“Quelle trasmissioni fecero sì che i fatti inconoscibili ai più nella loro essenza divenissero per la prima volta realtà spingendo i contemporanei all’impegno attivo”.
G. Anders “Dopo Holocaust”

 

Partiamo dalla definizione di documentario proprio perché “documentare” una porzione di mondo sconosciuta, portare alla luce, nel suo semplice gesto, è alla base dell’operazione stilistica di No Other Land. Spesso riflettiamo sulla cura, sulla tecnica, sulle scelte che portano gli autori a fare un film senza renderci conto che a volte un film è importante anche solo perché esiste al di là di ogni ricerca estetica o visione innovativa sul mondo.

Secondo Nichols: “il documentario è un prodotto filmico che rende concreta la nostra realtà sociale. Esplora e comprende il mondo da nuovi punti di vista”.
In No Other Land a misurare il mondo ci sono Basel e Yuval. Basel è un attivista palestinese che si oppone alle forze di occupazione israeliane insediatesi a Masafer Yatta, villaggio di nascita. Yuval è un giornalista e attivista israeliano della vicina Be’er Sheva che aiuta Basel a documentare le demolizioni e l’insediamento militare israeliano nel corso degli anni.

Il film, girato nell’arco di cinque anni (dal 2019 al 2023) ricalca tutte le caratteristiche per essere un film di famiglia, nella forma non lontano a quella che fu l’operazione di Ross McElwee, cambiando in questo caso la portata sociale del contenuto. Se McElwee era un bianco americano economicamente benestante che rifletteva sulle conseguenze e i disastri sociali dovuti al lavoro dei suoi antenati (Bright Leaves in particolare) qui Adra, Abraham, Szor e Ballal. sfruttano gli stessi elementi narrativi tipici del cinema in prima persona: le immagini di archivio di famiglia, la storia personale, la camera in mano e il voice over; per raccontare un’urgenza del presente. Ed è per questo che a differenza del cineasta americano, Basel Adra ha bisogno di diventare soggetto ripreso, oggettivizzato, parte integrante di una verità spesso taciuta o distorta.

Ma perché è così fondamentale che questa storia sia raccontata da Basel in prima persona? Viene in nostro aiuto Gunther Anders che in Dopo Holocaust, libro che analizza l’impatto nella società dei giovani tedeschi della serie tv Holocaust (1978): “Per entrare nel campo visivo di un intero popolo, la rappresentazione dello sterminio andò «rimpicciolita» a misura percettiva umana. Solo così, attraverso i protagonisti di un modesto film, riacquistarono fattezze di individui le vittime di un crimine oscurato dalla propria smisurata contabilità (…) la miniaturizzazione funzionale al vero: rimpicciolire cioè la verità, inintelligibile per la sua smisuratezza, in modo che essa non ci estrometta del tutto”. Rimpicciolire, soggettivizzare una storia per renderla più vicina e quindi più comprensibile.

No Other Land è poi certamente una riflessione sul potere esercitato, sul significato di casa, una riflessione sul liminale. Su cosa significhino pochi metri di distanza (le targhe gialle – israeliane – possono circolare ovunque, quelle verdi – palestinesi – hanno il divieto di entrare nel territorio dell’IDF). No Other Land è soprattutto un film che ci ricorda il peso politico che può avere il cinema.

Basel e Yuval scrivono, condividono, raccontano una verità; una verità che nel mondo di oggi si misura con il numero di visualizzazioni su Instagram, con i click delle aperture degli articoli di Yuval. Ma questo non basta perché “la gente si commuove un po’ e poi?”. Le visualizzazioni sono il metro di giudizio di una società (se si conta la differenza tra i like al profilo di Basel circa 100mila e le visualizzazioni del video generato con l’IA di Trump, Musk e Netanyahu nella “nuova Gaza” arrivate in poco meno di una settimana a due milioni) in questo mondo in cui è sempre più difficile essere visti. E se le visualizzazioni social sono effimere, non può esserlo però il peso politico che si portano dietro premi e festival come Berlino e gli Oscar.

Le ruspe che distruggono asili, la violenza esercitata con la paura, i mandati di demolizione in quel territorio fatto di grotte brulle e abitabile solo da chi ne conosce il rispetto delle sue forme in questa storia naturale della distruzione non c’è spazio per pensare a un’estetica filmica che non sia quella della sopravvivenza; per questo i formati cambiano (il verticale come modo di restringere il campo e rendere tutto più immediato, soffocante) e la restituzione di immagini pixellate come unica verità estetica possibile. No Other Land è il racconto di una popolazione che r-esiste, che vuole continuare a vivere “perché nessuno può mai dimenticare dove nasce”.

 

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