Megalopolis è, in realtà, un film minuscolo, piccolissimo, quasi invisibile. Il duello che rappresenta (tecnocrazia illuminata versus rappresentanza politica vecchio stile, sullo sfondo di un impero americano in piena decadenza, in tutto e per tutto simile al tramonto dell’impero romano) è in tempi recenti già stato messo in scena, identico, nei Batman di Christopher Nolan. Evidentemente infastidito dal falso gigantismo del cineasta anglo-britannico, Coppola ha deciso di reagire facendo vedere a tutti che cos’è il gigantismo vero. E, opportunatamente, rispetto ai Batman di Nolan non aggiunge nulla di nuovo, limitandosi a cambiare un elemento solo, e appena percettibile, ma decisivo: il posizionamento dello spettatore.
Nolan offre al pubblico non il mito di Batman, ma una decostruzione critica perfettamente autocosciente di quel mito. Nolan, insomma, al pubblico nega l’identificazione con la maschera. Coppola, invece, mostra precisamente che più la coscienza critica rivela lo sfacelo in corso, più risulta inevitabile identificarsi con la fantasia utopica che, da questo sfacelo, costituirebbe la via d’uscita. Quando tra i grattacieli e la moda (sui costumi, straordinari, Megalopolis non si sofferma con meno maniacalità che sulle architetture) non c’è nessuna differenza, perché anche i primi sono (diventati) l’immagine flagrante della propria imminente caducità, più si accumulano le rovine, più il tempo si dilata fino ad annullarsi sulla scia di giochi di sguardi che, sopra le rovine, constatano il ritorno dei vecchi fondamentali e dei vecchi bivi: potere (e dunque sesso) contro amore, carne contro spirito.
Come capì benissimo il Raimi di Spider-Man (ma non, per esempio, i vari Nolan e Singer che rispetto al genere scelsero una supponente autocoscienza dei suoi meccanismi, e si limitarono a esibire quella), più i miti crollano, e più dunque si divarica la distanza tra maschera e volto, più si è portati a identificarsi con la maschera, e non con il volto. Megalopolis fa questo, e riesce dunque paradossalmente ad essere più film di supereroi del Batman di Nolan senza cambiare praticamente niente. Poi, certo, ci sono le immagini. In Coppola. In Nolan, di immagini, non ce n’è neanche una. Ogni momento, nei Batman di Nolan (ma anche negli altri suoi film, Oppenheimer in testa), serve solo ad agganciarsi a quello precedente e a quello seguente. C’è solo tempo. L’immagine, però, non è tempo: è spazio. È simultaneità. E come sapeva bene Abel Gance, impregnando il suo Napoleon dei ritrovati delle avanguardie del suo tempo, la simultaneità è utopia, perché utopia è abolizione del tempo. Abolirlo è appunto ciò che prova a fare, sin dalla prima scena e poi molte volte in seguito, l’architetto protagonista di un film che platealmente si richiama al Gance di Napoleon (ma anche al Chaplin de Il grande dittatore), e che Coppola non può non pagarsi da solo per potersi permettere, oltre che di abbondare in sovrimpressioni, tripli schermi (alla Gance appunto) e immagini che vengono da chissà dove a interrompere il flusso narrativo, di fare completamente a meno della drammaturgia: in assenza di un qualunque arco drammatico organico, ogni scena, ma verrebbe da dire ogni inquadratura, ogni battuta di dialogo (che una scrittura shakespeariana fino al parossismo cerca letteralmente di fare esplodere) sembra sistematicamente chiudersi su se stessa anziché portare a quella successiva.
Un film piccolissimo, dunque, perché per trasformare in cinema il non-cinema (o post-cinema) nolaniano si limita a uno spostamento di chirurgica precisione: porta lo spettatore non (solo) a capire l’utopia, ma a crederci mettendogli davanti che cosa sia l’utopia, ovvero semplicemente simultaneità. Tutte le altre differenze, a valanga, non sono che conseguenze di questa. Compresa la consapevolezza, sostanzialmente assente in Nolan, che ciò che definisce l’umanità è il partecipare a una cosa più grande di lei, e che implacabilmente fa riavvolgere il tempo in una rete geometrica da cui non si può non rimanere imprigionati. Una rete è spazio, lo spazio è negazione del tempo, e quindi eternità. Questa cosa, come Coppola ci insegna dai Padrini in poi, si chiama “famiglia”.