C’è un cinema che insegue la vita, il suo palpito inesausto (come succede nella Palma d’oro, Anora di Sean Baker), un altro cinema la rivela, nella sua essenza più alta (come nel Gran Premio della giuria a All We Imagine As Light di Payal Kapadia), e mai come quest’anno la giuria di Cannes si è messa dalla parte di chi, da direzioni opposte, crede ancora in quest’urgenza del gesto cinematografico, cercando di offrire allo spettatore un piccolo dono al termine della visione. Contro gli apologhi – seppur maestosi – di un’ormai prossima morte del cinema e tracollo sclerotizzato della società capitalista (di cui da sempre è stato espressione), stare vicino a chi ancora oggi gli attribuisce una potenza salvifica, la grazia di una scoperta, l’imprevedibilità di una presa di coscienza nel flusso d’immagini in cui siamo travolti, significa rimettere al centro del discorso un piccolo atto di fede che può diventare ancora più potente se risulta condiviso.
Un’opera più di tutte sintetizza in maniera mirabile la tensione sottesa ancora oggi all’arte cinematografica, Grand Tour di Miguel Gomes, premiata per la miglior regia: un film concepito negli anni complessi della pandemia quasi come un gioco a partire da una breve storia raccontata da un personaggio in un romanzo di William Somerset Maugham. Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario britannico di stanza a Rangoon, è preso dal panico all’idea dell’arrivo da Londra della fidanzata, Molly (Crista Alfaiate), che non vede da sette anni e che è intenta a sposarlo: siamo nel 1917, e mentre l’aspetta al porto, l’uomo decide di fuggire iniziando un viaggio in Oriente, attraverso Birmania, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone e Cina. Molly se ne infischia delle paure del fidanzato: determinata, crede nella promessa e ancora di più in Edward, tanto da rifiutare una promettente via d’uscita (con un ben più abbiente e ossequioso innamorato) per seguirlo fino ai confini della realtà.
Raccontato in due tempi, due punti di vista dello stesso viaggio, il film espande e complessifica un’idea di cinema che è alla base dell’opera di Gomes, più interessato a lasciar sempre più libero l’aspetto metacinematografico al fine di rendere attiva l’interpretazione dello spettatore. Così il viaggio in Oriente del regista e del suo “comitato” (gli sceneggiatori, Telmo Churro, Maureen Fazendeiro e Mariana Ricardo, con il direttore della fotografia e del suono) – compiuto grazie all’atto di fiducia della produttrice portoghese Filipa Reis prima di scrivere il film – diventa il punto di partenza, una vera partitura visiva fatta di paesaggi e spettacoli ripresi in 16mm, in una magica alternanza di colore e bianco e nero. Risiede in questa visione centrifuga del mondo, spesso ripreso nel suo gesto di autorappresentazione (che siano le marionette, le giostre o le danze dei motorini come delle barche), il gesto di fuga di Edward, protagonista maldestro e malinconico, che nell’atto di rifuggire l’amore pensa di poter conoscere il mondo ma scivola su una virtuosa superficie che finirà per rimandarlo soltanto a un senso di perdita, di mancanza, quando tra i bambù affiora un panda e il pensiero risale ai telegrammi di Molly che non arrivano più. Al contrario, a Molly, personaggio uscito dalle migliori screwball comedy, dotata di una risata impertinente e dell’acutezza fiera di una donna navigata, è dato di vivere nel mondo del cinema, quello calibrato degli studio, dove ogni dettaglio è curato e ogni personaggio fittizio, ma non meno vera sarà la sua ricerca. Il suo cocciuto atto di fede nel compagno la porterà ad affrontare ogni tempesta nel cuore e sulla terra, senza mai troppo perdere il controllo. E quel panda nelle giungle di bambù è, come tutti gli animali delle screwball, il segno trasposto di una forma dell’amore forse mancato. O forse no. Perché Molly vive nel cinema, in cui la realtà si reifica eternamente.
E così questa fuga tra innamorati diventa ancora di più una metafora aperta sul rapporto tra cinema e reale: un reale che può essere rappresentato solo e sempre nella sua autorappresentazione, quella di meccanismo magico del reale quando attraverso il movimento delle forme libera l’energia della contemporaneità, quella di artificio elaborato della finzione che svela il palpito d’improvvisa vita. Siamo noi a ridonare forza all’amore, decidendo di alzare il volume di una vecchia canzone fuoricampo, siamo noi a ridonare potenza al cinema credendo che gli occhi possano di nuovo aprirsi per accogliere un nuovo senso del mondo.