Presentato in anteprima nazionale al 42° Bellaria Film Festival, Sleep with Your Eyes Open di Nele Wohlatz è una commedia bizzarra e sofisticata che vive di mancanze, perdite, vuoti: nel panorama di una città costiera del Brasile, alcuni membri della comunità cinese si muovono nel segno di una profonda instabilità, consapevoli dello stato passeggero e fragile che identifica la nuova dimensione urbana. Un orizzonte narrativo dominato da traduzioni sbagliate, inevitabili fraintendimenti e suggestive peregrinazioni dà forma a un viaggio senza meta tra le pieghe del linguaggio, tra i limiti e le lacune della comunicazione. Nello smarrimento della protagonista Kai (Chen Xiao Xin) si ritrova quello di una comunità fortemente legata alle proprie radici ma costretta a muoversi in un mondo troppo veloce e troppo mutevole. Un disagio identitario che si consuma nei vuoti di un appartamento grande e silenzioso, in cima a un edificio distaccato dalla vitalità della strada e calato in un panorama linguistico che nel dialogo non trova uno sfogo ma un’assenza.
Mi sembra che nel film ci sia una certa influenza del cinema d’autore taiwanese. Penso in particolare ai film di Edward Yang per la rappresentazione dello spazio urbano. È così?
Sì, è vero. Quando ero una teenager non ero particolarmente interessata a cinema e teatro, ma poi, a sedici anni, ho visto The River di Tsai Ming Liang, che ha rappresentato per me un’esperienza scioccante. Mi ha colpito la rappresentazione del mondo che questo film restituiva, la coscienza che l’autore aveva del presente. Più tardi ho scoperto e apprezzato anche il cinema di Edward Yang. Ho anche collaborato per una post-produzione a Taiwan e l’anno scorso sono stata a Taipei. È stato incredibile vedere certe realtà che prima avevo conosciuto solo attraverso gli occhi di questi registi. Erano film-maker diversi, che presentavano un’idea dello spazio urbano anomala rispetto alla concezione europea – parlavano di non-luoghi, dei luoghi che non sono riempiti da una storia propria. Secondo me si può creare un incontro incredibile tra il cinema e questi spazi: un film può riempire certi luoghi di storie e di emozioni, di sentimenti. Quindi sì, ho preso ispirazione da questo cinema ed è stato stimolante lavorare a partire dal lavoro dei grandi registi taiwanesi.
Nel film ci sono molti oggetti che cadono: in una delle prime sequenze, lo smartphone della protagonista cade in un water; più avanti un cocomero precipita da un grattacielo e, dallo stesso grattacielo, a un certo punto piovono anche dei soldi. Si tratta di rime visive ricercate o inconsce?
Per ogni oggetto che cade nel film c’è una ragione diversa. Il cellulare ad esempio cade perché avevo bisogno di eliminarlo dalla narrazione: sono pochi i film in cui viene fatto un buon uso del cellulare, quindi meglio liberarsene. Comunque sì, gli oggetti cadono, tanto che scrivendo il film ho cominciato a un certo punto a pensare: “Che cosa può cadere?” Ma è un fatto anche personale, in fondo: quando mi ritrovo in un momento di confusione, di smarrimento, mi capita spesso di sbattere incidentalmente alle cose che ho intorno e di farle cadere.
Di fatto la storia del film è quella di uno smarrimento. Il titolo fa riferimento anche a questo? a un vagare incerto e addormentato?
In realtà ero rimasta stupita da certi schemi sociali che si ritrovano all’interno della comunità cinese. Ho cominciato a notare delle regole, anche se non scritte, che formavano una specie di manuale che tutti sembravano conoscere. Quando ho pensato al personaggio del venditore di ombrelli l’ho immaginato da subito come una persona troppo condizionata, quasi tormentata da queste regole. Una persona che deve restare sempre vigile, che non si può mai davvero permettere di riposare. Da qui l’idea di dormire con gli occhi aperti. Inoltre, la proprietaria di uno di questi negozi mi ha confessato di avere problemi di insonnia, preoccupata com’era per come andavano gli affari e per la famiglia che era rimasta in Cina. Mi ha spiegato che l’insonnia rappresenta un problema molto diffuso nella loro comunità. Un ultimo collegamento, poi, è quello con gli acquari. Quando sono entrata per la prima volta in uno dei loro appartamenti – in uno di questi alti grattacieli – ho visto un acquario grandissimo. Ma era un po’ come i loro appartamenti, cioè abbastanza vuoto. Nelle loro case mancano quelle decorazioni che gli europei metterebbero ovunque abbiano intenzione di stabilirsi. Loro invece sono un po’ come dei pesci: continuano a muoversi senza mai fermarsi e dormono ad occhi aperti.
Pensi che il cinema sia un valido strumento al servizio della comunicazione o magari qualcosa di distante dalla comunicazione stessa?
Non parlerei esattamente di comunicazione perché non si tratta di trasmettere un messaggio. Ma comunque c’è un’idea, un problema, un’incertezza da cui partire e da cui poi si sviluppa il film – e questo con tutto quel che comporta scrivere, girare, montare, insomma nell’approcciare tutti gli elementi del cinema. È in questo modo che il pensiero diventa a sua volta realtà, perché il processo è così concreto che, a prescindere da quale sia il punto di partenza, tutto può diventare a suo modo reale. A quel punto non importa più se parliamo di documentario o di fiction.