Animal è il secondo lungometraggio di Sofia Exarchou, regista greca che usa il cinema come mezzo per indagare la complessità di alcune problematiche sociali del suo paese. Al centro del suo ultimo film c’è l’universo del turismo e degli hotel all inclusive, luoghi che producono moltissimi posti di lavoro stagionale, in cui viene richiesta precisione e ritmi sfrenati. La regista ha condotto una sorta di ricerca antropologica, entrando nelle strutture per parlare direttamente con gli operatori del turismo. In particolare si è focalizzata sulla figura degli animatori e sul modo in cui devono presentarsi: sempre energici, sorridenti, al massimo della loro forza fisica. Exarchou riesce a dipingere la complessità di questo ruolo, mettendo in discussione il nostro sguardo da turisti e portandoci dietro le quinte, dove i performer tolgono la maschera e lasciano trasparire sofferenza, solitudine, sfinimento.

Come hai deciso che ti volevi focalizzare su questo tema?

Quando ho iniziato a pensare al film volevo parlare di tutti gli impiegati degli hotel all inclusive (i cuochi, gli addetti alle pulizie, ecc.). Durante la ricerca in queste macchine del turismo ho iniziato a ossessionarmi con gli animatori – che devono sempre ballare, fare yoga, zumba etc,- e con il modo in cui sfiniscono il loro fisico. Come dei clown che devono sempre sorridere. A un certo punto ho realizzato che anche il mio lavoro ha a che vedere con questo grosso dispendio di energie per soddisfare il pubblico, ed è simile il modo in cui ti senti se non riesci a farlo. In quel momento ho capito che volevo parlare di questo: scostare le tende delle quinte, per scoprire i problemi e la fatica di questo lavoro.

Il turismo in Grecia rappresenta ormai da anni una delle principali entrate economiche del paese. Allo stesso tempo però, il turismo di massa porta con sé molte conseguenze negative, da quelle ambientali a quelle sociali, che cerchi di mostrare nel film. Come ti poni nei confronti di tale questione? 

Beh, conosco l’industria turistica da quando sono nata, e negli anni ho visto la sua esplosione, specialmente quest’idea degli hotel all inclusive che negli ultimi anni hanno avuto un’enorme espansione, con la costruzione di edifici enormi. Come tutte le persone greche, lo sento nel sangue quanto è importante il turismo per la nostra economia: se non avessimo il turismo saremmo spacciati. Ma nel tempo, la cosa che ha iniziato ad interessarmi è come il turismo sia diventato parte della nostra identità, che è un po’ quello che ho cercato di indagare nel film. In un certo senso stiamo vendendo la nostra storia, noi stessi, al turismo. É come se ci svendessimo per sopravvivere.

Però in questa storia non hai voluto introdurre i turisti. 

Lo sapevo fin da subito. Soprattutto volevo spostare la telecamera dal palcoscenico al backstage, e in qualche modo far sì che lo spettatore fosse intrappolato lì. Considerato che tutti noi siamo dei turisti, i nostri racconti saranno sempre dal punto di vista del divertimento. Quello che volevo invece era spostare violentemente la telecamera dall’altro lato del divertimento, quasi a far soffocare lo spettatore, come i personaggi.

Le persone che dipingi nel film sembrano aver interiorizzato il loro lavoro al punto che non conoscono altra via d’uscita dalla loro tristezza, se non attraverso l’intrattenimento e il divertimento.

Sì, e inoltre penso che con gli anni la distanza tra la loro personalità e ciò che interpretano si fa sempre più breve. Ad esempio Kalia, che ripete sempre “biutiful, biutiful”: diventa una sua battuta, come se fosse incastrata in un personaggio tra la vera Kalia e quello che interpreta in scena. E penso che in realtà questo accada anche a noi, in tutte le professioni, pensa ad esempio ai dottori. È un po’ una questione filosofica: il ruolo che giochiamo, come siamo influenzati dal nostro lavoro. Per i protagonisti del mio film, il lavoro diventa la loro vita: nel modo in cui parlano e nel modo in cui cercano di evadere, continuano a ripetere lo stesso tipo di schema.

Il film si mostra molto buio, credo non ci sia nessuna scena ambientata di giorno. Perché questa scelta?

Ci sono due cose interessanti riguardo l’utilizzo della luce e il buio. Una è il luogo in cui vivono: avevo questa idea di farli abitare alla fine della fiesta, e ho provato a descriverlo mostrando che andavano al lavoro con i motorini. Infatti vedi che partono con un po’ di luce, ed arrivano al palcoscenico che è completamente buio. Quindi vivono in questo luogo solitario, deserto, ma che è allo stesso tempo molto vicino alla fiesta. La seconda cosa che ho voluto mostrare in questo contrasto è che gli animatori appaiono proprio appena arriva la sera, come dei topi, iniziano a farsi vedere solo con il buio. Il fatto che il film abbia questa fotografia cupa ha anche a che vedere con una rappresentazione della Grecia che non è quella da cartolina che siamo abituati a vedere, sai, con il sole perfetto; qua è tutto un po’ tetro, e le sole luci forti sono quelle dei riflettori quando appaiono sul palco.

Un altro tema centrale in questo film è il corpo, che viene mostrato già nelle prime scene del film. 

Sì, i frame sul corpo sono parte della mia narrazione. Spesso, mentre sto scrivendo la sceneggiatura, mi viene l’idea di far succedere qualcosa non solo attraverso il dialogo tra i personaggi, ma anche dal modo in cui appaiono. Ad esempio, volevo iniziare il film mostrando il corpo di Kalia, e non il suo volto, per far capire che il mio personaggio principale è una persona forte. Volevo far suscitare ancora più amarezza facendo vedere all’inizio un corpo così solido da riuscire a camminare sulle mani, e lentamente mostrarne il deterioramento nel corso del film. Questo per mettere in chiaro che ha un corpo forte, ma che per colpa di questo posto può spezzarsi.

Anche i capelli sono parte della narrazione: come posso far capire che lei è sempre finta, che indossa sempre un costume per presentarsi sempre più bella, più stravagante, ecc.? Ho inserito una scena in cui Kalia torna a casa e si toglie le extension dai capelli, per far dire allo spettatore “ah, ma questi capelli così lunghi sono finti, si sta presentando in modo finto”.

Altre volte invece quando lavoro con attori non professionisti come in questo caso [molti di loro infatti erano ballerini e acrobati, n.d.r.] può succedere che mi facciano vedere delle cose che trovo interessanti e che decido di inserire.

Immagino inoltre non sia semplice filmare il corpo.

Penso sia interessante anche per lo spettatore mostrare una parte del corpo che possa dirgli qualcosa. Questo è stato molto importante nel mio film precedente, Park, che racconta di alcuni giovani adolescenti che vivono in una zona molto degradata di Atene. Erano tutti degli attori non professionisti, e la maggior parte di loro immigrati. Li ho osservati molto: tutti provengono da background molto difficili e tutti avevano il corpo pieno di cicatrici. E quei segni dicevano qualcosa: magari erano stati in una rissa, o magari mentre la loro mamma non era in casa hanno fatto una cosa stupida. Nel mio lavoro da regista mi sto lasciando sempre più ispirare dalle storie che puoi raccontare con il corpo delle persone.

Nel film si vede che il gruppo di animatori del villaggio turistico si comportano come se fossero una grande famiglia, in cui si fanno forza l’uno con l’altra per sopperire alla lontananza da casa, ad esempio. Ma allo stesso tempo si percepisce che questo legame non riesce mai ad andare in profondità, facendo trasparire molta solitudine  in tutta la durata del film.

Sì, questa è una cosa che in molti hanno notato e che mi rende felice, perché per me era centrale. Sentiamo che ognuno porta sulle spalle una storia, anche se in realtà sappiamo gran poco di loro. Conosciamo giusto pochi elementi su Kalia e sul suo passato (è andata via di casa molto presto, voleva ballare e voleva essere come Madonna), sappiamo poco sul passato di Eva, e non sappiamo praticamente nulla degli altri. Sono lì senza la loro famiglia, i loro amici, lontani da casa. Senti la loro solitudine anche per il lavoro che fanno, in cui devono costantemente essere lì, e dormire nelle piccole case che hanno, a combattere la loro battaglia solitaria in questo sistema.