Post-mortem, il cinema di Almodovar lo è stato fin dagli esordi negli anni Ottanta. All’epoca, al cinema piaceva pensarsi postumo, orfano di ogni orizzonte che non fosse il giocare col cadavere di se stesso dissezionandolo/si e ricomponendolo/si a piacere. È ciò che poi Almodovar, col suo barocchismo furbamente raffreddato, ha continuato a fare per un’intera carriera, invero talvolta azzeccando qualche Frankenstein (come Gli abbracci spezzati, 2009) che cominciava a camminare di inorganica vita propria.

Non è, purtroppo, il caso di The Room Next Door, film informato dalla morte già nel soggetto: una reporter newyorkese malata di cancro che sceglie l’eutanasia, assistita da un’amica. La fine è segnata, e se i due personaggi maschili non riescono ad arrendersi alla sentenza e si illudono che la partita sia ancora aperta (l’amico professore di sinistra, che cerca di scuotere le coscienze per reagire al cambiamento climatico; il poliziotto di destra per cui la morte è a priori imprevedibile appannaggio dell’arbitrio divino e dunque persegue chi si rende reo di eutanasia e i suoi complici), le due donne si rassegnano serenamente, sovranamente. L’assenza di futuro porta alla scoperta del presente, e il presente è un punto dal quale si può contemplare la sospensione dei conflitti irrisolti del passato: la neve che chiude The Dead di James Joyce come l’adattamento per lo schermo di John Huston, che si posa ugualmente sui vivi e sui morti.

Almodovar, tuttavia, si arrende alle scorciatoie. Poco dopo l’inizio scopre le carte, mostrando il marito della protagonista in un flashback mentre va a morire nel tentativo vano di spegnere un incendio, pervaso dall’oscura ma ferma consapevolezza che lo stia facendo “per la figlia”. Così, quando anche la protagonista porrà fine alla sua esistenza, benché lo faccia per nessun altro che se stessa, il suo gesto avrà un destinatario implicito (la figlia) che l’amica della suicida avrà cura di coinvolgere, stante soprattutto il suo (della figlia) bisogno disperato di trascendere conflitti che ancora le bruciano. Eccola dunque infine comodamente adagiata nella poltrona che fu della madre, contemplare la sospensione dei conflitti da un punto, il presente, molto più importante di qualunque inesistente futuro.

Almodovar, però, arresta il suo film proprio nel momento in cui avrebbe dovuto arrischiare una simmetria vera tra i vivi e i morti, ovvero tra la figlia e la madre interpretate tutte e due da Tilda Swinton. La figlia, invece, emerge nel film solo il tempo di adagiarsi sulla succitata poltrona, appena prima dei titoli di coda. Non c’è insomma vera convergenza tra vivi e morti: gli spettri, immagine quintessenziale di questa convergenza, stanno solo nelle parentesi finzionali, nei flashback, nelle citazioni di questo o quel libro o film, senza mai davvero interagire con la parabola terminale di un personaggio, e della sua aiutante, per i quali il presente non è la rivelazione di un luogo al di là della distinzione stessa tra organico e inorganico, ma semplicemente qualcosa la cui transitorietà va goduta e appropriata. In altre parole, un oggetto da consumare, uno tra i molti che, come da tradizione almodovariana, affollano le scenografie con le carte da parati vintage, i design ricercati, i costumi studiatamente geometrici e quant’altro.

Parafrasando Groucho Marx, di The Room Next Door si potrebbe dire: “questo film è fatto di personaggi borghesi e radical chic e si rivolge palesemente a un pubblico borghese radical chic, ma non ingannatevi: è davvero un film borghese e radical chic”. Un film, cioè, che si compiace della propria chiusura testuale, realizzata con i mezzi più facili, ovvero aprendo alla convergenza tra vivi e morti con una mano e respingendola con l’altra. I personaggi si rassegnano a diventare spettatori, e gli spettatori vengono piazzati al di qua del punto in cui organico e inorganico cominciano a confondersi, enunciato ma non sviluppato, contemplato da una comoda distanza di sicurezza.