Non sono corpi quelli che si muovono sullo schermo di Marcel! – opera prima dell’attrice Jasmine Trinca, già presentata al 75esimo Festival di Cannes –, sono delle linee tese in cui si trasmettono fasci di desiderio. Una madre (Alba Rohrwacher), un po’ artista e un po’ stregona, e una figlia (Maayane Conti), di una bellezza androgina e carica di domande, sono prima di tutto la rappresentazione grafica di un rapporto complesso. Nel vuoto lasciato dalla scomparsa di un padre angelicato dai racconti dei nonni (Umberto Orsini e Giovanna Ralli, che è un piacere rivedere sullo schermo), il fiore dell’arte ha preso il posto della concretezza di un amore, eternando epifanie e momenti d’improvviso incanto: quasi senza peso, il personaggio della madre sembra potersi sollevare in volo da un momento all’altro, quanto poco è ancorata ai gesti della quotidianità e ai doveri nei confronti della figlia ancora bambina. Il suo personaggio di clown acrobata, che danza leggiadra con gli occhi eternamente rivolti alla luna, la trasporta in un’altra dimensione, che resta irraggiungibile e misteriosa nonostante le sue continue interrogazioni tra arte e magia. L’unica sua ancóra, l’unico essere che la traghetta fuori e dentro lo spettacolo e la vita, è il bassotto Marcel, a cui sono riservate sia le coccole sia le cure a cui ambirebbe la ragazzina. Ma (e l’intuizione è della figlia), tolto il cane, il vuoto attorno al quale ruotano i destini delle due donne deve potersi manifestare in tutta la sua dolorosa presenza per dare vita a una nuova liberazione.
Totalmente estraneo al realismo che domina il cinema italiano, Marcel! è più vicino all’estetica che guida i migliori creatori di graphic novel e libri illustrati (da Fior a Cerri), capaci di riaccendere in maniera talvolta eccentrica l’immaginazione, così relegata nel contemporaneo, creando connessioni nuove tra cultura popolare e alta. Disponendo degli scenari dei cortili di una Roma sospesa nella memoria e sfruttando la magia di una campagna che abbraccia la città, la regista dispone i topoi della fiaba per trasfigurare il rapporto madre e figlia, nella sua sconvolgente complessità, una madre/angelo o una madre/strega che si rivela nel finale offrendo la propria fragilità. Per mezzo dei corpi affusolati e della pelle quasi trasparente delle due attrici affiorano in maniera preponderante le loro pulsioni interiori, il desiderio d’amore e di riconoscimento che danza negli sguardi che la ragazzina offre alla madre.
Questi ponti visivi – sapientemente costruiti attraverso alcuni, pochissimi, campi/controcampi decisivi – si offrono come passaggi dell’anima, quasi delle scale immaginarie che progressivamente le due protagoniste ascendono per lasciare andare nel finale il dolore che le ha sempre (inconsapevolmente) separate. E proprio in questa delicata presa di coscienza del cinema come mezzo d’indagine del femminile e della propria storia, Jasmine Trinca si riferisce più alla leggerezza buffa del cinema di Agnès Varda e alle sperimentazioni astratte di Vera Chytilová, spingendo lo spettatore a guardare il mondo attraverso un’altra prospettiva, un sentiero che il cinema contemporaneo ha troppo spesso paura di intraprendere forse perché significa confrontarsi con nuove geografie del desiderio. O forse semplicemente perché si deve essere dei veri anticonformisti per poterlo fare, senza paura.