In occasione del passaggio al Bellaria Film Festival del suo ultimo film, Tommy Guns, Filmidee ha dialogato con Carlos Conceição, cercando di tracciare le coordinate di uno dei più promettenti registi del nuovo millennio: l’eredità del colonialismo portoghese, l’indagine sul trauma, il simbolismo del cinema di genere, l’ibridazione dei linguaggi.
La prima domanda riguarda il titolo del tuo film, Nação Valente, che prende ispirazione da un verso dell’inno nazionale spagnolo. È stata quest’immagine patriottica ad aver innescato il film? Il titolo originale invece è Tommy Guns.
L’idea originale da cui è nato il film riguarda da vicino ciò a cui fa riferimento quella parte dell’inno. Lo spunto iniziale era quello di inquadrare in una maniera ironica il nazionalismo patriottico, soprattutto quello legato a un’ideologia reazionaria e regressiva, come è accaduto nelle dittature fasciste e nel vecchio regime coloniale portoghese. Poi ho realizzato che se lo avessi chiamato Nação Valente avrei suggerito in maniera abbastanza evidente una lettura ironica, anche se al giorno d’oggi l’ironia non pare essere molto di moda, o almeno, non lo è come lo era dieci anni fa. La versione internazionale, Tommy Guns, manca invece di questa ironia precisa: è un’espressione che significa “arma giocattolo”, ma è diventata famosa nel vocabolario gangster di Chicago – all’epoca i criminali della città chiamavano così le loro famose mitragliette con caricatore a tamburo, perché la marca di produzione era la “Thompson”. Queste armi non ci sono nel film, ma mi sembrava che il gioco di parole fosse abbastanza forte da rimanere impresso.
Il film segue una struttura narrativa molto particolare e molto precisa, quasi a incastro. C’è qualcosa che durante le riprese ti ha sorpreso al punto da inserirlo nella sceneggiatura, anche se non era previsto?
Davvero molte cose. Credo sia molto importante cercare una sorpresa, quel tipo di sorpresa, in ogni singola scena. Quindi ho scritto davvero in profondità la mia sceneggiatura per il film, con molti dettagli, ma ho cambiato almeno metà delle mie idee per lasciare posto a quelle nuove sorte durante le riprese. Quando si lavora con gli attori, i personaggi cambiano da come li avevi scritti: quell’attore avrà il suo modo di essere, la sua presenza particolare, ed è per questo che lavoriamo con degli attori. L’umanità degli attori deve esserci, deve risaltare sullo schermo, e quindi la sceneggiatura si trasforma in un canovaccio flessibile, in uno scheletro che deve riempirsi con il contributo degli attori. Cerco anche di farmi sorprendere dalle possibilità alternative offerte dal montaggio, ma per il modo in cui scrivo le inquadrature si incatenano già in una maniera molto precisa e quindi non c’è molto margine di distrazione; comunque, a volte magari mi lascio guidare da un gesto inatteso, che apre a un taglio di montaggio diverso, e cerco di non essere indulgente con ciò che non è necessario per il film. Quando vediamo un film abbiamo bisogno di molti meno dettagli di quelli che ci sembrano obbligatori mentre scriviamo quello stesso film.
Il tuo film sembra porsi in continuità con le ricerche di Tourneur, Carpenter, Shyamalan, e allo stesso tempo risuona dei romanzi di Conrad. Incroci con grande equilibrio il linguaggio del cinema d’autore e quello del cinema di genere, sempre più assimilato nei festival: credi che questi due mondi dovrebbero incontrarsi più spesso?
Ora il cinema di genere è diventato cinema d’arte. Per un po’ di tempo c’è stata come una scomparsa del genere, soprattutto horror, e ora che è tornato si vedono film arthouse nei festival che flirtano con gli elementi di genere. Il genere spesso consente di esplorare iconografie e strutture narrative che comunicano molto bene con gli spettatori, perché il genere è un catalogo di archetipi, un immaginario codificato che permette a chi guarda di essere a suo agio con le aspettative. Incrociando genere e arthouse posso quindi giocare con delle aspettative, generate dal genere, e sovvertirle, riscrivendo continuamente lo status quo di quello che gli spettatori si aspettano. Nel mio film, per esempio, i fantasmi, gli zombie che a un certo punto popolano lo schermo non reclamano altro che la giustizia storica del loro passato innocente.
Sì, ecco, i tuoi film sono infestati di figure fantasmatiche del passato che tornano nel presente, sei legato a questo tipo di simbolismo?
In questo film i fantasmi rappresentano simbolicamente le vittime del passato, coloro che sono stati deprivati della voce. In questo momento, in tutto il mondo, assistiamo alla risalita di movimenti estremisti e nazionalisti e mi sembra che sia pertinente ragionare, mettere in scena la prospettiva delle vittime degli eventi coloniali di cinquant’anni fa. Dovremmo andare verso una diversa psicologia sociale ed è curioso come gli esseri umani che abitano in paesi civilizzati non riescano ad andare avanti, anzi, è quasi comico come regrediscano a schemi, automatismi politici e filosofici novecenteschi già ufficialmente abbandonati. All’opposto anche i personaggi che assumono il ruolo di carnefici sono vittime, vittime oppresse da idee vecchie, come degli adolescenti che si trovano ingabbiati in un culto capace di fare il lavaggio del cervello. Proprio la capacità di iniettarsi nella mente delle persone attraverso strategie di convincimento psicologico è il motivo per cui ancora oggi alcune persone cadono dentro alla trappola dei pregiudizi assurdi e discriminanti. Il colonialismo è da questo punto di vista, ancora realtà, purtroppo. Cambia forma. Anche alcune delle filosofie più progressiste hanno gli stessi effetti di ipnotismo sulle persone. Il potere cambia sempre aspetto.
I ragazzi protagonisti sembrano vittime anche del loro desiderio verso le figure femminili. Sembra quasi che attraverso di loro volessi rappresentare una nazione eternamente infantile, offuscata da complessi materni e desideri sessuali repressi.
Non necessariamente. Mi interessava capire come l’ingenuità potesse trasformarsi in terreno pericolosamente fertile per idee reazionarie. È vero però che volevo indagare l’idea psicologica della madre, presente o assente, e infatti il film è pieno di figure materne: all’inizio, il personaggio materno della suora; poi c’è l’idea della terra natia, della propria terra madre, questa forza invisibile che manda i propri figli in guerra; ci sono le madri che i ragazzi cercano di ricordare, specchiate nella figura iconica di Brigitte Bardot; la donna che compare alla fine, che rievoca un immaginario materno pur nell’ambiguità della sensualità; infine l’immagine della Vergine Madre, che ritorna endemicamente come un virus nel film.
C’è un miracoloso equilibrio tra determinazione militare e tenera fragilità nel tuo gruppo di interpreti. Come hai trovato i ragazzi protagonisti?
João Arrais (interprete di Zé, ndr) è un attore con cui avevo già lavorato: assieme abbiamo fatto Serpentàrio e un film non ancora distribuito, molto diverso da Tommy Guns, più sperimentale. Per la scelta degli altri attori mi sono lasciato guidare da metodi magari anticonvenzionali, anche uscendo dal mondo del cinema: non ho scelto però André Cabral, performer di danza contemporanea, per le sue abilità di ballerino, ma perché figure come la sua rispondevano bene alla mia idea di costruire un coro, un gruppo con cui poter costruire una famiglia. L’idea era di trasmettere un ambiente di fratellanza riconoscibile, e per farlo gli attori hanno vissuto assieme durante le riprese, sono diventati amici, hanno condiviso con me un lungo periodo di tempo. Siamo partiti da delle idee molto astratte ma piano piano, seguendo un percorso che avevo già delineato nella mia mente, siamo arrivati a costruire i personaggi assieme nel dettaglio. Ho bisogno di questo legame perché le mie storie fioriscono attraverso questa relazione reale.
Quest’idea di percorso collettivo suona quasi come parte di un progetto di cinema sociale. Le immagini cinematografiche possono dare risposte che risolvano le difficoltà del tempo che viviamo?
Non direi che il cinema dia risposte, ma che sempre apre la possibilità di nuove domande. Le risposte devono essere ricercate dalle singole persone nei singoli contesti, non mi piace il cinema sapientone, che “fa la lezione”. Il cinema deve fare pensare e deve aprire degli spazi di dubbio, perché un film che non mette dei dubbi, che non sposta il pensiero, è noioso. Ci deve essere spazio per l’immaginazione. Per questo ho fatto un film fatto di vuoti che devono essere attraversati e riempiti, ponendo una domanda legata al trauma: mia madre ha fatto ricerca universitaria sui traumi di guerra e mi parlava spesso di come i soldati traumatizzati fossero come congelati nel passato. Pensavo fosse interessante ragionare sul trauma presente nell’aggressore, più che nella vittima, perché se sappiamo quasi tutto della vittima, non sappiamo invece molto della psicologia dell’aggressore. Quindi la domanda era: come fanno le vecchie idee del vecchio mondo a restare nel presente, nel corpo non di chi è morto ma di chi è vivo, ma è ancora nel passato. Si pensa che far finta che un problema non esista lo elimini, e invece ogni cosa va discussa, perché solo nel presente il trauma diventa identificabile. Non sono uno che vuole dare consigli, ma credo sia importante ragionare sul presente e sul passato, perché, purtroppo, c’è ancora tanta strada da fare.