Guardando al sito ufficiale di A24 viene da pensare a Miti d’oggi di Roland Barthes. Torna alla mente quel brano in cui l’autore prima faceva un confronto tra la psicanalisi delle polveri saponificanti (come il Persil) e quelle detersive (vedi Omo), e poi chiosava dicendo che tutta l’euforia che si può provare di fronte “all’immagine deliziosa della sostanza profonda e aerea insieme” dei saponi all’opera non doveva certo far dimenticare l’esistenza di un piano economico in cui i prodotti, per quanto diversi, erano comunque un’unica cosa: parte del piano anglo-olandese Unilever. Ecco, se si esaminano le immagini che rimbalzano con deliziosa profondità aerea sulla pagina principale del sito internet di A24 alla vigilia dei premi Oscar e poi le si isola da tutta la loro schiumosa effervescenza, che piano salta fuori? E che programma estetico? In un rapido confronto con tutte le altre case cinematografiche americane, l’interfaccia di A24 spicca come l’ambiguo incrocio tra una pagina di presentazione dei film e una di vendita di prodotti ad essi contestuali: affianco ai frame di vari titoli, vecchi e nuovi, di produzione propria o solo distribuiti, sono presentati in maniera indistinguibile gadget in edizione limitata degli stessi film, dalle magliette alle borse, passando per i cappellini e le candele, fino ad arrivare ai libri, ai vinili, alle vhs da collezione. Inquadrare l’assenza di differenza tra le immagini promozionali dei film A24 e le immagini commerciali del suo portale di oggettistica è la chiave per comprendere come una piccola casa di distribuzione nata dieci anni fa su un’autostrada italiana, ora corrispondente al 2 per cento del mercato americano, abbia raggiunto uno stato di considerazione tale da essere valutata 3 miliardi nel mercato del futuro.
È infatti attraverso questa chirurgica e perentoria cancellazione della distinzione tra immagine cinematografica e oggetto commerciale che la società ha gestito la propria pratica di distribuzione nei suoi primi anni di vita: seguendo una prassi d’uso consolidato nei mercati americani dell’hype (la moda streetwear e i suoi drop), i fondatori Hodges, Fenkel e Katz si sono smarcati dalle regole distributive convenzionali del cinema e hanno esternalizzato gli elementi chiave di film prodotti da altri, trasformandone le immagini in oggetti limitati, acquistabili, ma brevemente disponibili e quindi subito desiderati. Non lo hanno fatto intercettando le immagini di casuali registi e registe, ma scegliendo quelle di registi e registe americani prima di tutto “indipendenti”, e cioè fuori dai radar industriali, e poi stilisticamente definiti e quindi facilmente identificabili: per una forte matrice autoriale già definita (Korine, Villeneuve, Baumbach, Coppola, Lanthimos, Schrader, Denis, Hogg) o per una visione molto netta e calcata, a metà tra l’arthouse e il cinema di genere (Aster, Baker, Glazer, Garland, Eggers, Mitchell, Safdie, Glass, West) – visione che nella sua frequente configurazione horror ha presto preso lo spernacchiato nome di “elevated horror”. Riverniciando di desiderabilità pop il loro cinema d’arte, già di pe sé manipolato nel profondo dal genere, A24 ha inventato un pubblico commercialmente euforico per immagini di nicchia che rischiavano di non richiamare attenzione e ha così generato dal nulla un’insperata domanda sul prodotto alternativo e indipendente dal mainstream.
È solo logico che in seconda battuta la società abbia presto preso posizione nel mercato come entità produttiva in grado di soddisfare questa domanda: forte della legittimazione culturale ottenuta nella cornice della crisi del cinema americano industriale, l’azienda ha allargato il proprio perimetro creativo alla produzione per aumentare di una fase in più il controllo della catena gestionale. Così, pensando il film e il materiale commerciale in continuità creativa, A24 ha lentamente istanziato l’esperienza del significato delle proprie immagini come uno slittamento progressivamente orientato al superamento della visione e finalizzato all’incontro con paratesti pronti a offrire il completamento del senso solo con l’acquisto: prima nella forma di paginati scritti e gestiti dagli autori dei film, piccole chiavi d’accesso alla poetica in forma di (maga)zines, e poi con veri e propri gadget in scala e oggetti di scena. Sette anni dopo la vittoria dell’Oscar a Miglior Film del primo film prodotto dalla casa, Moonlight, questa strategia produttiva di formattazione del gusto collettivo ha portato A24 a essere il principale contender agli Academy Awards, con il suo maggior successo di sempre, Everything Everywhere All at Once, favorito alla vittoria con 11 candidature – e ufficialmente, anche senza alcune statuetta, film più premiato della storia del cinema.
“Everything has led to this” ha scritto l’azienda sui cartelloni di campagna premi intorno a Los Angeles, dichiarando non tanto velatamente che una strategia si è attuata, un piano è stato portato a termine, e proprio grazie al film diretto dai Daniels. Il secondo lavoro dei due registi omonimi, film-maker “indipendenti” cresciuti nel videoclip ma già agili nel self brending da autori totali, è in effetti puro A24-pensiero, anzi di più, è il film che rivela ed esponenzia i processi produttivi dell’azienda. Decriptando lo stile di Everything Everywhere All at Once alla stregua di una forma simbolica emerge in che modo l’azienda pensi alle proprie immagini non come segni alternativi alle logiche industriali dominanti, ma come frutto di una formula estrinsecata dalla solita vecchia ragione economica. Lo si vede nella vicinanza del multiverso assurdista e indie dei Daniels – registi con una visione del cinema come materia compostabile, rimasticazione post tutto degli immaginari (nel loro primo film, Swiss Army Man, Daniel Radcliffe era un cadaverico corpo attoriale rimesso in funzione di gag vivente) – con il multiverso mainstream a grana grossa dei tentpole Marvel: in entrambi i casi la follia multiversale non è un contropotere alle logiche degli immaginari compressi e precompilati, non è la contromisura eversiva opposta a una pratica di dominio, è piuttosto la forma elettiva e sintetica del riciclo, la prospettiva di una raccolta differenziata in cui tutto si tiene e tutto, secondo una difformità e differenza d’ufficio che si livella ad aspetto godibile, si riduce a un background innocuo e di sostegno, a contenuto conciliatorio e rassicurante, famigliare (la famiglia è il principale tema dei film A24). Certo, se nel secondo caso la forma simbolica sta a indicare una ragione economica interessata a capitalizzare sulla ricombinazione infinita delle possibilità, nel primo invece la dinamica è lievemente differente, volendo più raffinata: il multiverso è quello degli stili d’autore, che si alternano senza distinzione di peso dal linguaggio d’azione di Michelle Yeoh (sostituita a Jackie Chan) al cinema di Wong Kar-Wai, passando per Lynch e attraversando Rick & Morty, e la dinamica è quella dell’appropriazione e cioè dell’incorporazione degli stili in un discorso con citazioni senza virgolette.
È questo il pensiero che sta dietro a delle immagini veramente indipendenti, il pensiero di un’alternativa alla crisi di Hollywood? O è piuttosto la schiuma prodotta da un mito appena nato, che fa mercato con il gusto degli spettatori? In questo multiverso di stili ricalibrati per soddisfare l’intelligenza degli spettatori senza disturbarla, le immagini non rivendicano nessuna autonomia, nessuna indipendenza. Il che è paradossale, se si considera A24 come “la casa del cinema indipendente americano”. Pare utile chiedersi cosa sia veramente il cinema indipendente, e in questo senso recuperare l’idea di “cinema autonomo” coniata da Roberto Silvestri, per capire che quando l’indipendenza è rivendicata come una qualità e non come un modo di pensare, non come un programma teorico ma solo come un’etichetta di costume, la stessa diventa una postura, uno stile, una marca, un prodotto, e quindi un oggetto vendibile e acquistabile. Un oggetto che si compra per ottenere uno status. E A24 è soprattutto questo, uno status costruito fuori dall’industria, guardando però all’industria e cercando la legittimazione dell’industria. Non è un caso, che, come Netflix, la società stia iniziando a muovere i passi nel mercato cinematografico immobiliare – comprando il Cherry Lane Theatre – per adempiere al processo di integrazione verticale e governo della catena del valore, che una casa di distribuzione deve realizzare per definirsi major. Curiosamente, proprio di recente, un film molto lontano dalle griffe cinefile di A24 faceva di un teatro in declino, strappato al potere finanziario, il palcoscenico di una screen dance sovversiva, una festa di immagini autonome e libere. Immagini piene e nuove, ma anche antiche e sensibili. Immagini di intrattenimento intelligente e commerciale, forme vive di un laboratorio critico per le masse. Immagini convinte che l’unico movimento possibile contro l’industria sia quello che da dentro l’industria (e non da un presunto fuori che poi si vuole sostituire al centro) ribalta le regole a proprio favore, come un giullare fa con i suoi scherzi di corte. Chissà se gli executives di A24, mentre proponevano a Kane Parsons di produrre un film sulle sue Backrooms, avviandosi così a incapsulare un altro tassello di internet nel loro multiverso commerciale, lo hanno visto. L’ha girato Steven Soderbergh. Il film si chiama Magic Mike: Last Dance.