La giuria del Concorso Casa Rossa Internazionale del Bellaria Film Festival, motivandone la premiazione, l’ha definito punk e sgangherato: è una commedia sopra le righe, un racconto di formazione che si libera dal passato e che cerca se stesso per (auto)definire la sua libertà. Si tratta di On the Go di María Gisele Royo e Julia de Castro, un road movie queer e femminista nato come adattamento di Corridas de alegría di Gonzalo García Pelayo, in cui Milagros (de Castro) si imbarca in un viaggio attraverso l’Andalusia alla ricerca della maternità, accompagnata dal suo amico Jonathan (Omar Ayuso) e da una misteriosa sirena che parla inglese (Chacha Huang). Ne parliamo con la regista María Gisele Royo.

Da quando sono piccola, mia madre fa i conti degli anni. Quando avrai 10 anni, io ne avrò 50, quando ne avrai 33 io ne avrò 73… mi ha fatto effetto vedere la stessa cosa recitata come incipit.

L’abbiamo scritta per il teaser dopo il primo sopralluogo, quando abbiamo deciso che il tema sarebbe stato la maternità. Julia, aveva 39 anni, si era registrata per il processo di inseminazione per genitori single. Concentrarci sulla maternità sarebbe stato un modo per capire se fosse una cosa che voleva davvero, come uno specchio. C’era bisogno di un voiceover che iniziasse il viaggio per il teaser: abbiamo scritto le prime battute e sono diventate parte del film. C’è anche il contrasto con l’importante differenza d’età tra Jonathan e Tonic, un parallelismo che dice subito che questa è la storia di due percorsi paralleli.

Jonathan e Milagros sono proposti come una dicotomia: come si sviluppa il loro rapporto?

Nei primi trattamenti lavoravamo a un film ibrido tra finzione e documentario: il vero Jonathan, un amico di Julia, avrebbe interpretato se stesso, ma poi abbiamo scritto una sceneggiatura e le persone reali sono diventate personaggi. La base resta la realtà, c’è anche la mia storia: con il mio migliore amico gay abbiamo spesso giocato con l’idea di diventare genitori insieme. Cosa significa il momento in cui decidi che qualcuno dipendente da Grindr può essere un genitore migliore di uno sconosciuto, o di una coppia? È terreno fertile da esplorare che non ho mai visto al cinema prima. Il nostro è un film sull’amicizia.

Il rapporto tra Milagros e Jonathan e la costruzione della loro amicizia mi ricorda l’idea di queer come di creazione di uno spazio fuori dall’eteronormatività, che poi è la famiglia scelta. Penso anche anche al road movie come genere di viaggio e ricerca in cui spesso si sviluppano storie queer: credi che esista un legame tra i due elementi?

Non ci ho mai pensato. C’è sicuramente un elemento riguardo la ricerca costante, oltre al tema dell’espansione dei confini. Il concetto di queerness per me è ancora qualcosa di… quando vuoi trovargli una definizione, svanisce. Direi che col road movie ha in comune la libertà.

Una libertà che si definisce in contrasto con la tradizione. Restano comunque le macchine come simboli di potere, no?

Però finiscono senza benzina! La macchina del padre di Milagros è a secco – però è ancora utile per arrivare da qualche parte. Il film originale, Corridas de alegría, aveva una macchina dagli anni Settanta: l’abbiamo tenuta come elemento visuale, bianco anziché nero. E poi la macchina ce l’ha data il padre di Julia gratis, quindi andava bene per il nostro piccolo budget.

Che dialogo c’è tra i due film?

On the Go è un omaggio; Corridas è un punto di partenza. Nasce come remake, però resta così solo un mese. L’abbiamo reso un documentario, poi diventa finzione. Gonzalo è nel film con l’attore Javier García Pelayo, che è quello che dice “Un volta avevo una macchina simile”: ci sono delle strizzate d’occhio qua e là.

C’entra qualcosa On the road di Kerouac?

No, niente. Il titolo originale di Corridas doveva essere Sobra la marcia, che tradotto è On the Go. Il titolo è inglese perché Gonzalo ha chiamato un altro suo film Sobra la marcia, e perché le prime proposte di finanziamento erano in inglese. C’è un personaggio che parla inglese, quindi ci sembrava funzionasse.

La sirena / dea / maternità.

Ci piaceva la figura della sirena, da un lato come simbolo concreto della corsa per la maternità – perché si sta asciugando e deve essere riportata in acqua – dall’altro perché volevamo giocare sul rapporto del film con la realtà. In un film qualcuno dice “Sono una sirena!”, ma ci credi? È vero? Non è vero?

È un elemento surreale. Come arriva, sparisce.

Per me è un mezzo per arrivare a Paloma. A Julia piace dire che nella realtà alcuni amici spariscono improvvisamente dalla tua vita, ed è normale.

E il mare?

Non c’è nel film originale. Si lega alla sirena, e poi stavamo girando nella mia regione – sono cresciuta a Sevilla e andavo sempre a Cadiz. Ogni volta che passavo per la strada del deserto pensavo bisognasse girare qualcosa lì.

È un posto molto scenografico.

È cinematograficamente potente: un percorso che ti fa passare per il deserto per arrivare al mare. 

Credo sia molto poetico; il mare come metafora del ciclo della vita, e l’acquario come spazio liminale in cui troviamo la sirena… che poi come prima cosa chiede una sigaretta! 

Chiede una sigaretta!

Ma acqua e fuoco non sono in contrasto tra loro?

Il simbolismo è venuto molto naturalmente, era molto scorrevole. La sirena dichiara un’idea di maternità casalinga, che però è da mettere in discussione: mostrarla nell’acquario, con la sua libertà limitata, con la sigaretta, e poi portarla al mare, è un tragitto che lavora bene su questa idea. Poi riprende la storia di Tonic e del pesce zebra col cuore che si rigenera.

Tonic spiega la scoperta che fa riguardo al cuore del pesce, che si può rigenerare da solo: anche dopo averlo lacerato, si ricostruisce. Però è un pesciolino piccolo, indifeso, come un bambino. Mi sembra allora ci sia un legame tra il pesce zebra e la domanda di Paloma “Darai la vita o chiederai ai tuoi figli di darla a te?”. 

È la domanda importante, parte dell’effetto specchio. Durante la scrittura abbiamo scoperto del pesce zebra e abbiamo pensato fosse una metafora molto potente. È necessario a inquadrare la storia di Jonathan: si può superare un’esperienza traumatica di abuso da parte di qualcuno molto più grande di te. Ma è stato importante anche per Milagros: è un momento di rinascita, una nuova opportunità per chiedersi se vuole essere madre solo perché sta finendo il suo tempo. Per il dialogo con Paloma non c’era una vera sceneggiatura: abbiamo avuto un confronto con l’attrice, ci siamo spinte a chiederci se si ha il diritto di decidere di diventare madri. Paloma lo sottolinea bene: stai chiedendo vita dal bambino, oppure stai dando la vita? E dove altro potresti mettere questa energia? Qual è la cosa più grande a cui puoi dare vita? C’è stato un momento in cui ci siamo dette che questa cosa era il film stesso.

Mi parli di più del lavoro di creazione?

È stato un processo molto aperto, volutamente orizzontale per dare possibilità ai vari reparti di fare proprio il film. C’è stata una triangolazione molto naturale: quando io e Julia non eravamo d’accordo su qualcosa, cercavamo sempre un consiglio esterno. In un certo senso il film è un documento del processo stesso, che penso sia ancorato in un ascolto profondo, nella comunicazione e nel dialogo, per arrivare al cuore delle cose. E credo che mettendo insieme più di una prospettiva il risultato ne esca arricchito. Julia e io siamo molto diverse, ma sappiamo ascoltarci e metterci in discussione senza conflitti.

Siete molto fortunate.

Sono orgogliosa del modo in cui siamo riuscite a confrontarci. Penso che alla fine il film non sia né suo né mio, e per questo è migliore.

I bambini del finale: potrebbero essere i figli Milagros – un finale che è futuro; oppure potrebbero essere Jonathan e Milagros da piccoli – un inizio che è passato. Mi ricorda il claim di questo Bellaria Film Festival, “Il futuro è un mare antico”.

Oh wow! Certo! Ci sono molte cose da imparare dal passato per poter affrontare il futuro. Il finale apre a un rinnovamento: se sia legato alla necessità di capire il passato, questo sta all’interpretazione. Quello che posso dire è che i bambini sono i miei nipoti: per me è parte di intendere il cinema come famiglia, un posto dove ci si prende cura gli uni degli altri e si registrano i documenti di queste relazioni. Volevo dare ai miei nipoti la possibilità di rivedersi nel film quando saranno pronti a guardarlo, e questo credo sia molto bello. 

È quanto mi dicevi prima sulla produzione del film come un gruppo di persone che lavorano insieme per creare qualcosa.

Che poi è la definizione di famiglia.