“(…) perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita”.
(Rainer Maria Rilke)

Virgil Vernier è una personalità unica nel cinema francese, capace di operare, attraverso i suoi film, uno scarto vertiginoso rispetto al canone del realismo sociale a cui, in prima battuta, alcuni potrebbero ricondurlo. Non si tratta soltanto della sua capacità di tenere sempre molto contenuto il profilo finzionale delle sue storie, partendo – potremmo dire senza esitazioni – da un approccio prettamente osservativo della realtà. La sua cifra peculiare risiede soprattutto nell’innestare sull’idea di film come documento antropologico, calato con sensibilità nel nostro tempo, un’aura evocativa, sfuggente, atemporale, che in più di un lavoro non può che essere ricondotta alla fiaba e al mito.

Che questa sia la chiave per raccontare un mondo sempre più alla deriva è evidente fin dalle prime sequenza di Cent mille milliards, presentato a Locarno nel Concorso Internazionale. La vicenda – narrativamente lineare, ma con quali vette sensoriali… – segue la vita del giovanissimo sex worker Afine, che nella settimana tra Natale e Capodanno si trova a vagabondare tra le strade del principato di Monaco finendo per fare compagnia all’amica di origine serba Vesna e attraverso di lei entra in contatto con Julia, una dodicenne figlia di misteriosi miliardari cinesi, assenti perché impegnati nel progetto sovrumano di un’isola artificiale al largo della costa (inquietante evoluzione del parco tecnologico al centro di Sophia Antipolis). Un nodo irrisolto – e irrisolvibile – accomuna Afine e Julia: la loro orfanità relazionale. Qui sta il film, che nella sua assoluta sobrietà impone allo spettatore una sfida non da poco: immergersi nel racconto senza sconti dello sradicamento nel mondo globalizzato, di cui il paesaggio monegasco, epicentro del capitalismo finanziario, è l’implicita, inscalfibile roccaforte.

Ci sono delle immagini in Cent mille milliards, come i camera car che percorrono la città di notte, che insieme stregano e paralizzano: davvero è così difficile riconoscere nell’impasse di Afine anche la nostra solitudine di privilegiati senza scopo? Davvero non si può sognare un’intimità che cortocircuiti il già scritto e lo proietti in un universo altro, epifanico e senza coordinate (“Ti ricordi quando eravamo gattini su un tetto nel XVII secolo?”), dove la traiettoria della nostra vita possa cambiare? Sono i monologhi fuori campo di Afine, più che le sue decisioni o azioni, a testimoniare la presa di coscienza della necessità di fare un salto, oltre la catena numerica del possesso e del progresso (i 100.000.000.000 del titolo) che tutto concede all’essere umano fuorché la libertà. Quella libertà così ben sintetizzata da Julia, la bambina veggente che si ricorda le vite precedenti, mentre scrive sul suo taccuino: “Un soldato si stacca dalla sua unità per effettuare una ricognizione”. Lo stesso gesto è operato da Vernier attraverso un film già simile a una piccola pietra curativa, nell’universo pre-apocalittico – anche cinematograficamente parlando – “dei palazzi, dei diamanti e dell’oro”, dove “se le cose continuano così, tutto crollerà”.