Il nostro è l’unico campo del visibile. Le immagini sono frutto della necessità di razionalizzazione dell’uomo, del suo bisogno di memoria, della sua necessità di sopravvivenza. Dunque è l’essere umano che può produrre e riflettere sulle immagini. Allora significa che l’immagine è un prodotto antropologico limitato da una tecnica, da un punto di vista. Proprio da questo limite del visibile sono partiti Parenti e D’Anolfi per la ricerca visiva di Bestiari, Erbari, Lapidari, presentato Fuori Concorso a Venezia e film di apertura del festival Frontdoc. Venti archivi europei, quattro anni di riprese. Prima l’idea, il sentimento, la riflessione, e poi la messa in scena. I due autori sono partiti dal titolo per una ricerca immensa che gioca con diversi generi cinematografici.
Troviamo nei Bestiari il film d’archivio. La storia del cinema animale è una storia di violenza. Non è un caso che “to shoot” abbia il doppio significato di sparare e riprendere – così Parenti e D’Anolfi ripercorrono le dinamiche di potere del rapporto uomo-animale. Si parte dall’osservazione nei circhi, la necessità di capire il movimento con le fotografie, passando per la sperimentazione dell’uomo sulle cavie animali per fini scientifici, fino a oggi attraverso le riprese di una clinica veterinaria di Milano.
Erbari invece si arrende completamente all’impossibilità di trovare un punto di vista per noi comprensibile. Come afferma Stefano Mancuso (che accompagna il voice over): i vegetali sono l’essere vivente più forte della pianeta, mentre l’esistenza dell’uomo è realtà da poche migliaia di anni. Le piante sono riuscite ad adattarsi e sopravvivere, mentre le nostre funzioni vitali sono relegate ai singoli organi. Le piante respirano, si riproducono, muoiono e rinascono con tutto il corpo, la loro potenza vitale si muove al di là della nostra comprensione, i loro cambiamenti avvengono in migliaia di anni e non abbiamo abbastanza tempo per poterlo osservare. Come se un insetto provasse a capire la vita degli esseri umani. Immagini che accompagnano un concetto nuovo, una presa di consapevolezza che ciò che ci circonda non è a misura di uomo o donna, ma al contrario saremmo noi a doverci misurare in base alle altre forme di vita; come dimostra la commovente parte di archivio di Bruno Ugolini, botanico e poi soldato durante la Prima Guerra Mondiale, il cui unico interesse era fare una raccolta per studiare un mondo ancora sconosciuto.
Il terzo capitolo, dedicato ai Lapidari, è il più difficile per ammissione degli stessi registi. Prende le forme di un film industriale partendo dalle bombe nei teatri di guerra fino alla realizzazione del cemento. I fossili contengono la stessa fantasmagoria del cinema, conservano nel tempo memorie sepolte in sottostrati di pietra e terra. Un percorso a ritroso per trovare nelle origini della materia una memoria del dominio dell’uomo sul mondo.
Parenti e D’Anolfi sono ricercatori del visibile: compongono le inquadrature e scompongono immagini come quelle a raggi x, le studiano come quelle dei venti archivi europei e le alternano in una infinita memoria, un’analisi millimetrica dell’immagine come approccio accademico, come sentimento con il quale misurare il mondo circostante. Scomporre ogni singolo fotogramma ci permette di capire il movimento seguendo la scia intuitiva di Muybridge, che parte proprio dallo studio sugli animali. Ed è il movimento che differenzia il mondo bestiale da quello vegetale, che ha dovuto trovare nel tempo la capacità di sopravvivere senza muoversi. Dalla ferocia e dalla violenza degli animali all’immobilità delle piante, per tenere le fila di un discorso, di un sentire il mondo diverso, fino ai lapidari che rappresentano l’edificazione, la possibilità della specie umana di dominare e controllare lo spazio in una raccolta anti-uomo, antispecista.
Il cinema di Parenti e D’Anolfi è sempre un cinema che ragiona su se stesso. Ci sono le immagini e chi le analizza davanti a noi: se in Guerra e Pace i soldati analizzavano le immagini e discutevano del limite etico della rappresentazione del dolore, nei Bestiari tocca a Sophia Gräfe e Francesco Pitassio, storici della rappresentazione animale, restituire questa riflessione. Un cinema fatto di associazioni visive: è il montaggio che disvela e rivela riflessioni. Un cinema fatto di epifanie contemplative che sfiora il didattico, a cui piace guardarsi, analizzarsi e disperdersi nei generi. Un cinema di attesa, di sfida verso chi guarda; non è un caso che la durata del film raggiunga le tre ore e mezza, perché come suggeriscono le pietre di inciampo del finale: per guardare davvero bisogna fermarsi nel tempo e nello spazio (la sala cinematografica).