Nessun luogo, nessun evento mediatico, nessun presidio commerciale meglio del Festival di Cannes, permette di fare esperienza diretta dell’imporsi incontrastato della logica mercantile su ogni immagine della realtà. Come altri eventi d’anteprima cinematografica il festival ne è ovviamente consapevole. Tuttavia, questa stessa consapevolezza non si configura come quella della Biennale Cinema, mostra d’arte che per etichetta non espone un mercato vero e proprio, e nemmeno come quella del Festival di Berlino, che racconta la relazione tra film, pubblico e commercio attraverso una dialettica precisa (tra la verticalità decisionale dell’European Film Market e l’orizzontalità popolare di una programmazione che si inietta nella rete metropolitana). Cannes, il festival d’arte più nobile e lussuoso, fa qualcosa di diverso e paradossale, mettendocela tutta per nascondere la crassa ingerenza mercantile dietro ogni sua immagine. Sono due le mosse in questa direzione: la sublimazione in senso apologetico di qualsiasi intenzione promozionale – come nella locandina, un incastro di segni pensato per nascondere la glorificazione del proprio ruolo attraverso l’incentivazione del senso di meraviglia cinefilo – ma soprattutto l’attuazione di repressive strategie di contenimento. La prima attività del festival, infatti, non sembra tanto essere mostrare dei film, quanto recintare il movimento spettatoriale attraverso molteplici barriere.
A Cannes tutto è delimitato, chiuso in vie, file, transenne, percorsi obbligati, controlli, accessi univoci, punti di non ritorno, regole, sezioni precise, orari, soprattutto il Marché du Film, debitamente contenuto su una lingua di terra appena accostata alle sale di proiezione. Malgrado le pratiche commerciali si espandano poi incontrollate lungo tutta la zona festivaliera, a livello d’immagine il festival deve infatti fermare il discorso commerciale alla soglia delle sale di proiezione e istanziare la propria pratica come separata dal soldo e quindi integra a livello artistico. E ci riuscirebbe, se non fosse per i film stessi. La strategica separazione tra commercio mercantile e immagine d’arte fallisce infatti puntualmente, nonostante tutti gli sforzi, proprio per quei contenuti d’arte che, inconsapevolmente o meno, attestano la pervasiva ingerenza del mercato nelle performance autoriali. Quali contenuti? Quei film che paradossalmente sembrano rivendicare un’indipendenza assoluta, un programmatico isolamento dalle ragioni del mercato; quei film che possiedono uno stile non solo riconoscibile per le proprie marche espressive forti ma anche legato ad autorialismi sempre orgogliosi di non negoziare terreno, almeno su carta, con le leggi del capitalismo audiovisivo; ecco proprio quei film che con la loro “forma chiusa” riproducono in negativo, per converso, l’ambigua separazione tra arte e mercato che il festival ancora allestisce ma che da vent’anni, come illustra la teoria del film, non sussiste più – non da quando nel nuovo millennio l’autorialità si è trasformata in un campo d’elezione per comprendere le manipolazioni del capitalismo sulle espressioni dell’identità personale.
Di fronte alla pervasività incontrastabile dell’impero mercantile in ogni angolo dell’audiovisivo (anche quello più indipendente, figuriamoci in un festival d’anteprima mondiale), la forma chiusa non segnala tanto un impossibile, ingenuo, rifiuto sovversivo della negoziazione tra la prima legge del mercato, e cioè la domanda di tendenza, e la poetica personale, quanto un fallimento nella negoziazione di questi stessi rapporti: un’incapacità di riprocessare le invisibili pressioni postindustriali e una contestuale accettazione di parziale dipendenza da quelle stesse pressioni per sopravvivenza commerciale. La forma chiusa è il segnale sintomatico di una compressione dell’autonomia autoriale, più che un libero carattere espressivo, ed è un segnale testuale diffuso, che salta più all’occhio se si avvicinano film di registi magari diversi, ma accumunati trasversalmente dall’indefessa ratifica del proprio stile a favore di un posizionamento culturale da conservare a fronte delle aggressioni del capitale. Si prendano i nuovi lavori di Quentin Dupieux, Sergei Loznitsa e Yorgos Lanthimos, registi diversissimi – un francese interessato all’assurdismo, un documentarista d’avanguardia ucraino e un greco ormai impegnato nel capitale statunitense – accomunati però da una sclerotica difesa del sé autoriale. Nei loro film, presentati in momenti e sezioni diverse del festival, un sistema di segni chiuso e predefinito si impernia in maniera differente su tematiche e strutture d’urgenza contemporanea.
In The Second Act, il sistema “Dupieux”, di solito un esercizio assurdista sulla spettacolarizzazione del reale e sulla megalomania del narcisismo contemporaneo, assorbe il tema corrente della scrittura algoritmica, ricopiandone il funzionamento. Potrebbe sembrare un incontro d’elezione a dire il vero: Dupieux costruisce il film come un gioco mimetico che usando la metatestualità genera una continua sensazione di indistinzione e mostra così come l’incursione dell’intelligenza artificiale nella realtà sociale abbia ormai reso impossibile naïf qualsiasi tentativo di individuazione della verità. Il gioco omeopatico però è solo un intermezzo tra l’inizio e la fine di una barzelletta che pensa al gesto strutturalista (di per sé interessante e anche puntuale) come un pretesto – aggiornato alla tematica di ultimo grido, certo – per continuare a ragionare sul sadico esibizionismo del soggetto. Dupieux in altre parole preferisce rispondere alla domanda di mercato – la riflessione algoritmica – con la conferma della propria poetica personale – l’egomania individualista del millennial – piuttosto che con il ripensamento del linguaggio cinematografico attraverso la forma dell’intelligenza artificiale, e cioè il collasso del principio d’individuazione. Il lungo piano sequenza che chiude il film, inquadrando il binario di un dolly utilizzato in uno dei livelli meta testuali del film, in fondo non è che il segno di questo ridimensionamento: una chiusa simbolica con cui dichiarare, con magra consolazione, la possibilità del cinema e della sua immagine come morale esterna, ironico e quindi minimo passo indietro rispetto all’inabissarsi della verità.
Curiosamente, un’altra immagine a circolarità chiusa, a loop, istanzia come una negoziazione fallimentare la rigida pratica documentaristica di Loztnitsa in The Invasion: un nastro trasportatore che conduce libri al macero. È attraverso figurazioni simili che il regista ucraino confronta la propria programmatica neutralità testimoniale con i più recenti effetti dell’invasione russa nel territorio ucraino. Loznitsa sceglie di riprendere lo sconforto quotidiano della popolazione ucraina, dedicandosi soprattutto ai soldati e alle loro famiglie, con le marche formali che più gli appartengono, e cioè la camera fissa, la distanza calibrata per ottenere l’invisibilità, l’assenza di interferenze. Proprio per la sua strategia espressiva, The Invasion corre lo stesso rischio di film come Austerlitz: annullare il cinema come linguaggio. In quest’ultimo film però il minimalismo della scelta linguistica era motivato dalla necessità di evidenziare la spettacolarizzazione dello sterminio e allo stesso tempo istanziare il cinema come un’iper-teoria in grado di raccogliere, rimediare, tracciare il commento delle altre forme audiovisive sull’immagine del genocidio. The Invasion invece fatica a mediare la domanda d’urgenza (l’aspettativa di una presa di posizione sociopolitica continua da parte di Loztnitsa) ottenendo sia la sublimazione della stessa neutralità in testimonianza etica sia la produzione di una dialettica generativa che mostri sempre l’ambiguità politica del dato visibile. È la stessa immagine del nastro a simboleggiare questo affaticamento: in parte traccia testimoniale, in parte contradditorio polo di una riflessione antiideologica, in nessun caso immagine a sintesi di queste due dimensioni critiche, sempre asintotiche l’una con l’altra, come appunto le due facce di un nastro che procedono per inerzia.
Anche in Lanthimos la forma è il risultato della silenziosa frizione tra il mercato e la poetica. Se però in Dupieux questa frizione è vissuta almeno in parte in senso sperimentale, come una sfida, e in Loztnitsa risulta un ostacolo insuperato, il modello del regista greco la pensa come una struttura armonica. Lanthimos è l’unico a non vergognarsi della chiusura programmatica della propria forma. Il suo cinema, o meglio, il suo progetto autorialista, soprattutto nel suo salto internazionale/atlantico, è riuscito a far passare il totale adeguamento all’aspettativa festivaliera e critica come una forma di controllo del mezzo industriale – a trasvalutare cioè la dipendenza dal mercato come apparente controllo di esso. Kinds of Kindness è un altro dei suoi esercizi chiusi, pensato a tavolino per produrre facili posizionamenti culturali rispetto a questioni complesse: tre racconti, tre iterazioni combinatorie sulle forme ideologiche dell’amore contemporaneo, che si calibrano attentamente per produrre un’ambiguità di significato abbastanza definita da non sembrare aleatoria ma anche indefinita al punto giusto per innescare un’appropriazione interpretativa a piacimento e differenziata, per tutti i pubblici. Niente di diverso rispetto a Poor Things, che era un film pensato per soddisfare la domanda di partecipazione identitaria: il ritorno alle fascinazioni greche sulle pressioni neoliberiste (controfirmate dal vecchio compagno di scrittura Efthimis Filippou) non è che un ulteriore stadio di un regista che ormai sembra accontentarsi di tematizzare la ripetizione delle sue stesse forme. Come si può vedere nella scena della rotonda (altra forma di circolarità autoconclusiva), percorsa in macchina per obblighi omicidi da uno dei personaggi interpretati da Jesse Plemons, che cita il girotondo bendato de Il sacrificio del cervo sacro.
Bazin si sarebbe chiesto da che parte stiano questi registi, se tra quelli interessati all’immagine o quelli interessati alla realtà. Se ci interessasse seguirlo, risponderemmo che nessuno di loro è in fondo interessato alla realtà. La risposta sarebbe comunque insufficiente o comunque fuori tempo: il secolo, almeno per la teoria dell’autore, non sembra essere più baziniano. Piuttosto, sarebbe meglio chiedersi come la nuova autorialità al tempo del capitale atmosferico si distingua per la conferma o la destrutturazione non tanto dell’immagine quanto dell’immagine del sé autoriale, e cioè come gli autori si posizionino attraverso i loro film rispetto alle logiche commerciali da cui vorrebbero essere indipendenti. Se non ci si pone questa domanda, si rischia di fraintendere il rapporto tra commercio e immagine, rimanendo intrappolati nell’invisibile recinto cognitivo disposto dalle istituzioni che usano gli autori stessi come cerniere per conservare e naturalizzare le asimmetrie di quel rapporto. Si rischia insomma che le forme chiuse producano un pensiero altrettanto chiuso e che il dibattito critico, sovrapponendosi in toto alla domanda del mercato, si imperni nella logica circolare di performance artistiche che si autolegittimano per sopravvivere. Costringendo lo sguardo a pagare il prezzo che il capitale impone, e il cinema a contrarre un debito con gli spettatori che difficilmente si potrà saldare.