A dieci anni dall’uscita di Leviathan, ormai considerato un classico contemporaneo nell’ambito del cinema documentario e sperimentale, Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor danno vita a un vero e proprio viaggio all’interno del corpo umano, filmato attraverso innovative tecnologie mediche in cinque diversi ospedali di Parigi. De Humani Corporis Fabrica rappresenta un ulteriore passaggio, magnifico e inatteso, di quell’infaticabile percorso portato avanti dalla coppia di cineasti del Sensory Ethnography Lab, esploratori del linguaggio cinematografico nonché avanguardisti nell’ambito delle scienze umane.
Riprendendo il titolo dell’omonimo trattato cinquecentesco dell’anatomista fiammingo Andreas van Wesel, il film offre – ancora una volta – uno scompaginamento dello sguardo sull’umano e una sua riconcettualizzazione. Se nel citato Leviathan si poteva registrare una progressiva de-antropizzazione del punto di vista – una rivoluzione stilistica, generata in particolare dalla scelta dei punti macchina (termine eufemistico e limitante, data la diversità di dispositivi digitali utilizzati dalla coppia di registi), moltiplicati nello spazio e sempre più lontani dal corpo dell’operatore –, De Humani Corporis Fabrica offre, al contrario, una prospettiva iper-umana dello sguardo.
Le microcamere, al pari di un dispositivo protesico, si addentrano nell’interiorità del corpo umano per oltrepassare quei limiti fisici – e culturali, ma su questo torneremo – imposti ad una tradizionale macchina da presa. Ad ogni modo, è la natura originaria delle inquadrature ad alterare profondamente il carattere dell’operazione filmica in termini di linguaggio. De Humani Corporis Fabrica è, di fatto, un film di soggettive: le immagini sullo schermo non sono altro che l’estensione dello sguardo dei medici chirurghi, osservate sui visori ad alta precisione nel corso delle operazioni in sala. Il girato, che diviene talvolta materia persino astratta per uno spettatore comune e ignaro, assume una prospettiva filmica nel momento in cui avviene la messa in relazione tra l’interiorità del corpo umano, la superficie dei tessuti attraverso cui ci conduce la microcamera, e la sua fragilità esteriore, rappresentata dal corpo inanimato del paziente anestetizzato, intubato, cesarizzato, cateterizzato, persino deceduto.
È qui che entra in gioco la riflessione su un concetto già esplorato nel cinema di Paravel e Castaing-Taylor: il tabù. Oltre al superamento del limite fisico oggettivo (filmare attraverso l’interiorità del corpo umano), De Humani Corporis Fabrica suggerisce un ulteriore livello di superamento: quello culturale nella rappresentabilità del corpo umano. Lo spazio degli ospedali è, in questo senso, uno scenario perfetto di studio, in cui il trattamento sensibile ed empatico nei confronti del paziente convive con il rapporto distaccato e freddo con il corpo umano: fabbrica di pura carne e sangue, organismo perfetto il cui funzionamento è tuttavia destinato, inesorabile, alla morte. In questo senso, il film si eleva quasi a saggio di antropologia medica, riletta in una dimensione immersiva ed esperienziale. È altresì opportuno ricordare, ai fini di provare a stabilire una prospettiva analitica sul cinema di Paravel e Castaing-Taylor, che entrambi gli autori sono anche accademici dell’Università di Harvard – che, proprio attraverso il Sensory Ethnography Lab, produce i loro film. Il rimando all’opera vesaliana, e alla natura profondamente umanistica del suo pensiero, pertanto, non può essere ridotto unicamente a un vezzo citazionistico, ma può al contrario dimostrare la volontà dei cineasti di abbracciare, attraverso la loro pratica, una dimensione avanguardistica e transculturale nell’approccio alle scienze umane, mediante l’esperienza estetica. [Alberto Diana]
Le immagini endoscopiche prodotte da Castaing-Tailor e Paravel nel loro ultimo sforzo di etnografia visuale continuano a interrogare lo sguardo. Dopo il passaggio a Cannes e al Festival dei Popoli, Filmidee ha continuato a ragionare su questo film condotto ai limiti del linguaggio con un’intervista a cura di Davide Palella.
Con i vostri film esplorate il corpo come fosse un paesaggio e il paesaggio come fosse un corpo. Come è nata questa associazione visiva e concettuale che è costantemente indagata nei vostri film?
Penso sia una scoperta che abbiamo fatto progressivamente. Osservare l’interno di un corpo umano rischia di diventare molto facilmente una spettacolarizzazione fine a sé stessa. Ma se ci si prende il giusto tempo, per sedersi e osservare con attenzione, d’improvviso si inizierà a notare qualcosa. Penso che se ci si sofferma, se ci si permette di osservare quel corpo, a quel punto si inizierà a vederne l’astrazione. È quasi una visione cosmica. Estremamente concreta, per via della carne e del sangue, e al tempo stesso così astratta da farti perdere all’interno del paesaggio. Il fatto che il corpo sia un paesaggio conduce a due cose: la prima è che siamo un ecosistema e abbiamo bisogno che gli altri si prendano cura di noi come fossero giardinieri. La seconda è che siamo connessi agli altri esseri viventi, siamo abitati da microbi, virus, qualsiasi tipo di essere organici. E quindi sì, il corpo è un cosmo.
Il corpo e la materia di cui è composto sono al centro della vostra ricerca ma, in qualche modo, riuscite sempre a trascenderli. Come pensate avvenga questo processo anche nel vostro nuovo film, De Humani Corporis Fabrica?
Forse perché, e potrebbe suonare pretenzioso e forse anche un po’ un cliché, una delle cose che ricerchiamo è l’universale nel particolare, il cosmico nel microcosmico. Credo sia una ricerca presente in ogni nostro lavoro, provare a fare un film che non riguardi soltanto un dato momento e luogo ma che riesca a condurci al principio e alla fine del tempo. Questa è una possibile maniera per fare esperienza di una trascendenza, che il film non sia soltanto radicato nel presente ma che vada oltre il tempo stesso.
Il tabù di un corpo umano dissezionato è tuttora molto presente nella cultura visiva occidentale. Quale è stata la reazione del pubblico? Che effetto speravate di sortire?
Che uno spettatore lasci la sala a fine proiezione e si senta diverso. Che pensi alla propria soggettività diversamente, quasi come fosse un po’ più corporea. E forse potrebbe addirittura riconoscere la sua propria vulnerabilità e fragilità.
Gli spettatori sono sopraffatti positivamente, e ognuno ha una reazione completamente diversa dall’altro. Questo perché alcune persone hanno perso dei cari a causa di un tumore, alcune persone non sono mai state malate, altre hanno passato fin troppo tempo all’interno di un ospedale. Alcune persone ancora non hanno mai visto un cadavere. La mia ipotesi è che si sentiranno toccati dal film perché loro stessi hanno un corpo. Il nostro corpo è il luogo che conosciamo meglio e che al tempo stesso non conosciamo per nulla. Spero che gli spettatori abbraccino questo nostro lato nascosto. Un po’ come rivolgere gli occhi all’interno di noi stessi. Forse qualcosa accadrà. Forse si sentiranno più fragili. Forse si sentiranno più forti, ma se anche solo si sentissero cambiati, allora sarò soddisfatta.