Scopritrice di Yorgos Lanthimos, coproduttrice del suo esordio dietro la macchina da presa quasi vent’anni fa (Kinetta), Athina Rachel Tsangari sembra voler ricalcare, a nove anni dal suo ultimo lungometraggio (Chevalier), l’attitudine obliqua verso il film in costume che è stata una delle chiavi del successo di Poor Things. Il romanzo omonimo di Jim Crace è stato infatti adattato (insieme a Joslyn Barnes) abbondando in elementi che il nostro presente proietta su un passato che peraltro è privo di datazione definita, sostituita invece da una ruralità vagamente tardo-premoderna, ovvero minacciata dall’incipiente accumulazione capitalista. È quest’ultima che disgregherà la comunità organica al centro di Harvest, ambientato in una Scozia che è epitome del premoderno e fiero bastione di resistenza verso la modernità almeno dai tempi di Walter Scott.
Già dalla primissima scena, il passato è filtrato da occhi immediatamente, apertamente turistici, ovvero contemporanei: quelli del protagonista Walter, che per ragioni famigliari appartiene solo di sbieco alla comunità in questione, e che contempla la natura intorno al villaggio con un distacco estetizzante tutto contemporaneo e lontanissimo dal quotidiano contatto diretto che con lei hanno i suoi abitanti. Di lì a poco arriveranno feste paesane che sembrano rehearsals di qualche spettacolo di Grotowski, personaggi che usano uno slang di secoli successivo a come parlano gli altri, e… due individui di colore (nella Scozia pre-capitalista?!?).
Scelta, questa, che se da un lato è ascrivibile allo zelo woke della BBC (fonte produttiva principale), dall’altro astutamente lo rintuzza piazzando i due personaggi agli estremi opposti: uno (una) incarna il non plus ultra dell’esclusione da, e della ribellione contro, il nuovo sistema capitalista; l’altro è un cartografo che, suo malgrado e pur in perfetta buona fede, finirà con l’essere il principale responsabile della rovina del villaggio essendo colui che introduce un rapporto meramente quantitativo con l’esistente. Sarà lui, insomma, con il suo nuovo modo di mappare, a introdurre il germe dell’astrazione nel modo in cui l’ambiente viene usato e chiamato (nel senso di: fatto oggetto di denominazione linguistica), strappandolo al contesto concreto, vivente, pratico.
Dopodiché, la catastrofe (ovvero: la colonizzazione delle campagne da parte delle città, cioè da parte di governanti che vampirizzano il contado senza abitarlo e sottoporsi al suo controllo) procederà spedita, con un ritmo che Tsangari conserva uniformemente sostenuto anche al prezzo di sacrificare, in parte, l’identificabilità degli snodi narrativi. Ciò che conta è, più semplicemente, restituire la sensazione epidermica che qualcosa di vivo sia davanti alla cinepresa, tentare l’ambiziosa costruzione di un mondo che pulsa ben oltre i confini dell’inquadratura con abbondanza di comparse, architetture e soprattutto costumi che non sono storicamente plausibili senza essere al contempo platealmente inventati. Clamoroso il lavoro sulla fotografia (specialmente notturna): la natura, ovviamente, la fa da padrona, ma con una bellezza mai pacificata e sempre pervasa da un che di conflittuale, che abita in primis i colori intensi e contrastati del cielo, del mare, dei prati (le cui pendenze collinari e i cui dislivelli sono quanto mai enfatizzati) – e del fuoco, e del fango.
Senza nulla togliere ai contenuti specifici di questa vagamente marxiana allegoria, leggibili in modo piuttosto trasparente, ciò che più conta è che, grazie alla multiforme, sempre sottile e mai troppo stridente presenza dell’anacronismo (ovvero delle proiezioni del presente sul passato) la causa ultima del passaggio alla modernità, ovvero l’introduzione di un nuovo modo astratto e quantitativo di vedere e catalogare le cose, si sottrae alla collocazione storica. Genealogie di come questa rivoluzione cognitiva si sia prodotta certo non mancano, e la solita sospetta, ovvero l’introduzione della prospettiva centrale in pittura, viene qui energicamente stigmatizzata da una regia insistentemente multi-prospettica. Verosimilmente per fugare qualunque sospetto di determinismo che un eccessivo ancoraggio storico potrebbe portare con sé, Harvest preferisce invece far dipendere la mutazione da una sorta di virus venuto dal futuro, qualcosa cioè che solo con il nostro tempo, ai confini opposti della modernità, si rende visibile.
Ciò cui si deve il passaggio dal prima al poi appartiene dunque più al poi che al prima. La tradizione, insomma, è paradossalmente un’invenzione di ciò in favore di cui la tradizione è stata abbandonata. Spetta a noi, insomma, che abitiamo il tempo da cui, secondo Crace e Tsangari, venne il virus della modernità, rimanere fedeli a una tradizione che però è tutta da inventare e non da recepire passivamente. È solo facendo fronte a questo paradosso che l’utopia di un’alternativa al capitalismo corrente può venire formulata, attraverso una fedeltà alla materia, alla luce e alle loro reciproche tessiture (che Tsangari persegue ricorrendo molto efficacemente alla pellicola) possibile solo inventando una terza via tra astratto e concreto: ciò che nulla come il cinema può cominciare a formalizzare.