Nel nuovo film di Darren Aronofksy, The Whale, Charlie (Brendan Fraser) è un insegnante di inglese obeso e solitario che cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente per avere un’ultima possibilità di redenzione. Diviso tra due pulsioni antitetiche – quella teorica, propria di un cinema attento alla fenomenologia del corpo, e quella invece narrativa, legata al patetismo della messinscena – il film prova a trasmettere il suo messaggio. Ne discutono Andrea Piemonti e Roberto Valdivia.
RV: Durante un’intervista a Venezia, Darren Aronofsky ha specificato che all’interno del suo ultimo film non vi è denigrazione nei confronti del protagonista. Eppure The Whale è da questo punto di vista questionabile, a partire proprio dal controverso titolo con il quale l’autore inizia la fin troppo lampante metafora con Moby Dick. La filmografia del regista è piena di titoli diretti, che non solo si riferiscono ai propri protagonisti, ma il definiscono: The Wrestler, Il cigno nero, Noah e Madre! sono tutte descrizioni, più o meno metaforiche, dei personaggi. E The Whale non fa eccezione. Charlie, tra le infinite definizioni possibili (tra cui potrebbe rientrare quella del nome proprio, così come utilizzato per Noah), viene racchiuso da Aronofsky con il termine “la balena”. Ma se proprio si voleva tessere un legame con il cetaceo – che evidentemente c’è -, allora perché non intitolare il film “Moby Dick”, così come fatto con Il cigno nero? Sicuramente ci saranno stati motivi produttivi, tuttavia, ritengo che il regista – che ci ha sempre abituato a titolazioni “banali” ma schiette – con la scusa del giocare col giudizio dello spettatore, nasconda in realtà il proprio pensiero. E questo è solo il primo esempio che mette in discussione la visione che l’autore ha nei confronti del proprio protagonista.
AP: Trovo che senza dubbio ci sia un doppio senso, più o meno velato, nel titolo; ma proprio a partire da questo titolo si apre il film, o meglio la tematica più seminale, che risiede nel mettere in discussione il punto di vista per cambiare il senso delle cose. Per essere più chiari: Moby Dick, il romanzo di Melville, parla di una balena e di un baleniere ma è al contempo una forte metafora della condizione umana, e forse anche dell’America nella sua fase espansionistica (non a caso trenta sono i marinai a bordo del Pequod e trenta erano gli stati ai tempi dell’autore). Così, anche Charlie è fulcro di varie definizioni, spesso antitetiche, che gli calzano a seconda di come lo si guarda.
RV: Sì, senz’altro il film muta a seconda di chi e di come lo si fruisce; ma è anche vero che esso si percepisce anzitutto per come ci viene mostrato. L’autore guida il nostro sguardo, lasciando traccia del suo punto di vista. Egli però si tradisce in più occasioni, tramite la messa in scena che patetizza costantemente Charlie, rendendolo succube degli altri e amplificando il suo martirio. Se è vero che si parla di America, allora il regista fa parte di quegli Stati Uniti che crede di contestare. I movimenti circolari alle spalle del personaggio, sono movimenti che combaciano con le movenze della figlia che, con l’intento di umiliarlo, lo costringe goffamente a contorcersi a destra e sinistra per guardarla. Ma perché adottare lo stesso punto di vista in più occasioni? Non è forse questo un tentativo di infilare il dito nella piaga? E ancora, è davvero una scelta così poetica estremizzare la clausura dell’enorme corpo di Charlie in un formato in 4:3? Queste soluzioni, assieme all’utilizzo della musica, non hanno interesse nel suscitare empatia, piuttosto servono per drammatizzare e conseguentemente fornire un giudizio sul personaggio. Brendan Fraser diviene il sacco da boxe sulla quale scagliarsi senza sosta; e a partecipare alla carneficina vi è anche il regista. Un conto è raccontare un’esclusione sociale, un altro è collaborare a tale estromissione tramite il medium impiegato.
AP: La messinscena è volta al patetismo, e ciò non è nuovo in Aronofsky. È attraverso questa estremizzazione però che si può passare oltre e spingersi più in là verso l’analisi vera e propria del film. L’autore, soprattutto nelle ultime opere, ha lavorato con l’assolutismo di concetti e metafore (in Madre! un lavandino che si rompe simboleggia il Diluvio Universale) e anche The Whale non è da meno. Il 4:3 e i primi piani serrati, qui a simbolo di una claustrofobia subita e imposta, sono il segno di anni di lavori di questo calibro e denotano ormai una cifra stilistica a lui ascrivibile. Questa nuova opera, forse manierista, contiene però elementi nuovi come il finale positivo e la fusione dei suoi due principali feticci artistici: la fede – rappresentata dal Thomas di New Life nel film – e la società dei consumi, attraverso un personaggio che ormai è sul patibolo. Nel finale, oltre alle lacrime facili da multisala, si realizza anche il messaggio del film. Il suicidio lento del protagonista diventa un atto di libertà e di liberazione, il salvato diventa il salvatore, e la morte ascesa. Ma l’equilibrio iniziale non è mai davvero cambiato; è cambiata solo la prospettiva in cui le azioni vengono vissute.
RV: Mi chiedo se, in un film in cui come unica possibilità di redenzione per un uomo obeso e omosessuale vi è la morte, questo possa veramente considerarsi avere un finale positivo. Charlie si libera e salva la figlia, che a sua volta – forse inconsapevolmente – salva Thomas. Ma il rapporto con l’esterno, l’aldilà che c’è dietro la porta della casa di Charlie, come viene risolto? L’America criticata cambia in qualche modo? Il ragazzo di New Life, il fattorino e gli alunni non riformano il loro sguardo nei confronti del protagonista. Charlie, purtroppo, continuerà a vivere all’interno di quello schermo nero presentatoci all’inizio, isolato dai pixel accesi di chi lo circonda; o comunque soffocato da dei margini troppo stetti per permettergli di respirare come si deve.
AP: Se in sceneggiatura Charlie non può trovare una vera e propria redenzione, la salvezza avviene al di là dello schermo. La porta della sua casa si apre sul pubblico, e scatta il meccanismo della prospettiva attraverso la – forse furbesca – catarsi.