“Ogni volta che un essere umano viene alla vita, con lui nasce anche l’amore”: è una delle tante frasi pronunciate in forma di testimonianza da migranti e rifugiati di passaggio tra il 2020 e il 2023 sull’isola di Lesbo, nella Repubblica di Cipro e nella Repubblica turca di Cipro del Nord, ma rappresenta un punto d’ingresso estremamente eloquente per Agàpe, il film che Velania A. Mesay ha costruito sul dispositivo dell’intervista e che immediatamente si trasfigura connettendo, attraverso una forma nuda e quasi sussurrata, il campo occupato da sguardi e corpi in cerca di futuro e il fuoricampo delle loro storie e sofferenze.
Lo sfondo di paesaggi sospesi, tra scorci naturali e segni della drammatica provvisorietà dei primi approdi all’Europa, racchiude una tessitura di pensiero e parole profondamente filosofica; una struttura saggistica nelle premesse che interrogando la realtà e l’essere umano abbandona ogni postura intellettualistica per trasformarsi in dono, senza però perdere il suo obiettivo, quello di una meditazione sull’amore in quanto motore della vita, organicamente resistenziale anche quando declinato nelle sue differenti articolazioni: familiare, romantico, universale, l’amore è sempre generatore di nuove appartenenze e di storie collettive, ma la sua accezione più intrinseca è preda di oblio e di indifferenza.
C’è nel lavoro di Velania A. Mesay, presentato e premiato in Italia al Festival dei Popoli, il germe di un approccio crescente nel cinema contemporaneo che interroga la società e la Storia non accettando però di farsi mero documento di attualità o di cronaca: qualcosa che sta tra la destituzione del potere dell’autore di fronte alla complessità della vita nel terzo millennio, di fronte al suo desolante primato di malcelata violenza che soffoca voci e corpi degni di testimonianza, e la capacità di trovare la natura pulsante e essenziale del cinema in processi di depensamento della messa in scena, di esposizione consapevole alla dimensione dell’evento in quanto barlume (lucciola, ci ha detto Didi-Huberman) di nuova intensità politica, dove il luogo comune delle immagini – che si tratti di una piana mossa dal vento o di una carica della polizia su corpi in fuga – diventa il luogo del comune. Anche per questo Agàpe non è un atto di indagine, ma di restituzione, e persino profanazione, dove al pathos apocalittico di molte narrazioni odierne sulle rotte migranti, capaci soltanto di impietrire il mondo separandolo dal nostro sentire, si sostituisce il tocco neutro, modesto, disincantato che ridona al mondo e a noi stessi la responsabilità del nostro sguardo.