Scorrendo le righe vergate da Christoph Terhechte a prefazione del festival DOKLeipzig, che egli attualmente dirige, viene da riflettere sul difficile compito che investe chi, bene o male, prova a mettersi di fronte al reale con sguardo critico. Nell’opuscolo contenente il programma di quest’anno, Terhechte parla della responsabilità (civile, intellettuale) di prendere posizione di fronte alla violenza della Storia. E pur senza rinnegarla, a questa responsabilità egli antepone l’ascolto reciproco, la riflessione, in buona sostanza la disponibilità ad accettare l’ineludibile complessità delle cose. Come dire che per prendere posizione bisogna prima capire, e quando capire e difficile è meglio fermarsi e ascoltare. Parole di buon senso, parole dell’oggi. Ecco, mi dico, in altri tempi ancora si sarebbe chiesto al cinema e a coloro che lo fanno una presa di posizione, una parola di civiltà e di ragione di fronte all’incrudelire del mondo. Adesso, forse, quel che conta è ricreare (come ebbe a scrivere Fortini nel 1988) «entro di sé il minimo vitale di persuasioni necessarie per opporsi alla bestialità costituita»1.

Dico questo perché, come accennavo nelle mie ultime note berlinesi sul cinema stratigrafico, l’ambizione di comprendere il reale, oggi, costringe spesso cineasti a strategie di concentrazione o moltiplicazione dei punti di vista. Strategie legittime, rispetto alle quali, tuttavia, occorre di volta in volta misurare esiti e compromessi.

Si prenda ad esempio Valentina e i MUOStri, dell’italiana Francesca Scalisi. Scalisi si è distinta in passato per cortometraggi come Half-Life In Fukushima (2017) e Digitalkarma (2019) nei quali sviluppa una certa poetica dell’ostinazione come pratica di resistenza. Questo suo primo lungometraggio, che dopo Lipsia è passato da noi al Festival dei Popoli, prende le mosse dalla volontà di esplorare l’impatto di un impianto radio statunitense, il MUOS, sulla comunità siciliana di Niscemi. Scalisi si avvicina al soggetto tramite la famiglia di Valentina, che vive a ridosso delle istallazioni, nel territorio della riserva naturale della Sughereta. Le onde elettromagnetiche prodotte dalle antenne militari danneggiano la natura, già provata dagli incendi, interferiscono con gli apparecchi medici, e comportano una presenza costante di soldati nella campagna circostante. Tutto questo causa astio e rancore nella popolazione locale: ma il movimento di protesta dal basso che ne consegue resta sullo sfondo del film, che preferisce tenere lo sguardo sulla giovane Valentina, sui suoi rapporti familiari, e sugli sforzi con cui cerca di ritagliarsi uno spazio di autonomia. Del resto, Valentina è una figura che suscita negli spettatori una simpatia immediata, e il suo arco narrativo, motivato com’è dal desiderio di affrancarsi, si presta bene a fare da simbolo per la resistenza della piccola comunità oppressa. Ne risulta un documentario di gran cuore, efficace al netto di alcune decisioni pasticciate, come quella di inserire sequenze di dubbio sapore poetico, o mettere in scena svolte fittizie nella vita della famiglia protagonista.

Eppure qualcosa non torna. Lo stesso istinto narrativo che ha suggerito ai cineasti di concentrarsi sulla vita quotidiana di Valentina finisce per forzare loro la mano. La voglia di dare alla materia i lineamenti accattivanti di una storia di emancipazione finisce per produrre semplificazioni indebite. Certo, la presenza della base militare statunitense è espressione di un potere imperiale globale, ma i soldati con cui Valentina e suo padre interagiscono durante le loro lezioni di guida sono italiani, e per di più locali, a giudicare dalla parlata. Il film suggerisce una saldatura tra il geopolitico e il biopolitico, ma nello scarto si inserisco contraddizioni. Mi sembra particolarmente grave, in questo senso, che il film risolva narrativamente il percorso di Valentina con la decisione di cercare lavoro in paese e lasciare la famiglia. L’indipendenza economica personale è cioè proposta come riscatto, in chiave liberista, quando invece è proprio la relazione di co-dipendenza tra le persone della comunità, nonché tra la terra e gli esseri umani che la abitano, che dovrebbe fare da asse positivo di contro alla strumentalizzazione del territorio a fini di controllo geopolitico.

Il problema, mi sembra, è tanto ideologico quanto formale. La necessità di ripiegare su vicende minori e quotidiane è sì conseguenza di un soggetto contraddittorio, troppo complesso da afferrare nella sua totalità, ma anche dell’ambizione di far rientrare questa materia nelle forme rodate del racconto. Ambizione comprensibile, ma potenzialmente fatale. Chi fa cinema del reale, specialmente oggi, si trova di fronte alla sfida di trovare un equilibrio, anche a costo di resistere aspettative narrative ben cementate. Una possibile via d’uscita, in questo senso, è quella del coté metatestuale, col documentarista che entra nel film per ancorare il racconto a una prospettiva umana—specie se tale racconto rientra nell’universo affettivo e famigliare del cineasta. Anche in questo caso, tuttavia, incombono rischi, come dimostrava a Berlino il deludente Il cassetto segreto di Costanza Quatriglio, che facendo mostra di voler omaggiare la figura del padre finiva invece per ripiegarsi in una dimensione privatistica e ombelicale, perdendo di vista il proprio soggetto.

Riesce meglio Renata Lučić, il cui A Year Of Endless Days muove da una delicata relazione famigliare per indagare un fenomeno storico e sociale, quello dell’emigrazione delle donne croate negli ultimi trent’anni. In un paesaggio rurale quasi abbandonato, in Slavonia, Lučić visita suo padre, burbero cinquantenne rimasto come altri uomini solo, dopo che la moglie è emigrata all’estero. Studio di solitudine, di mascolinità dolente, il film lascia trapelare la partecipazione emotiva della documentarista senza perdere di vista la dimensione interpersonale, sociale ed economica del soggetto. La superficie del film è occupata dalle scampagnate del padre con l’amico Joso; l’amicizia tra i due uomini, fondata sulla comune perdita delle proprie compagne, è tratteggiata con affetto e rispettosa distanza. In sottotraccia, intanto, si dipana la ‘trama’ di Lučić stessa, di cui indoviniamo il timido tentativo di avvicinarsi al padre, nonché quello di esplorare il proprio legame irrisolto con la terra d’origine. Su queste tracce esistenziali e personali Lučić innesta il tema di una terra spopolata, dell’emigrazione come scelta subita (da chi resta) o obbligata (per chi è partito), e del difficile rapporto di chi è lontano con chi che è rimasto. I piani poggiano l’uno sull’altro, e costruiscono uno sfondo in cui film trova la propria direzione organicamente, senza dover ricorrere a forzature o semplificazioni.

La strategia metatestuale e l’ancoraggio narrativo in prima persona possono dunque fare da chiave di saldatura, soprattutto nell’ambito di scenari la cui rilevanza politica e sociale mantiene una dimensione prettamente vissuta (com’è appunto il caso della migrazione di massa).

Ciò non preclude che simili strategie discorsive non possano adoperarsi per affrontare temi più astratti o teorici. Uscendo dall’area del documentario e entrando nel campo del film saggio, vorrei segnalare a questo proposito due titoli della kermesse di Lipsia che mi sono parsi emblematici.

Being John Smith, premiato come migliore cortometraggio, è un film inglese di impostazione sperimentale in cui il filmmaker, John Smith, riflette sull’impatto che il suo comunissimo nome ha avuto sulla sua carriera. Il corto, un collage di fotografie e frammenti, è tenuto insieme dalla voce del regista che, in fuori campo, rievoca episodi della propria vita. Il tema è quello dell’identità, del desiderio di poterla controllare, stabilirne limiti e riconoscibilità: desiderio frustrato da dinamiche sociali al di fuori del nostro controllo, come la scelta del nome da parte dei genitori, l’influenza dei discorsi pubblicitari e mediali, ma anche da questioni più sottili, come la malattia, che il film tocca con intelligenza, giocando sulla tensione tra voce narrante e sottotitoli per insinuare un’impressione di fragilità e sovvertire l’autorità dell’acousmetro. Ne risulta un film ironico e acuto che usa la prima persona in chiave quasi antifrastica, per attirare l’attenzione sulla natura insieme artefatta e incompleta della nostre identità sociali.

Più esplicitamente politico è We Had Fun Yesterday, film-saggio di Marion Guillard che mescola elementi diaristici a una riflessione femminista sulle immagini. Guillard è una documentarista naturalista; il film—anch’esso cucito insieme dalla voce narrante dell’autrice—affianca frammenti di video-diario personale con materiali online e riprese naturalistiche. La prima persona, qui, serve a radicare nell’esperienza diretta della filmmaker la riflessione sulle aspettative che gravano (e modellano) le immagini: tanto le immagini che creiamo quanto quelle che adottiamo per definirci. Il nesso tra natura e donna appartiene all’antropologia culturale, ma Guillard lo trasforma in una scoperta privata, raggiunta attraverso il proprio vissuto e il proprio rapporto con la madre. Un’intuizione stilistica forte, tradita forse nell’esecuzione da un certo ripiegamento semplicistico sul finale del film, ma nondimeno significativa di come (anche all’interno del film-saggio) queste strategie discorsive possano servire a fare da saldatura tra privato e collettivo.

Prima di chiudere questo reportage, una menzione finale per Dominque Cabrera, il cui Le cinquième plan de La Jetée, vincitore della Colomba d’oro, gode di una premessa talmente formidabile da farsi (quasi) perdonare una certa bolsaggine nel ritmo. Il cugino di Cabrera si riconosce, per caso, in uno dei passanti fotografati di spalle nella quinta inquadratura del celebre film di Marker. O meglio: crede di riconoscersi. Lo spunto infatti mette in moto una sorta di indagine cinefilo-filologica, con Cabrera che, nei panni improvvisati di detective, ricostruisce tanto la storia de La jetée, quanto il contesto storico e generazionale della sua famiglia, pieds noirs costretti a trasferirsi in Francia dall’Algeria dopo l’indipendenza. L’impianto ricorda il cinema di Travis Wilkerson, e davvero l’intreccio tra Storia, storia del cinema e storia privata è, sulla carta, perfetto, soprattutto quando emerge che Davos Hanich, il protagonista del film di Marker, veniva dallo stesso villaggio della famiglia di Cabrera. Dico ‘sulla carta’ perché, nonostante le premesse strepitose, Le cinquième plan finisce col perdere slancio, e ripiegarsi fatalmente su stesso. Come già Quatriglio, anche Cabrera commette l’errore di perdere di vista il punto di equilibrio di cui dicevo sopra, lasciando che il film prenda una deriva solipsistica. Così, da strategia stilistica, la prima persona diventa tema: Cabrera smette i panni di detective per concentrarsi sul proprio rapporto con Marker, e il film affonda. Peccato. Resta comunque uno spunto meraviglioso, meritevole del premio. E se non altro, ci sono sempre i film di Marker da rivedere.

1Franco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990, p. 15.