Se il cinema offre allo sguardo ciò che altrimenti faremmo scivolare via, ci apre o riapre gli occhi e attraverso essi ci consente di afferrare la realtà in cui siamo immersi, allora Tótem, secondo lungometraggio di Lila Avilés, presentato in concorso alla Berlinale 2023, dischiude le speranze di una famiglia messicana che si prepara ad affrontare la perdita. È una giornata importante per Sol; è il compleanno di suo padre Tona, un giovane pittore malato che rifiuta di curarsi con la chemioterapia e preferisce vivere il tempo che gli resta circondato dalla sua famiglia. Sol è preoccupata, ma questo non la distoglie dai preparativi: per Tona è previsto un importante spettacolo che nessuno potrà dimenticare.
L’intero film si costruisce sulla preparazione della messa in scena. Nella prima sequenza, infatti, conosciamo Sol e sua madre impegnate a scaldare la voce e ripassare una vecchia canzone: le due si truccano e imparruccano mostrandosi ad uno spettatore ignaro di ciò che sta per accadere. Ma le aspettative gioiose vengono bruscamente interrotte dal primo indizio (che precede simbolicamente l’arrivo del titolo): “Il mio desiderio è che papà non muoia”, frase che pronuncia Sol prima di arrivare a casa dei nonni. Avilés con Tótem racconta di un microcosmo famigliare, che si spoglia dei più alti intellettualismi per ritornare alle tradizioni (le giornate di festa passate in famiglia) e seguire lo spostamento dei personaggi che cucinano e discutono da una stanza all’altra, il legame fortissimo con la natura (il bonsai, il pappagallo, gli animali del quadro di Tona), i litigi tra cugini, le grida di una madre che cerca di educare il figlio, un’esorcista che caccia gli spiriti maligni in possesso della casa, ma anche un nonno che supervisiona e si affida alla scienza. Ed è proprio qui, nella esplicitazione della dicotomica visione tra scienza e superstizione che si esprime una riflessione più ampia su quella che è la cultura messicana in trasformazione.
Ci sono registi e registe che fanno delle proprie opere un pensiero formale, un inno al dispositivo cinematografico e lo elogiano rivelando il mezzo; ci sono invece registi e registe per cui il cinema è un medium per raccontare la vita; così fa Avilés che trasforma il suo film in uno strumento di catarsi per i problemi e i momenti più difficili di una piccola comunità, come quello di affrontare la morte di un proprio caro: per questo fa uso della camera a mano, girando intorno ai primi piani delle persone di tutta la famiglia. La storia assume il punto di vista di Sol, che spesso ricorda quei momenti in cui da bambini si percepivano alcuni frammenti di discorsi, che fluiscono in modo impreciso nella memoria. Quindi, la fine di una vita non è soltanto dolore e disperazione, ma anche gioia: “Pensare alla morte è pensare alla vita. E all’amore. Non sono una neuropsicologa, questo è chiaro, ma non possiamo avere sempre paura di quell’oscurità. Tendiamo a pensare che sia così brutto, ma non lo è. Se chiudi gli occhi, non puoi vedere la luce. Ma c’è bellezza anche in questo”.
Avilés lavora con storie che precedono l’evento, espediente narrativo già utilizzato nel cortometraggio per Miu Miu Woman’s Tales, dal titolo Eye Two Times Mouth. Anche in questo caso la regista ha lavorato con attori e attrici provenienti da mondi lontani da quello cinematografico. Per questo la preparazione dei personaggi è fondamentale, l’utilizzo di attori non professionisti per trasmettere la realtà, ma anche la crudezza di alcuni pensieri, preoccupazioni e sentimenti. L’impressione che ci restituisce Sol (Naíma Sentíes) è che “Lei non stava solo recitando una parte, la stava vivendo: fare il casting, è fare il film in questo caso”. Il cinema, per Lila Avilés, è una questione di sguardo, di punto di vista, di apertura (e riapertura) alle situazioni e ai personaggi, ancora prima che di mero racconto: perché il mondo è ancora tutto da vedere. Basta aprire gli occhi.