarda da vicino. Ancora una volta, come già si osservava su Sils Maria, Personal Shopper e Double Vies, Assayas porta la riflessione sul cambiamento dell'immagine e della parola nell'era digitale all'interno dei corpi e delle relazioni, tra pubblico e privato e sotto la noia ingombrante della sovraesposizione mediatica. Lo stesso respiro seriale si dissolve oltre ogni tentativo di equilibrata climax drammaturgica: i discorsi si moltiplicano, come frammenti di una riflessione in cui trovano posto, di volta in volta, la cancel culture e il rapporto tra sguardo autoriale (maschile) e ricezione del pubblico, la nostalgia per un cinema puro ed estraneo a qualsiasi compromesso, le etichette classificatorie come strumenti di contrattazione ("È un high-concept movie femminista con protagonista una supereroina, ok?", esclama a un certo punto l'agente americana di Mira per convincerla ad accettare l'ennesimo ruolo commerciale), fino a non meno importanti domande sull'appropriazione culturale e sulla riduzione del medium a mero content, anche quando l'arte si professa indipendente. Proprio perché le riflessioni si propagano di personaggio in personaggio e di bocca in bocca, l'aria che si finisce per respirare è proprio quella di un irredimibile – e sia chiaro, anche molto legittimo e divertente – relativismo, di fronte al quale resta sospesa o continuamente rimandata una questione centrale: perché, di fronte alla smaterializzazione del nostro orizzonte, continuiamo a fare quello che facciamo? Perché, soprattutto, continuiamo a fare cinema? A fare film?
Ed è qui che si rivela una delle caratteristiche più convincenti di Irma Vep, quella di proporsi come un brillante metafilm sul rapporto tra istanza creativa e tensione critica verso ciò che è venuto prima: dimensioni che per Assayas sono naturalmente continue ma che oggi tendono ad essere sempre più sclerotizzate dalle contaminazioni derivative e interessate del post-tutto, e pur considerando l'ipertesto dentro cui siamo immersi, risultano paradossalmente sempre più lontane tra loro. Rifare Les Vampires e, soprattutto, rifare Irma Vep significa per Assayas ricordare "l'assoluta novità che spesso emerge dall'osservazione e dalla reinvenzione dell'antico", per citare una breve frase da A.O. Scott e dal suo recente Elogio della critica, ma al contempo farlo con un autentico desiderio di scoperta, di senso, che è motore della critica più autentica e perimetro di gioco per ogni possibile nuova creazione. Proprio come il regista/magus Kenneth Anger, Assayas rievoca l'angelo caduto del cinema per permettere al cinema di accedere (nuovamente) alla luce.
Che questa luce passi attraverso percorsi fantasmatici, è cosa ormai ben nota dagli ultimi anni di cinema di Assayas. Quello che a Mira viene chiesto in fondo è di credere all'invisibile, lasciandosi guidare dalla presenza di Irma Vep dentro al set e specialmente fuori. Ma a confrontarsi con l'invisibile è lo stesso René-Assayas, che incontra in sogno il fantasma di Maggie Chung, e non teme di sovrapporre la sua immagine (rimpianta) a quella di Alicia Vikander, nella finestra temporale comune in cui, dentro alla tuta sinuosa di Irma Vep, entrambe hanno percorso i tetti notturni di Parigi. Irma Vep è l'immagine mentale intorno a cui tutto si coordina: il lavoro di Assayas, i personaggi del film, il film nel film, fino all'ultimo cortocircuito di senso disponibile nel racconto, sono resi possibili dal fatto che il cinema, per citare Roberto Calasso e la teoria del figmentum nel suo Allucinazioni americane, "mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici, di rendere cosa il fantasma". Di dare consistenza a un sogno perduto, il cui corpo però può attraversare le pareti, scivolando non osservato nella (non) vita degli altri.
A un certo punto René lo afferma candidamente: "I fantasmi hanno poco a che fare con la morte, ma con quello che è morto dentro di noi". Come per Assayas, anche per René fare per la seconda volta lo stesso film significa riconciliarsi con un momento della propria vita con cui non è ancora pacificato, ma a ben vedere tutta la serie è il meraviglioso affresco di un'umanità divisa tra passato e presente, che si perde, entra in contatto o in intimità, si ritrova in piena notte in camere d'albergo dove non dovrebbe stare: un'umanità che cerca di abbracciare la vita, quella buona e quella meno buona, per procedere in una qualche direzione nel tempo. Che questi sentimenti si intreccino alla lavorazione di un film non è peregrino: l'esistenza e l'arte procedono di pari passo, la prima potrebbe anche imitare la seconda, entrambe scoprono un senso se sono disposte a questionare il mondo, a trovare la parte migliore di sè.
(grazie a Leonardo Strano per il confronto)
LOCARNO 75: CINEMA É CACHOEIRA
É notte in America. Gli animali fuoriescono dalle loro tane per invadere la città. Il cielo pulsa, o meglio, palpita di un bagliore alieno, purpureo. Un formichiere giace senza vita sul ciglio della strada. Come lui, molte altre bestie selvatiche si scontrano con l’ambiente urbano. Si dimenano dalla presa dell’uomo. A volte sfuggono. Altre volte, no. Ma chi sta invadendo chi? Ana Vaz, regista brasiliana classe 1986, ha presentato nel Concorso Cineasti del presente del 75° Locarno Film Festival il suo primo lungometraggio, É noite na America. Vaz, autrice già di quindici film tra cortometraggi e mediometraggi, ha partecipato a alcuni dei più importanti festival internazionali tra cui il New York Film Festival, la Berlinale e il Toronto International Film Festival. Abbiamo discusso con lei del suo nuovo film.
DP: Vorrei partire dalla fine del tuo film. L’ultima immagine a cui assistiamo è la veduta di una cascata. Non a caso nei titoli di coda citi una frase, “Cinema é cachoeira” (il cinema è una cascata), pronunciata dal regista brasiliano Humberto Mauro, pioniere del Cinema Novo. Questa connessione mi ha immediatamente fatto pensare all’ultimo film di Mauro, Carro de bois (1974), che è per me una perfetta sintesi del complesso rapporto che intercorre tra esseri umani e animali. Puoi dirci qualcosa in più sul tuo rapporto con questo regista che sembra essere così importante per il tuo cinema?
AV: Penso che Humberto Mauro non sia stato importante soltanto per il mio cinema ma che lo sia stato per l’ancor più ampio spettro del cinema brasiliano e sudamericano in generale. Diciamo che una persona come Humberto Mauro, facendosi portavoce di una grande critica nei confronti della modernità e della vita moderna, ha ricoperto un ruolo essenziale nelle radicali trasformazioni e suggestioni che il cinema stava attraversando in quell’epoca. In una prospettiva molto personale, non è una coincidenza che Humberto Mauro nacque e girò i suoi film a Cataguases, la città che possiamo prendere come prototipo per il modernismo in Brasile. Questa è la città nella quale Oscar Niemeyer, architetto brasiliano considerato come una delle figure chiave nello sviluppo dell’architettura moderna, edificò le sue prime costruzioni. Era una sorta di laboratorio per molti aspetti della modernità radicale. Credo che il cinema di Humberto Mauro, già nei primissimi momenti della storia del cinema, posizionò la macchina da presa in quegli stessi spazi liminali tra ciò che chiamiamo cultura e ciò che chiamiamo natura. Mi sembra molto significativo per poter ragionare sulle enormi catastrofi che oggi la modernità coloniale ci ha portato. Quindi la citazione alla fine del film è un omaggio e un riconoscimento alla forza di qualcuno come Humberto Mauro, con una frase che possiamo interpretare come sia filosofica che metafisica. La cascata è una cosa molto materiale dalla quale però possiamo anche trarre un'enorme quantità di significato. Alcune persone possono leggere “Cinema é cachoeira” come una frase che mette in relazione il movimento della cascata con il movimento del film, il movimento del vento. Un movimento costante sotto forma di 24 fotogrammi al secondo. Ma possiamo anche leggerla in un modo più metafisico, che è il modo in cui a me piace leggerla, ovverosia che la cascata stessa sia una forma di cinema. Qualcosa che è già, e sempre, una forma di cinema che non sia prodotta dagli esseri umani quanto piuttosto un cinema che è tutt’intorno a noi, nella ricchezza di tutte le forme di vita che ci circondano e che producono, ciascuna, le proprie forme di esperienza cinematografica. La cascata è una di queste, e possibilmente una molto grande.
DP: A proposito di differenti forme di cinema: prima di É Noite Na América hai realizzato soltanto corti e mediometraggi. Qual è stata la più grande differenza nel dar invece forma a un lungometraggio?
AV: È molto curioso perché la prima cosa che devo ammettere è che non mi sarei mai aspettata che É Noite Na América sarebbe diventato un lungometraggio. Ho deciso di iniziare a filmare qualcosa che stava accadendo proprio davanti ai miei occhi, ovvero il dislocamento di così tante forme di fauna selvatica attorno a me; tutto ciò che sentivo era il desiderio di filmare al più presto. Non scherzo quando dico che è un film che ha attraversato il mio percorso molto più di quanto abbia io attraversato il suo. Non è stato un film per il quale ho passato molti anni a tramare, ricercare e ragionare quanto piuttosto un film che è emerso di fronte a me nel momento in cui ho iniziato a trovare i cadaveri e le carcasse degli animali investiti dalle macchine proprio nel mezzo della mia città natale. Da lì in poi ho chiamato il direttore della fotografia del film, Jacques Cheuiche, che è stato un grande alleato e nel bel mezzo di una lunghissima e bellissima notte di superluna nella zona centro-occidentale del Brasile - e coloro che conoscono la zona centro-occidentale del Brasile sanno quanto siano intense queste notti - penso di aver detto “Jacques, devi venire a Brasilia. Ho la sensazione che dobbiamo iniziare subito a filmare l’odissea che ruota attorno questi animali che sono intrappolati all’interno della città. E dobbiamo farlo usando l’effetto notte", in francese la nuit américaine, che ha un grande significato perché ovviamente è una tecnica molto sviluppata durante i primi momenti della storia del cinema ma non particolarmente utilizzata in occidente. Come sappiamo, i film western sono famosi per aver messo in scena il momento in cui i coloni sono giunti per invadere e strappare la terra ai nativi. Ho sentito dunque, in questo senso, che un western mi si stava rivelando. Un western notturno in cui invece di avere personaggi umani avremmo avuto personaggi animali. Questo è tutto quello che sapevo. Non avevo alcuna idea della durata.
DP: L’intero film è girato con stock di pellicole scadute. Questo porta nel processo la variabile dell’inaspettato. Certamente non avevi la possibilità di guardare i giornalieri come si faceva una volta e, anzi, addirittura ti sei messa nella situazione in cui non potevi nemmeno sapere se le immagini che stavi filmando sarebbero esistite. È quasi un atto performativo. Come gestisci l’inaspettato sia durante la fase di ripresa sia più tardi quando, in sala di montaggio, hai finalmente la possibilità di vedere ciò che hai filmato?
AV: Possiamo chiamarlo performativo se la performance è ciò he ci unisce al tempo presente dell’intera esperienza, ciò che ci unisce all’esperienza stessa. Per me il cinema è prima di tutto uno strumento per intensificare le esperienze. Sono più che altro molto interessata a qualcosa che potremmo chiamare come cinesituazioni, le situazioni del cinema o situazioni cinematografiche. Queste per me sono più importanti di qualsiasi film. Più importanti di qualsiasi immagine che possa essere prodotta. Ho molta fiducia e credo che l’incontro stesso della troupe, dei macchinari, delle persone e di tutti gli ambienti che abbiamo attraversato durante la realizzazione del film sia un qualcosa che già di per sé abbia lasciato delle tracce. È solo che non sappiamo quali possano essere queste tracce. Queste tracce, nel caso del mio film, non sono condotte. Non cerco di dominarle, controllarle, illuminarle, dirigerle. Posso avere una percezione o delle sensazione su dove vorrei che queste tracce andassero e posso cercare il più possibile di ricambiare le energie che vengono date nella realizzazione del film e dal film stesso. Si trattava di pellicole destinate a essere buttate via, pellicole fragili delle quali non puoi controllare le reazioni chimiche che accadono all’interno di ciascuna di esse. Direi che il primo momento delle riprese è sempre così intenso, così pieno di vita, così pieno di scambi di energia che c’è poi questo momento, diciamo, di metabolizzazione, di digestione e di confronto con tutto ciò che abbiamo vissuto per cui dobbiamo lasciare che queste esperienze sprofondino nella materialità stessa del film. Era un completo, come direbbe Jacques, “salto nel buio”. Sentivamo che avremmo potuto avere un film interamente composto di impronte e brontolii, di graffi sull’immagine. C’era qualcosa nella dissoluzione dell’immagine che mi interessava. E quando finalmente ho visto le immagini ho sentito che avevano bisogno di tempo. Che avevano bisogno di durata. Sono sempre portata a pensare che sia il film a determinare la durata molto più di quanto io desidero che duri. Il film mi chiedeva una certa lunghezza e io gliel’ho data. La co-montatrice del film, Deborah Viegas, mi ha detto qualcosa che riassume molto bene tutto questo. Ha detto: “Ana, penso che molto più che montare in base a ciò che potremmo desiderare, quello che stiamo cercando di fare consiste nel trovare il miglior ambiente possibile per l’esistenza di queste immagini.” Mi piace pensare che ci sia un’archeologia delle immagini in gioco. Ci sono delle tracce e sta a noi decifrarle e scoprire cosa sono destinate a diventare.
DP: L’effetto notte rappresenta uno strano punto di intersezione dell’istanza cinematografica. È come se fondendo il giorno e la notte assieme si costituisse un terzo luogo. Un altro regno nel quale si erge la figura del gufo. Il gufo sembra essere il medium attraverso il quale ci è concesso di accedere a questo mondo proprio in quanto, il gufo, esattamente come uno spettatore cinematografico, è capace di vedere attraverso l’oscurità. In una scena vediamo le pupille del gufo dilatarsi e una luce a led accecarlo alla stessa maniera in cui anche noi siamo accecati da questa luce.
AV: Questo momento, che è un momento molto significativo del film, è un momento che cristallizza qualcosa che l’intera pellicola cerca di fare e, cioè, catturare, percepire e vedere il momento in cui lo sguardo storico del cinema, che è una specie di sguardo passivo dissimulato che guarda il mondo (ma che non è mai guardato), ci guarda. In questo momento siamo guardati, L’animale ricambia il nostro sguardo. Hai descritto il momento in cui lo spettatore guarda il gufo, ma c’è anche questo momento, che trovo piuttosto forte e filosofico, in cui l’animale guarda i cosiddetti umani che lo guardano a loro volta. Ed è in questo momento in cui siamo guardati che veniamo messi di fronte alla realtà stessa delle catastrofi di cui siamo debitori. Per me è questo il momento più importante, questo "sguardo questionante" del gufo e di tutti gli altri animali che sembrano guardare alla macchina da presa come se stessero guardando noi. Questo per me è uno dei messaggi più forti e importanti del film. In tutti i miei film c’è qualcosa che è costantemente in gioco e cioè una tensione, un conflitto… questa differenziazione tra lo sfondo e il primo piano. Se pensiamo alla storia della pittura e alla storia del cinema, queste sono state storicamente scritte da un primo piano troppo spesso dettato dal dramma umano, dalla figura umana come soggetto e struttura organizzativa del cosiddetto sfondo. Sempre meno importante, sempre meno visibile. Direi che il cinema che cerco di proporre cerca di ribaltare questo rapporto. Che si tratti di fiumi, di architetture, di insetti, di persone che hanno subito la violenza della modernità occidentale, tema presente in molti dei miei film.
DP: Il tuo cinema si dispiega come un atto di resistenza, si schiera dalla parte delle “vittime” senza mai ritrarle come tali. In Apiyemiyekî? (2020) parli del genocidio delle popolazioni Uaimiris-atroaris nel 1970 durante la dittatura brasiliana e qui metti in scena la progressiva invasione delle infrastrutture umane nel mondo animale e viceversa. Come riesci a trovare un punto di vista che sia in grado di non vittimizzare mai questi soggetti?
AV: Sì, mai vittimizzarli, anche se penso che riconoscere gli orrori commessi contro tutte questi soggetti che appaiono nel film sia un aspetto molto importante della lotta e della convinzione che il mio cinema cerca di ritrarre. Penso che questo sia un cinema profondamente devoto a qualcosa che chiamerei come moltiplicazione delle prospettive. Combattere contro l’enorme violenza dell’omogeneizzazione della prospettiva occidentale moderna come prospettiva unica e unificante attraverso la quale guardare il mondo. E sento che è proprio il fallimento e l’orrenda catastrofe perpetrata da questo unico punto di vista che il mio cinema sta cercando di sfidare, moltiplicando le prospettive che guardano indietro a quest’unica prospettiva originaria e la rifiutano. Rifiutarla per abbracciare narrazioni diverse, voci diverse, suoni diversi che arricchiscano e aiutino e riconnetterci con il tessuto vivo della materialità del mondo in cui viviamo. Un mondo completamente intossicato e profanato dai principi della modernità coloniale.
DP: Oltre all’immagine, sono rimasto molto colpito dall’uso che fai della musica. Questa tromba e questo trombone mi hanno dato quella strana sensazione che si prova quando, a notte fonda su una tv impolverata, stai guardando un vecchio film di fantascienza degli anni ’50 o un episodio di The Twilight Zone (AV ride, ndr). Ho poi scoperto che la musica è stata composta da Guilherme Magalhães Vaz, compositore storico di molti film di Julio Bressane e Nelson Pereira dos Santos e, anche, tuo padre. Qual è il tuo rapporto con l'uso della musica extradiegetica che, in un certo cinema sperimentale, è spesso vista come un tabù, qualcosa di cui non dovresti fare uso? E poi, in che modo avere un padre che ha sempre lavorato nel cinema, non con le immagini ma con il suono, ha influenzato te e il tuo approccio al cinema?
AV: Questa è una grande domanda. Il tabù dell’uso della musica per me deriva da ciò che più odio di alcuni rami del cinema che sono estremamente dogmatici. Non c’è niente di dogmatico in quello che faccio. C’è sicuramente una fede e un rispetto per ciò che è venuto prima di me e ciò che potrebbe venire dopo di me. Il mio rapporto con la musica di mio padre e il suo lavoro è tanto embrionale quanto spirituale. È tanto reale quanto affettuoso. È tanto primitivo quanto, non so, concreto. Sono nata in un ambiente nel quale per mio padre suono e musica - e questo è qualcosa di importante da notare per quanto riguarda le sue composizioni - venivano pensati come qualcosa che era intrinsecamente connesso alle stesse vibrazioni e agli stessi suoni del mondo che ci circonda. Non era qualcuno che lavorava solo e soltanto con la classica orchestra musicale. C’è sempre già una musica da qualche parte. Possiamo vedere alla fine del film un omaggio che io faccio nei suoi confronti nel quale trascrivo tutti i dettagli tecnici dell’album in cui compare Panthera Onca (2001), la composizione che ho utilizzato. La trascrizione dice qualcosa, viene citata questa frase latina, “Ipsa sonant arbusta” (anche gli alberi risuonano). Penso che molte delle sue composizioni riguardino davvero le implicazione di ciò che ho appena detto. In molti dei miei film, da Apiyemiyekî? a É Noite Na América, a Sacris Pulso (2008) c’è un dialogo continuo, non solo con la musica che è stato in grado di produrre ma con quale fosse il significato di questa musica, con ciò che porta come voce, come messaggio, come un tremore presente in ognuno di questi film, come un elemento importante tanto quanto l’immagine stessa. Puoi vedere come in tutti i miei lavori i rapporti tra la verticalità e orizzontalità, cioè suono e immagine, sono costantemente modulari. Non c’è immagine che sia più importante di un suono e viceversa. I film sono tanto sonori quanto visivi. E con la musica in questo caso, Panthera Onca, come dice il titolo - panthera onca è il nome scientifico del giaguaro sudamericano - c’è un dialogo diretto. Un dialogo con le implicazioni che questa composizione detiene e che mio padre ha descritto come, e cito: “Panthera Onca si ispira al momento in cui il giaguaro sudamericano guarda le stelle e vede la luminosità delle stelle riflessa nei suoi occhi.” Già nella descrizione della composizione vediamo questo desiderio di reciprocità dell’animale che guarda ed è guardato. Dell’animale che rompe il patto di questa enorme separazione che c’è tra noi umani e loro animali. Quindi per me usare Panthera Onca, che è una composizione costituita da molti movimenti diversi, è stata una conversazione molto importante e un omaggio per attualizzare una musica che in realtà - ho scoperto di recente - aveva realizzato per un film di Sérgio Bernardes, un altro regista che ha girato nella regione amazzonica così come mio padre ha vissuto lì per molti molti anni. Era un film documentario contro la caccia illegale di giaguari selvatici in Amazzonia. Quindi sono molto felice che il film possa essere un nuovo incantesimo per la colonna sonora. La colonna sonora per me è come una voce. È interessante che tu dica fantascienza. In effetti c’è qualcosa di fantascientifico nel film. C’è un genere a cui era per me molto importante pensare mentre giravo ovvero il genere dell’eco-horror, che nella storia del cinema è tipicamente un genere di film di serie B ma nel quale gli animali selvatici fanno ritorno in qualche modo a quegli spazi urbani loro strappati per rivendicarli e ribellarsi alla violenza che hanno subito.
DP: I’d like to start with the ending of your film. Your final image is the view of a waterfall and in the credits you quote a sentence, “Cinema é cachoeira” (Cinema is a waterfall), said by the Brazilian director Humberto Mauro, pioneer of the Cinema Novo. This connection immediately made me think to Mauro’s latest film, Carro de boi (1974), which is to me a perfect synthesis of the complex relationship between men and animals. Can you tell us a little bit more about your relationship with this film director who seems to be so important to your cinema?
AV: I think Humberto Mauro is not someone who is only important to my cinema but I think he is important in the large spectrum and dimension of Brazilian and South American cinema in general. Let’s say that someone like Humberto Mauro is essential in the radical transformations and suggestions that his cinema was making and for me he had great critiques for modernity and modern life. For me, in a very personal way, it is not a coincidence that Humberto Mauro was born and filmed in Cataguases, the city that we can see as kind of a prototype for modernism in Brazil. This is the city where Oscar Niemeyer, a Brazilian architect considered to be one of the key figures in the development of modern architecture, built his first constructions. It was kind of a laboratory for many aspects of the radical modernity. Henceforth, I think that the way in which Humberto Mauro’s cinema, in the very early moments of the history of cinema, already places the camera in the very liminal spaces between that which we call culture and that which we call nature. It seems to me very significant in order for us to think today about the enormous catastrophes that colonial modernity has brought us. So the quote at the end of the film is an homage and a recognition of the force of someone like Humberto Mauro, with a sentence that we can see is both philosophical and metaphysical. It it a very material thing that has an enormous amount of meaning that we can take from. Some people can read “Cinema é cachoeira” as a kind of sentence that relates the movement of the waterfall to the movement of film, the movement of wind. A movement of consistent motion in the form of 24 frames per second. But we can also see it in a more metaphysical way which is the way I like to take it, which is that the waterfall itself is a form of cinema. Henceforth that it is already and always a form of cinema that is not only produced by a certain kind of humans but rather a cinema that is all around us, in the richness of all forms of life that surround us and that produce their own forms of cinematic experiences. The waterfall being one, and possibly a very great one.
DP: Talking about different forms of cinema: before making É Noite Na América you previously only realized short and medium-length films. What was the biggest difference in giving shape and form to a feature film?
AV: Well that’s very curious because the first thing I have to say is that I never expected É Noite Na América to be a feature film. I set myself out to just begin filming something that was happening right in front of my eyes which was the displacement of so many forms of wildlife around me that all I felt was the crave for an immediacy to film. I’m not joking when I say that it is a film that traversed my path much more than I traversed its. It wasn’t a film that I spent many years plotting, researching and thinking but rather a film that emerges right in front of my eyes as I started finding the cadavers and dead bodies of animals run over by cars in the middle of my native city. From there onwards I called the cinematographer of the film, Jacques Cheuiche, who has been a great ally and in the middle of a very long a beautiful night of a supermoon in the mid-west of Brazil - and those who know the mid-west know how strong these nights are - I think I said “Jacques, you have to come to Brasilia. I have the feeling that we have to start filming this entire odyssey around these animals that are trapped inside the city. And we have to make it using the day for night", in french la nuit américaine, which holds a great significance because of course it’s a technique very much developed during the early moments of cinema but not particularly used in the west. As we know western films are very much known for staging the moment that settlers came in to invade and take off the land. So in this sense I felt that a western was revealing itself to me. A nocturnal western in which rather than having human characters would be with animals. This is all I knew. I had no idea of duration.
DP: The entire film is shot in expired film stock. This brings in the variable of the unexpected. Of course you didn’t have the chance to watch the dailies, you even put yourself in the situation in which you didn’t know if the images you were filming would even exist. It’s sort of a performative act. How do you deal with the unexpected, both during the shooting and later, when you finally can see what you filmed, in the editing room?
AV: We can call it performative if performance is that which unites us to the present tense of the whole experience, and with experience itself. For me cinema is first and foremost an instrument to intensify experiences. So I’m more than anything very interested in something that we can call cinesituations, the situations of cinema, the cinematic situations. This for me is more important than any final film. More important than any image that can be produced. I have much faith and believe that the very encounter of the crew, the machines, the people and all the environments that we traversed as we are experiencing the making of the film is something that in itself will leave traces. It’s only that we don’t know what these traces may be. These traces in the case of my film are unmastered. I’m not trying to master, to control, to illuminate, to direct, to dictate what the imprints will be. I can have some senses or some feelings of where I would like them to go and try as much as I can to reciprocate the energies that are given into the making of the film and into the film itself. We were dealing with film stocks that were destined to be thrown away. Films that were fragile and of which you cannot control the chemical reactions that are happening inside each one of those cans. I would say that the first moment of filming is always so intense, so full of life, so full of intensity and energy exchange that then there is this moment of, let’s say, metabolization, of digesting and dealing with everything that we have experienced and letting these experiences to sink in the very materiality of the film. It was a complete, as Jacques would say, “shot in the dark”. We felt that we might had a film entirely made of just imprints and rumbles of images and grains of images. There was something about the dissolution of the image that interested me. And when I finally saw the images I felt that they needed time. That they needed duration. So I’m always led to think that it is the film that dictates its length much more than how much I desire it to last. The film asked me for length, and I gave it. The co-editor of the film, Deborah Viegas, said to me something that resumes all of this very well. She said “Ana I think that much more than editing according to what we may wish for, what we’re trying is to find the best possible environment for these images to exist.” I like to think that there’s an archeology of the images at play. There are traces and its up to us to decipher them and discover what those traces are going to be.
DP: The day for night represents a strange point of intersection of the cinematographic instance. It’s as if the merging of day and night together constitutes a third place. Another realm in which the figure of the owl stands out. The owl seems to be the medium through which we can enter this world because the owl, exactly like a cinema spectator does, is able to see in the dark. In one scene we see the owl’s pupils dilate and a led light blinding him the same way we are blinded by the light.
AV: This moment, which is a very significant moment of the film, is a moment that crystallizes something that the entire film is trying to do, which is to capture, to sense and to see the moment in which the historical gaze of cinema, which is a kind of dissimulated passive gaze that looks at the world, but its never looked at - so the camera is kind of a passive observer of the world - in this moment we are looked at. The animal returns our gaze. You described the moment of the spectator watching him but there’s also this moment that I think is quite strong and philosophical of the animal looking back at us, so called humans, looking at him. And in this moment of looking back at us he confronts us with the very reality of the catastrophes that we are indebted. And for me it’s this moment, the questioning eyes, the questioning gaze of the owl and of all the animals that seem to look at the camera as if they were looking at us. This for me is one of the strongest and most important messages of the film. In all of my films there’s something that is consistently at play which is a tension, a conflict… this differentiation between the background and foreground. If we think about the history of painting and the history of cinema, those have been historically written by a foreground that is all too often dictated by human drama, by the human figure as the organizing subject and structure of the so called background. Always less important, always less visible. I would say that the cinema that I try to propose tries to reverse this relationship. Be it rivers, be it architectures, be it insects, be it the people who have been subjected to the violence of western modernity, a very present theme of many of my films.
DP: Your cinema deploys itself as an act of resistance. it takes the side of the “victims” without ever portraying them as such. In Apiyemiyekî? (2020) you talk about the genocide of the Uaimiris-atroaris people in 1970 during the Brazilian dictatorship and here you exhibit the progressive invasion of human infrastructures into the animal world and vice versa. How are you able to find a point of view which is able to never victimize these subjects?
AV: Yes, never victimize them even though I think that recognizing the horrors committed against all these people that appear in the film is a very important aspect of the struggle and conviction that my cinema tries to portray. I think this is a cinema deeply devoted to something that I would call the multiplication of perspectives. Fighting against the enormous violence of the homogeneity of the western modern perspective as the unifying and only perspective from which we can look at the world. And I feel that it is precisely the failure and the horrendous catastrophe perpetrated by this single viewpoint that my cinema is trying to defy. So multiplying perspectives that look back at this primal perspective and refuse it. Refuse it to embrace different narratives, different voices, different sounds that enrich and help us reconnect with the living tissue of the materiality of the world in which we live in. A world completely intoxicated and desecrated by the principles of colonial modernity.
DP: Apart from the image, I was very impressed by the use you make of music. This trumpet and trombone gave me that weird feeling when, late at night on an dusty tv, you are watching an old sci-fi movie from the 50s or an episode from The Twilight Zone (AV laughs, editor’s note). I then discovered that the music was composed by Guilherme Magalhães Vaz, historical composer of many films by Julio Bressane and Nelson Pereira dos Santos and, also, your father. What is your relationship with the use of extradiegetic music which, in a certain experimental cinema is often seen as a taboo, something you shouldn’t make use of. And also, how having a father who has always worked in cinema, not with images but with sound, influenced you and your approach to moviemaking?
AV: That’s a big question. The taboo of using music for me comes from what I hate the most about certain strains of filmmaking that are extremely dogmatic. There’s nothing dogmatic about what I do. There’s certainly a faith and a respect for that which has come before me and that which may come after me. My relationship with my father’s music and my father’s work is as embryonic as it is spiritual. It is as real as it is affectionate. It is as primitive as it is, I don’t know, concrete. I was born in an environment in which sound and music - and this is something important to note in regard to his compositions - he was not someone who was only working with the classical musical orchestra but he thought about music as something that was innately connected to the very vibrations and sounds of the living world. Hence, there is, always already music somewhere. We can see at the end of the film I make an homage to him in which I transcribed all of the technical details of the album in which Panthera Onca (2001), the composition that I used, appears. And it says something, it quotes this latin phrase, “Ipsa sonant arbusta” (Even the trees sing). I think so much of his compositions are really about the implications of that which I have just said. So in many of my films, from Apiyemiyekî? to É Noite Na América, to Sacris Pulso (2008) there is a continuous dialogue, not only with the music that he was able to produce but with what the meaning of this music was, with what it brings as a voice, as a message, as a trembling that is present in each single one of these films, as an element that it’s as important as an image. You can see that in all of my works the relationships between the vertical and the horizontal, meaning sound and image are constantly modular. There is no image that is more important than a sound and vice versa. The films are as sonic as they are visuals. And the music in this case, Panthera Onca, as the title says - panthera onca is the scientific name of the South American jaguar - there is a direct conversation. What the implications of this composition that my father described as, and I quote “Panthera Onca is inspired by the moment in which the South American jaguar looks at the stars and has the brightness of the stars reflected back in his eyes.” So already in the description of the composition we see this desire for reciprocity of the animal that gazes and it’s gazed back. Of the animal that looks, of the animal that breaks the pact of this enormous separation between us and them. So for me using Panthera Onca, which is a composition made by many different movements, was a very important conversation and homage to actualize the composition that actually I’ve found out recently he made for a film by Sérgio Bernardes, another filmmaker who filmed in the Amazon region for many years as well as my father also lived there for many many years, and it was a film that was a documentary against the illegal hunting for wild jaguars in the Amazon. So I’m very happy that the film can be a new incantation to the soundtrack and the soundtrack for me is like a voice. It’s interesting that you say sci-fi. There is something sci-fi in the film actually. There’s a genre that was very important for me to think about while I was making the film which is the eco-horror genre, which is a kind of B-movies genre in the history of filmmaking but in which the wild animals kinda return to urban spaces to reclaim and revolt against the violence that has been committed against them.
PREPARARE LA REALTÀ PER IL CINEMA
Gigi la legge è l’ultimo film di Alessandro Comodin, presentato nel Concorso internazionale della 75esima edizione del Locarno Film Festival. Il film racconta le avventure di Gigi, un esuberante agente della polizia locale di San Michele al Tagliamento, che si ritrova ad indagare sui misteriosi suicidi che si susseguono in un paesino in cui tutto sembra immobile e fermo nel tempo. Mentre porta avanti le sue ricerche però, deve fare i conti con chi vuole contenere il suo entusiasmo e con ciò che cerca di invadere il suo territorio emotivo. Intervistiamo Alessandro Comodin proprio nei giorni del Festival, poche ore prima del Premio speciale della giuria vinto dal film.
Y.C.C.: Mi ha incuriosito molto una tua biografia che ho letto sul sito di un festival di cinema. Si concludeva dicendo “Alessandro Comodin non ha mai saputo se i suoi film rientrano nella fiction o nel documentario.”
A.C.: Sì mi ricordo, l’ho scritta io. Proprio perché così non me lo chiedono. Vuoi chiedermelo?
Y.C.C.: Sì. Con l’uscita di Gigi la legge senti che è ancora così?
A.C.: Sembra una banalità ma un film è un film, è tutto falso. Però è tutto vero allo stesso tempo. Non tende da nessuna parte, è lì, come un oggetto e tu lo guardi. L’altro giorno sono andato a vedere C’era una volta il West di Sergio Leone, che non è tra i miei registi preferiti, anzi un po’ mi annoia. Ma nonostante tutto all’interno di quelle famose inquadrature lunghissime, studiate nei minimi dettagli, ecco anche lì il reale entra. Puoi vedere tutto di quelle persone, vedi il reale in Henry Fonda e Charles Bronson, lo vedi nel sudore di Claudia Cardinale. E che cos’è quello? Certo è una finzione ma è reale. Il reale entra sempre in qualche modo. Nel mio film c’è una persona vera che vive la sua vita vera ma quando punti una camera lo sappiamo tutti cosa succede, tutto si modifica, sta a te riorganizzare quel tutto. Quindi le categorie, fiction o documentario, sono puramente televisive ma al cinema puoi vedere qualsiasi cosa senza sapere che cos’è, è il suo bello. Forse è più un problema di finanziamenti, perché devi decidere da che parte andare per trovare i fondi e per me è sempre un dilemma, non è mai abbastanza fiction e non è mai abbastanza documentario, non sai mai da che parte prenderla. Il punto è che ognuno deve trovare il suo modo di fare film e produrli e con Gigi ci sono voluti anni perché in qualche modo abbiamo preparato la realtà per poterla filmare per il cinema. Quindi che cos’è questo? Non lo so, non so rispondere.
Y.C.C.: È arrivato prima Gigi o la storia nel quale lo immergi?
A.C.: Sono arrivati insieme in realtà. Perché mi sono dato dei vincoli. Ad un certo punto mi sono detto: Gigi ci deve essere, dobbiamo lavorare con le persone del luogo, che non sono attori, ma così sarà. Ci siamo proposti tante sfide ma sempre all’interno di questi vincoli che erano imprescindibili, non si poteva fare altrimenti, erano le regole del gioco. Anche le inquadrature sono frutto di queste regole, per motivi produttivi a volte passavano tre ore tra un campo e il suo controcampo e non potevo chiedere agli attori di rimettersi a parlare di ciò di cui avevano parlato ore prima, anche se un paio di volte è successo. Ho girato dicendomi che ogni inquadratura sarebbe stata un’inquadratura a sé stante e se avesse funzionato era perché l’avevo pensata in questo modo; dovevano essere scene indipendenti le une dalle altre. Questo uso di lunghi piani sequenza crea un fuori campo enorme, presente e anche frustrante a volte, ma dà modo allo spettatore di immaginare. Il film vive di questi vincoli in tutti i suoi aspetti perché credo che bisogna fare con quel che si ha: poi in fase di montaggio il film si mostra e ti mostra come fare. Però c’è nel film qualcosa che non funziona, anche se la grammatica cinematografica è corretta, si sente che tra un campo e il suo controcampo ci sono delle differenze di luce, di suono e tempo. Lì entra il reale. È stato un costante gioco con il pericolo di non poter usare alcune immagini e a me piace questo gioco, mi piace scombinare le carte e magari decidere all’ultimo di fare soltanto uno o due ciak per la scena più importante e passare ad altro. Questo però lo puoi fare se hai dietro una squadra disponibile e pronta a filmare la finzione come se fosse un documentario. Altrimenti fai un casino.
Y.C.C.: Come hai lavorato con questi non attori? Come hai capito quando era il momento di dare loro delle indicazioni precise e quando invece era meglio lasciarli andare?
A.C.: Io non credo che loro sapessero veramente quello che stavano facendo, abbiamo letto la sceneggiatura insieme e lo stesso Gigi mi ha chiesto cento volte durante le riprese di cosa parlasse il film. In questo caso non si può parlare di direzione degli attori senza parlare del dispositivo cinematografico e dei suoi vincoli. Per esempio le scene in cui Gigi è di pattuglia: lì Gigi deve pensare a guidare mentre una cinepresa costosissima montata in macchina lo sta guardando e in tutto ciò deve fondamentalmente essere se stesso. È un casino, non è facile. Quindi alle volte la cosa migliore era semplicemente lasciare andare, in modo che lui se ne dimenticasse, complice il fatto che abbiamo girato in digitale e potevamo permettercelo.
Y.C.C.: È stato un vantaggio passare al formato digitale?
A.C.: No, non credo sia stato un vantaggio. Non ne sono sicuro. In ogni caso è troppo facile parlare a posteriori, il digitale ha una buona resa plastica e ti da il vantaggio di lasciare andare un take per 25 minuti. Le mie indicazioni per gli attori comunque rimanevano molto semplici, come delle sensazioni fisiche ad esempio. O che avrebbero potuto iniziare parlando del tempo, cose davvero molto semplici. A volte invece dovevo contenerli e chiamare un po’ di silenzio, è una cosa che succede quando lavori in questo modo, chi è davanti alla camera tende a riempire i vuoti. Io penso che sia molto meglio un buon silenzio che mille parole. Poi Gigi nonostante la sua personalità spiritosa è molto timido e tendeva a scappare dall’inquadratura, dovevamo contenerlo e a volte abbiamo montato delle focali lunghissime così anche quando si allontanava eravamo sicuri di averlo presente nel campo. Ci siamo dovuti sempre adattare di scena in scena, mi sono detto che per questo film non volevo avere dogmi, volevo giocare con gli strumenti del cinema che sento ancora rudimentali nel mio approccio. L’idea era di divertirsi e di fare qualcosa che facesse piacere a tutti.
Y.C.C.: Il territorio nei tuoi film non è mai mero fondale ma protagonista quanto i personaggi che lo abitano. In questo caso abbiamo un passaggio a livello e il giardino di Gigi. Da dove arrivano le suggestioni per il racconto di questi luoghi?
A.C.: Per me il cinema è filmare delle persone in dei luoghi, raccontare il legame che loro hanno con essi e viceversa. Ogni posto ha la sua anima. Vedi, anche qui sono procedimenti molto semplici: c’è il posto “buono” che è il giardino di Gigi, il suo nascondiglio che viene minacciato da quello che succede nel posto “cattivo”. Il giardino di Gigi è stato anche il mio nascondiglio, ci sono cresciuto dentro quel piccolo boschetto che adesso è diventato una giungla, anche questo mi piaceva raccontare: un uomo a cui piacciono così tanto le sue piante che le lascia crescere fino a quando non debordano nelle abitazioni vicine. Trovo che sia una cosa umana questa, qual è il limite tra te e gli altri? Il tuo corpo in qualche modo. Qui però è rappresentato da questo giardino. Poi c’è quel passaggio a livello maledetto dove continuano a susseguirsi questi suicidi, è un posto che io conosco a memoria, non ha un’anima bella, è dura. Abbiamo passato giornate intere in quel posto in fase di preparazione, ci siamo messi lì seduti con le sedie da campeggio con la scusa di cronometrare i treni, ma in realtà volevamo vedere chi passava, giornate intere così. È un lavoro al microscopio su un piccolo luogo ma quando punti la lente ti accorgi di tutto un mondo che gli orbita attorno, per quanto piccolo sia. Questa cosa mi entusiasma perché mi fa capire che puoi filmare qualsiasi cosa e renderla interessante, partendo da cosa senti tu in quel posto. E così ogni posto ed ogni persona può diventare un eroe. Gigi è un eroe. Leggendario.
Y.C.C.: Nel film si fa largo uso della lingua friulana. Com’è stato lavorare nella tua lingua madre?
A.C.: All’inizio il film lo avevo scritto in italiano, poi mi sono ricordato che Gigi parlava friulano, me lo ero dimenticato. Anche durante le scene ho sempre spinto perché parlassero un friulano che sentivano proprio, un suono che li facesse sentire a loro agio perché è così parlano nella vita di tutti giorni. Non sopporto quello che succede nel cinema italiano con la lingua e il suono, credo sia un genocidio questa standardizzazione dei suoni, questa dizione che nella vita non esiste, là fuori la gente non parla così, e allora com’è possibile che il cinema non li rappresenti questi suoni? Nel nostro caso il friulano, oltre a dare autenticità agli attori, crea anche delle sfumature interessanti perché cambia a seconda delle scene e con chi si parla, entra un po’ di italiano quando Gigi e la sua collega parlano del loro comandante, come se lo stessero imitando e queste piccole cose, questa spontaneità della lingua ti racconta delle relazioni e le loro sfaccettature. Girare nella mia lingua madre è stata una cosa che mi ha fatto estremamente piacere perché ho sempre sentito di non poterla parlare. I miei genitori parlavano due friulani diversi e c’era sicuramente un senso di vergogna nell’usarlo perché era lingua di contadini e a me da piccolo hanno sempre detto che sarei dovuto andare a scuola ed educarmi per bene. Tutto questo mi ha allontanato dal friulano, lo sto recuperando a poco a poco adesso. Quindi ecco, è stato emozionante.
Y.C.C.: Qual è il tempo giusto per fare un film secondo te?
A.C.: Penso sia quello che la tua storia ti chiede. Purtroppo però molto spesso dipende dai soldi e meno da questioni creative. L’altro giorno ci stavo pensando, immaginiamo che ad un certo punto vinco alla lotteria un sacco di soldi, cosa faccio? Parliamo della possibilità di dimenticarsi di tutto e dire: me lo pago io il film…
Y.C.C.: Lo faresti?
A.C.: No, in realtà no. Perché credo che questo sia veramente un lavoro e in quanto tale vada retribuito. Usi il tuo tempo per fare un film, il tempo che serve per maturare e soprattutto per capire cosa ne vuoi fare di questo film. Ci vogliono anni per capire cosa vuoi dire, è un modo per entrare dentro di te e io ho il privilegio di poterlo condividere, è raro. Non avere soldi è un altro vincolo, come dicevo prima. Spesso sono i ricchi a fare il cinema, i borghesi, io però non sono così e a volte mi danno del contadino ma credo sia davvero necessario non dimenticare che questo è un lavoro. È il film a dirmi quanto tempo ci vorrà, se decidi di girare con una persona che sta morendo quello è un vincolo di tempo, non puoi farci niente, sono le regole del gioco. Soldi o non soldi ad un certo punto devi andare.
Y.C.C.: Il tuo modo di mettere in scena sta cambiando. Nei tuoi film precedenti a volte si sentiva quando la scrittura entrava nella realtà per portare avanti la narrazione. In Gigi la legge però ho la sensazione che questo passaggio sia nettamente più organico, si comincia a non vedere dove inizia una e dove finisce l’altra. Dove ti sta portando questo percorso?
A.C.: Sto crescendo anche io mentre faccio i film, certamente. Cerco di imparare a fare il mio mestiere e mi piace imparare da me per poterlo fare a modo mio e non come ci viene detto, con formule e ricette. È più facile usare le regolette qua e là, il climax e tutte quelle altre parole in inglese. Io voglio che il mio film piaccia prima di tutto a me. Quando vai al cinema vuoi vedere uno sguardo personale, originale: ho bisogno di uscirne svalvolato, voglio che mi insegni qualcosa altrimenti non mi interessa. Quindi devo fidarmi, devo essere sicuro di me e di quello che sento, non posso rifugiarmi in regolette coprendomi con tutte le inquadrature di campo, controcampo e totale. Devo fare delle scelte, ma soprattutto devo farmi delle domande. Chi non si fa nessuna domanda non rispetta le persone che sta filmando, è solo un rapporto commerciale, per me il cinema è altro. Può anche capitare che pur facendo a modo tuo fai un film brutto, capita. Oppure fai dei bei film ma non hai modo di mostrarli… è anche culo. Io ho un culo incredibile.
Y.C.C.: È questa paura di ricadere in regole e compitini che ti previene dal lavorare con attori professionisti? Scusa Alessandro, io sono un attore e la questione mi interessa particolarmente.
A.C.: (ride, ndr) Ah, ecco perché. Credo sia un lavoro completamente diverso, non lavoro con gli attori principalmente perché non ne conosco. Non riesco a fare un casting o a chiamare qualcuno perché l’ho visto/a al cinema, ci ho provato ma è stato disastroso. Quindi alla fine non mi è mai capitato ma credo anche per una questione “politica”, preferisco andare verso le persone su cui nessuno mette mai lo sguardo. Come Gigi. Per ora.
LOCARNO GRANDI SPERANZE 2022: PROFILI SELEZIONATI
Successivamente alle numerose candidature arrivateci in merito alla call del progetto Locarno Grandi Speranze 2022, comunichiamo di seguito i profili selezionati. Desideriamo comunque ringraziare tutti coloro che hanno partecipato, speranzosi che in futuro possano verificarsi altre occasioni di collaborazione con la realtà di Filmidee.
Profili selezionati:
Emanuele Dainotti
Yuri Casagrande Conti
Federico Mamone
Elisa Cherchi
Giada Bossi
Sebastian Petri
Ilaria Scarcella
Chiara Canale
I partecipanti e le partecipanti, oltre a poter vivere a pieno il Festival di Locarno, prenderanno parte ad alcune attività che si concretizzeranno durante e in seguito al Festival stesso e che verranno comunicate e breve.
LOCARNO GRANDI SPERANZE 2022
Anche quest'anno Filmidee, insieme a Locarno Film Festival e Agis Lombarda, ha messo a punto un’azione pensata per valorizzare da una parte l’ingresso nel mondo del cinema internazionale attraverso borse di studio rivolte a giovani lombardi per attività del Locarno Film Festival, dall’altra l'azione di creare un vero e proprio spin-off del Locarno Film Festival per il pubblico milanese. Questo progetto è stato pensato per favorire lo scambio tra il settore cinematografico lombardo e il grande festival internazionale più vicino (geograficamente e idealmente) a Milano. Anche nel 2022 crediamo che il progetto (che punta a programmi di formazione per i più giovani) possa fortificare un nuovo cinema nato in Lombardia, dove tanti talenti crescono nelle scuole ma difficilmente accedono alla professione.
L’idea di un progetto bifronte nasce da una pratica che il Locarno Film Festival ha sperimentato attraverso i suoi spin-off e l’esperienza decennale di Open Doors. L’obbiettivo del Festival è quello di mettere in luce nuovi talenti facendoli incontrare e creando il più possibile le premesse per farli crescere. Centrale in una relazione positiva di scambio e reciprocità è la connessione che si riuscirà a trovare con il territorio lombardo per l’evento Locarno a Milano. Sarà cura dell’associazione Filmidee mettere in dialogo i vari attori in gioco, creando momenti di scambio stimolanti e prolifici, oltre a stimolare più in generale nuovi dialoghi tra Lombardia e Canton Ticino.
Per questa nuova call in questa prima fase verranno selezionati otto profili tra filmmaker e critici cinematografici, che in seguito alla selezione riceveranno un accredito per il Festival e alloggeranno nella location del Base Camp, un luogo di incontro e di scambio che durante tutta la durata del Festival di Locarno li metterà in dialogo costante con numerosi artisti emergenti da tutto il mondo. Lo spirito del Base Camp è la condivisione, ai partecipanti verrà offerta una sistemazione per la notte in camerate da quindici persone all’interno della scuola elementare di Losone.
Le attività da svolgere durante il soggiorno saranno rese note successivamente all'interno di un apposito programma.
La documentazione da inviare entro il 15 luglio alla mail filmidee.redazione@gmail.com per partecipare alla call consiste in:
-CV
-Portfolio (per i filmmaker)
-Una recensione già scritta per una testata online o cartacea (per i critici)
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI
"Mi dicono di essere troppo morbido con le persone."
Vladimir Putin
In Il sogno della merce Jean Baudrillard ipotizza come all’interno della contemporaneità la pubblicità abbia ormai perso la sua natura specifica, per riversarla totalmente all’interno della società, che così influenzata può definirsi “pubblicitaria” in sé: “La pubblicità non è più lo scenario barocco, utopico e statico degli oggetti e del consumo, ma l’effetto della visibilità onnipresente delle imprese, delle marche, degli interlocutori sociali, delle virtù sociali della comunicazione. Di conseguenza tende a liquidare ogni significato e ogni forma possibile di profondità, perché un effetto fondamentale che viene esercitato dalla pubblicità è quello di dare vita a un processo di radicale semplificazione dei linguaggi operanti all’interno della cultura sociale.”
Mettiamo per un attimo da parte questo concetto e spostiamoci altrove. Durante la 75ª edizione del Festival di Cannes il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è apparso su uno schermo gigante, e ha parlato della potenzialità dell’immagine cinematografica nel riuscire a portare alla luce le giuste cause degli oppressi all’interno di un conflitto come quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi, citando anche film come Il grande dittatore e Apocalypse Now. Questa apparizione è stata accolta con un certo disorientamento iniziale da parte dell’opinione pubblica e critica; dopotutto un capo di Stato che interviene in un festival cinematografico è un evento palesemente alieno, uno sconfinamento quantomeno bizzarro che di sicuro non siamo abituati a esperire, per lo meno non in questa forma o in questo contesto. Subito dopo tuttavia le reazioni si sono normalizzate, le opinioni si sono spostate su giustificazioni quasi filosofiche del tipo “è normale che la quotidianità esondi nel cinema, che non è altro che un’espressione della realtà”. In discordia con questo coram populo si è palesata un’unica voce, quella del novantunenne Jean-Luc Godard, che rispetto al discorso di Zelensky ha commentato:
“L'intervento di Zelensky al festival di Cannes è ovvio se lo si guarda dal punto di vista di quella che viene definita "messa in scena": un cattivo attore, un comico professionista, sotto gli occhi di altri professionisti nelle loro stesse professioni. Credo di aver detto qualcosa del genere molto tempo fa. Ci è voluto quindi la messa in scena di un'altra guerra mondiale e la minaccia di un'altra catastrofe per farci sapere che Cannes è uno strumento di propaganda come un altro. Diffondono l'estetica occidentale pensando che non sia un grosso problema, ma invece lo è. La verità delle immagini sta solo avanzando lentamente. Immaginate ora che la guerra stessa sia questa estetica dispiegata durante un festival mondiale, i cui attori sono gli stati in conflitto, o meglio gli “interessi”, che trasmettono rappresentazioni di cui siamo tutti spettatori. Diciamo spesso “conflitto di interessi”, che è una tautologia. Non c'è conflitto, grande o piccolo, a meno che non ci sia interesse. Nerone, Biden o Putin, Costantinopoli, Iraq o Ucraina, non è cambiato molto, a parte l'omicidio di massa.”
Curioso notare due cose rispetto a questa critica: la prima riguarda l’attribuibilità stessa di questo pensiero a Godard, in quanto nessuna conferma è arrivata rispetto all’effettiva paternità di tale affermazione (forse volutamente); la seconda concerne più un apparente corto circuito di senso storico: più di mezzo secolo fa fu proprio Godard, insieme a Truffaut, a portare esplicitamente la politica all’interno delle mura del Festival di cinema più importante del mondo, accusando addirittura i critici e i registi di allora di preoccuparsi solo di movimenti di macchina, mentre fuori il mondo stava cambiando.
Qual è la differenza tra l’attacco di Godard durante il Festival di Cannes del ’68 e l’intervento di Zelensky, non tanto sul piano dei contenuti strutturali, quanto su quello del discorso morale? Per rispondere a questa domanda tornerei al preambolo sulla società pubblicitaria. La pubblicità nella contemporaneità secondo Baudrillard infatti “più che informare o convincere cerca soprattutto di parlare e coinvolgere, per cui è inutile analizzare la pubblicità come linguaggio, poiché è qualcos’altro che vi ha luogo. Il linguaggio pubblicitario infatti non può essere affrontato impiegando i tradizionali strumenti dell’analisi critica e della ragione, perché esso persegue una strategia di comunicazione totalmente emotiva, una strategia che sollecita un’adesione spontanea nei confronti di messaggi che cercano di conquistare le persone, dimostrando di preoccuparsi di loro. La pubblicità cioè aggiunge affetto e calore alla merce, e se si è amati dall’oggetto ci si sente esistere, si è personalizzati. Si è persino rassicurati nella propria identità personale, anche se in realtà si tratta di un’identità fragile, perché puramente pubblicitaria, una fissazione che ha il carattere dell’immediatezza, ma che viene anche istantaneamente dimenticata.” Questa necessità pervasiva - che ormai da almeno trent’anni ha tracimato dai semplici confini del commerciale verso ogni ambito della comunicazione umana - di sentirsi protetti, rassicurati, allevati, da una visione della pubblicità che coincide (e che ne è di fatto mater morbi) con la società spettacolare, unita al “processo di radicale semplificazione dei linguaggi”, ci mostra una panoramica in cui è necessario per “sentirsi amati dall’oggetto, sentirsi esistere” come parte attiva del dibattito, costruire una versione della Storia lineare, di facile lettura, divisa in protagonisti e antagonisti. L’oggetto di cui si brama l’amore oggi infatti è il tutto, il tessuto stesso delle nostre convivenze, un tutto che vive attraverso l’immagine spettacolare, epigono, ancora, della pubblicità che si trasferisce dagli schermi tv alle coscienze, quello che Baudrillard definisce come “meta-pubblicità”.
Allora se più di mezzo secolo fa il gesto politico (ma soprattutto controcorrente) di Godard all’interno di una manifestazione cinematografica, era perfettamente traducibile con un atto cinematografico, quindi coerente, perché quel cinema veniva quantomeno interpretato come resistenziale rispetto al potere, oggi, se assumiamo che l’intervento di Zelensky rimane coerente o normalizzabile all’interno della suddetta manifestazione, stiamo realizzando che l’immagine cinematografica segue ormai la corrente (senza esprimere giudizi di merito sulla giustezza di questa corrente), e ha quindi perso del tutto la sua valenza resistenziale, sostituita in parte da quella meta-pubblicitaria.
Ora, Godard (o chi per lui) con il suo commento recente assume una sorta di assoluto presente nella funzione propagandistica di Cannes, un festival che per estensione (forse attraverso un ragionamento un po’ “a tesi”, ma è per capirci) definiamo come portatore di una certa idea di cinema, ma lui stesso ci dimostra attraverso il confronto con il suo io del passato, che qualcosa dopotutto è cambiato, e di certo non in meglio.
L’arborescenza che sta invadendo tutto del resto potrebbe non metterci molto prima di passare dalla manifestazione che li ospita ai film stessi. Se il giudizio critico, e quindi antiretorico, è il cinema, in quei giorni di maggio rappresentato dai film presenti a Cannes, e la semplificazione pubblicitaria, e quindi retorica, è il discorso di propaganda di un capo politico nello stesso luogo, allora ciò a cui stiamo assistendo è un vero e proprio assedio, un assedio alla complessità e a tutto quello a cui dovremmo rinunciare senza di essa.
Mi viene in mente in questo senso una scena di La macchina di morte dei Khmer Rossi, di Rithy Panh, in cui uno dei sopravvissuti ai lager di Pol Pot in Cambogia trova nella pittura una funzione terapeutica, dipingendo i ricordi della prigionia. In uno di questi dipinti i carcerati, bendati dai loro carcerieri, proseguono in fila indiana, legati gli uni agli altri. Una connessione immediata, quanto sicuramente involontaria (non so se solo da parte del testimone o anche da parte dello stesso regista) si instaura da subito con il bellissimo dipinto di Pieter Bruegel Parabola dei ciechi. La cecità simbolica dipinta da Bruegel viene trasferita fisicamente sul dipinto, mentre la cecità fisica imposta ai carcerati in Cambogia viene trasferita solo dopo sul piano simbolico. Proprio partendo dal concetto di Parabola dei ciechi possiamo quantomeno temere ragionevolmente che queste analisi rizomatiche non trovino più posto nell’ansa di un entourage cinematografico che permette che la propaganda arrivi a possedere il tempo e lo spazio di un luogo in cui la retorica dovrebbe essere scacciata dai pensieri di tutti attraverso l’immagine-movimento.
La semplificazione, il manicheismo del dibattito pubblico contemporaneo rischia di non trovare nel cinema una resistenza, quanto una resa, complice forse la crisi del settore, o complice semplicemente il movimento della Storia, che come sempre si muove da sola e in antitesi al Mito, nonostante quello che tutti ogni giorno sembrano raccontarsi all’interno dei principali canali di diffusione del pensiero di massa.
Per concludere questa breve riflessione mi sembra abbastanza interessante citare un frammento di un’intervista di qualche giorno fa su Il manifesto allo scrittore libanese Charif Majdalani (La Casa nel giardino degli aranci, La villa delle donne). Majdalani ha definito come un’illusione quel che chiamiamo Storia, che secondo lui invece “è in definitiva solo un grande racconto che serve a mettere ordine nell’incoerenza del passato, a cancellarne asperità e incoerenze, dando l’impressione che l’umanità sia sempre andata dove voleva andare con coerenza e logica, e quindi che il presente non sia completamente consegnato all’incertezza e al non-senso”.
E allora, cari lettori, se l’alternativa a questa narrazione, a questa schematizzazione degli eventi umani contemporanei (guerre, pandemie, crisi economica, disastro ambientale), è il caso, teniamoci stretti e affrontiamolo, evitando di fingere che tutto sia semplice, diviso in due fronti, e sperando che almeno il cinema ci aiuti ancora per un po’ a marcare questo sottilissimo confine, senza trasformarsi, anche lui, in uno spot.
BELLARIA FF 40: UNA CLAUSTROCINEFILIA
Il fragoroso battere sui tasti di un PC, le appannanti volute del fumo di sigarette; le lettere scorrono sullo schermo mentre un flusso di coscienza si fa incessante, caotico, claustrofobico. Dalla sua stanza Alessandro Aniballi dialoga con un computer, una macchina che funge da valvola di sfogo, unico compagno capace di assecondare il suo delirio. Perché di delirio si tratta, un’ossessione che passando attraverso una carrellata di sindromi dispiega il senso della massima di Giovanni Spagnoletti, fatta sua anche dall’autore: «La cinefilia è una malattia, chiaramente!» Ma come declinare un simile concetto in immagini? Premiato a Bellaria, Aniballi esaudisce il suo cinefilo bisogno con un’opera che non è film, un’opera che non è saggio, un’opera che nella sua audace complessità è semplicemente cinema: Una claustrocinefilia è un film-non film che stupra se stesso e lo fa per amore, che ripercorre la storia, omaggiando e anatomizzando i maestri, perso nella scissione tra critica e regia, «tra delirio di onnipotenza e umiltà da mentecatto».
Come spiegare e fare il cinema se non attraverso di esso? Ripercorrendo i suoi corpi, le sue trame, in un sovrapporsi di pellicole che continuano a risuonare nella testa del regista. È il fare che si mescola all’indagare, è il rispondersi indagando se stesso e gli altri, e il domandarsi quanto le risposte possano essere davvero chiarificatrici.
La pandemica prigionia lascia ai soli piccoli schermi di casa l’arduo compito di mantenere vitalmente attiva la settima arte, qui assoluta protagonista, sostenuta e rinvigorita da un personal computer e dal personale turbinio di pensieri interni del critico-regista; un turbinio tramutato in parole e rigettato in voce, in suono, a volte titubante, altre ridondante, ma di una dirompente e disperata sincerità. Aniballi nel parlarle al PC parla a noi e comunica con il suo io più irrequieto e complesso, converte il monitor in specchio, riprende il suo volto e, con un gioco malato quanto personale, si priva in di ogni tipo di schermatura, spogliandosi in maniera goffa dei suoi disturbi.
Vi è in principio la chimerica figura di Benicious, la prima sindrome, una leggendaria entità senza fissa dimora, che trova un tetto solamente inseguendo i festival, da nomade che vive il cinema dall’interno e vive solo di quello. È l’alter-ego dell’autore, un tempo anch’egli cineasta vagabondo al seguito delle realtà festivaliere ed ora in gabbia, soffocato dalle turbe che affiorano nel realizzarsi prigioniero di se stesso, del suo isolamento totale, della sua incomunicabilità. Le restrizioni divenute costrizioni hanno ucciso per lungo tempo la condivisione, elemento cardine di quelle manifestazioni insopprimibili per chi fa dell’amore per l’arte una malattia. I festival sono rimasti muti, incapaci di potersi esprimere così come i propri protagonisti. Alessandro Aniballi, anche filosofo, riporta Heidegger: «Il linguaggio è la casa in cui l’uomo abita», ma si mostra fragile ed alieno alla sua stessa voce, mal sopportata, mai precedentemente registrata, ed ora prepotentemente depositatasi sul fondo di questo film-saggio, più forte del suo volere, più rumorosa del silenzio del suo isolamento. Da Benicious a São Jerônimo, desertica figura protagonista di immagini essenziali, emblema dell’isolamento, della distanza dal tutto; dalla lingua al sapere inutile, che è in realtà non necessario, immateriale, ma «utile per sviluppare la propria identità» e quindi anch’esso essenziale, vitale. Un susseguirsi di sintomatologie apparentemente casuali ma unite da un indelebile filo invisibile, che attraversa anche l’orgasmica e minuziosa analisi di un fotogramma di Orson Welles, osannato, e si conclude col neologismo che racchiude tutto: la «la sindrome claustrofobiografica». Nel momento della ritrovata libertà l’autore, davanti a un piccolo schermo diventato immenso, si sente ancora incatenato nella sua prigione, quella stanza dalla quale si domanda se sbirciare all’esterno per poi varcare la soglia, se voltarsi indietro e realizzare il vuoto, se affrontare il buio, asfissiante, claustrofobico, ignoto. Le sigarette si spengono, il fumo si dirada, i tasti cessano di battere ed è tutto nero: schermo nero.