Il carteggio tra Goffredo Fofi e Elsa Morante (l’anno scorso parzialmente riunito in Cara Elsa. Storia di un’amicizia, Liguori Editore, con prefazione di Fofi stesso) restituisce uno squarcio di un’epoca (dagli anni Sessanta a fine Settanta) di conflitti politici, e quindi sentimentali, soggettivi e oggettivi, incarnati in due figure polari, per età, temperamento, posizioni ideologiche. Mao e Tao, avrebbero detto loro. Comunismo per Fofi e sorta di anarco-individualismo artistico per Morante. Fofi e Morante avevano stretto amicizia grazie ai loro testi: da una parte l’ammirazione di Fofi per la Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici e poi L’isola di Arturo, dall’altra la curiosità vivace di Elsa Morante, lettrice dei combattivi Quaderni Piacentini, la più diffusa rivista della sinistra extraparlamentare, di cui Fofi era redattore. Nonostante gli scontri politici che logorarono la loro relazione dopo il ’68, lo scambio epistolare testimonia un altro particolare della loro amicizia: la continua spedizione dei romanzi, da parte della Morante, a carcerati e giovani ragazzi e ragazze del proletariato e sottoproletariato, indicati da Fofi, che in quegli anni si occupava della Mensa dei Bambini Proletari di Montesanto. Per lei, significava una piccola rivoluzione permanente (disperata), un modo per fare rivoluzione culturale (famosa la diatriba con Einaudi per abbassare il prezzo dei libri a 150 lire).
Quella che capita nelle mani di Serafina (sottoproletaria fofiana) nella prima inquadratura di Le Pupille di Alice Rohrwacher pare essere una pagina del futuro strappata da questa contraddittoria e movimentata corrispondenza. Caro Goffredo… recitano le prime parole. Si tratta infatti di una lettera di auguri di Natale del 1971, in cui le accese dispute e litigi della coppia di amici vengono allegorizzate nella parabola di Egidio, un orfano rinchiuso in un istituto religioso durante la Seconda guerra mondiale. È Natale e il pranzo è magro: fettuccine di grano autarchico, una pera a testa, e una torta donata all’istituto (un’ironica zuppa inglese). Il Priore, per bassi scopi economici e politici, propone ai bambini di rinunciare alla torta, offrendola come fioretto a Gesù. Tutti si alzano chinando il capo, tranne Egidio, che davanti all’indignazione degli altri risponde timidamente: “Io sono cattivo”. A quel punto il Priore viene costretto a tagliare una fetta della torta e darla al bambino, in un capovolgimento della morale cristiana in cui la figura del trasgressore e del peccatore viene premiata.
Alice Rohrwacher riprende alla lettera il racconto di Elsa Morante, ma lo ribalta al femminile: l’istituto diventa un convento, il Priore una Badessa, Egidio la timida e malvoluta Serafina. Non a caso il film è dedicato alle bambine cattive, cioè tutte coloro che «come una mosca | impigliata nella rete» (parole-verso scritte da Morante nel suo scambio con Fofi) si dimenano per liberarsi dalle storture del loro ambiente, della loro fiaba e della loro storia (o Storia). In Le Meraviglie e Corpo celeste era la prigione familiare, in Lazzaro felice una mezzadria schiavizzante sospesa nel tempo, e ne Le Pupille, prodotto da Alfonso Cuarón e distribuito da Disney+, è la morale del convento. Serafina pecca per desiderio di immaginazione: convinta di essere irrimediabilmente cattiva, non riesce a togliersi dalla testa le parole peccaminose della canzone di Alberto Rabagliati ba ba baciami piccina e nel carbone ardente del camino vede le fiamme dell’inferno a cui crede di essere destinata. Le vie del destino sono infinite, così quelle dell’immaginazione e del cinema. Già il titolo riconduce infatti al foro da cui si ricevono e ri-proiettano le immagini, della realtà e dello schermo: Serafina pecca, in qualche modo, per desiderio di cinema, di immagini e suoni, dell’arte che più di tutte nel Novecento ha liberato sguardi e menti. Inconsapevolmente, ne innesca il meccanismo nella scena del ballo (accelerato, in una ripresa ludica del muto) che cancella gli annunci propagandistici dei bollettini di guerra.
La parabola viene riscritta e rimessa in scena, il segno della sua morale cambiato. Quale sia, bo chi lo sa, canticchiano le orfanelle, che compongono coi movimenti degli occhi e delle voci un coro sbrindellato, bambinescamente stonato e fuori tempo, il cui canto rilegge le parole della lettera, impiegandola, in un gesto di mise en abyme, come cornice teatralizzante e punteggiatura dell’immagine. Ciò che rende Le Pupille un oggetto estetico altro rispetto ai titoli da Oscar (a cui è candidato come miglior cortometraggio), è proprio la vivacità e la giocosità con cui si mescolano linguaggi, immagine e parola, genere epistolare e film in costume. Tra Morante e Pasolini (la scena del presepe rimanda inevitabilmente, per iconografia, a La ricotta) con Le Pupille Alice Rohrwacher gioca con il significato storico e culturale di una corrispondenza tra due intellettuali di primo piano del Novecento italiano e la riusa per costruire un film che è apologia della trasgressione femminile e dichiarazione di poetica: il principio del suo cinema, sembra dirci, risiede negli occhi femminili e infantili capaci di immaginarsi le ombre che liberano da false morali e sistemi oppressivi.