Fin dai tempi de Le pornographe, al centro del cinema di Bertrand Bonello c’è la zona grigia tra la sessualità “regolare”, edipica, e la perversione. Tra l’una e l’altra non è possibile tracciare confini netti, e proprio quando si crede di aver identificato una ci si ritrova nel bel mezzo dell’altra: questo, il nucleo fondamentale del suo cinema (non dissimile peraltro da quello del cinema di Alain Guiraudie, che però è più ruralmente diretto, rigoroso e moralista laddove Bonello è più civettuolmente sofisticato).
Questa dialettica, La Bête la sfrutta per articolare un’altra dialettica: la Storia con la S maiuscola rimane sempre chiusa e aperta allo stesso tempo. Innestando la fantascienza su La bestia nella giungla di Henry James, Bonello si confronta con una delle questioni che più segnano l’attualità, ovvero l’intelligenza artificiale, per dimostrare che essa ha bisogno dell’umano tanto quanto sembrerebbe annullarlo.
Nella Parigi del 2044, per stare al passo con un mondo dominato dall’intelligenza artificiale, una giovane viene sottoposta a un trattamento atto a depurarla dalle emozioni che le sono d’ostacolo. Riaffiorano in questa maniera ricordi di particolare intensità, che però non sono i ricordi individuali della protagonista. Si tratta, invece, di una storia d’amore dei primissimi anni del Novecento, e di una del 2014, vissute entrambe da una donna identica a lei, e dal medesimo uomo. Nessuna di esse si compie, dando così luogo a qualcosa di ancora più prezioso di un loro eventuale compiersi: la loro pura possibilità, coincidente col loro non poter essere possibile, e dunque col poterlo essere solo in un’eventuale riconfigurazione futura.
Prevedibilmente, anche nel 2044 si riproporrà la stessa soglia di indecidibilità: la differenza sessuale è allo stesso tempo ciò che non si può sradicare (il perverso, per definizione, è incantato dalla contemplazione di questa impossibilità) e condanna dunque la coppia eterosessuale allo scacco (l’altra persona non può mai essere meno di un mostro), e ciò che invece permette alla coppia eterosessuale di appoggiarsi su un fondamento e rendersi possibile. A questo il film arriva per vie quanto mai labirintiche, mettendo molta più carne al fuoco di quanto sia possibile toccare in queste poche righe.
Non tutti i numerosi sottotesti che sostanziano il film sono, però, sullo stesso piano. Uno, in particolare, si differenzia da tutti gli altri, ponendosi come “il” sottotesto “ufficiale” del film. Con esso, la tutto sommato lineare parabola metastorica viene messa fertilmente in tensione. Bonello ce lo espone nella primissima scena: la protagonista si aggira nello spazio totalmente vuoto e totalmente verde di uno studio di ripresa di chroma key. C’è solo un tavolo, e un coltello. L’attrice deve immaginarsi cose intorno a lei che non esistono, afferrare il coltello ed urlare terrorizzata.
Insomma: la forma pura del contrasto tra uomo e ambiente. Lungi dal mettere fine alla Storia, l’intelligenza artificiale non fa che portare a compimento una rescissione del rapporto tra uomo e ambiente già sotterraneamente operanti nella vecchia civiltà industriale, e nella “narcisista” civiltà industriale, nella quale l’autorappresentazione ossessiva dell’incel e l’esistere solo per gli occhi altrui della mannequin sono due facce della perdita di rilevanza dell’ambiente rispetto all’essere umano che circonderebbe.
È in ciò che vanno cercate le ragioni del singolare stile di Bonello, la cui insinuante lentezza (diversissima dallo strisciante sonnambulismo alla Franju dell’Holy Motors di Leos Carax, film con cui La Bête dialoga con molta evidenza) può essere definita, in ultima analisi, come un rifiuto da parte dell’azione di correre verso la composizione definitiva dei pezzi del puzzle, per soffermarsi invece sui singoli pezzi. Ogni scena, ogni inquadratura è costruita in modo tale da durare sempre lievemente più di quanto dovrebbe, come se volesse includere la possibilità, per il film, di mettersi in posa e guardarsi da solo. È come se il film, prima di procedere, volesse insistere sulla circoscrivibilità di ognuno dei frammenti come frammento.
Quando lo specchio si rompe, diventa un puzzle ma non finisce di essere uno specchio: ogni frammento in cui si frantuma rimane riflettente. Ed è davanti allo specchio, naturalmente, che impariamo di essere qualcosa di distinto rispetto a ciò che ci circonda. La macchina, il narcisismo e tutto il resto non devono abbagliarci, perché sono tutte maschere sotto le quali è un’unica relazione a trovare plasticamente, attraverso la Storia, configurazioni sempre nuove: la relazione sempre traumatica tra uomo e ambiente. È questa relazione a perturbare e insieme a definire, indirizzare e situare la parabola metastorica che innerva il film.
E dove, se non nel romanzo ottocentesco (incluse le sue propaggini estreme, come in questo caso Henry James), dovremmo cercare la chiave di ogni formalizzazione, passata presente futura, di questa relazione?