Come per Tilda Swinton in Memoria, suoni inquietanti agitano in Tár le notti di Cate Blanchett. Se nel film di Apichatpong Weerasethakul era un singolo metafisico rimbombo a sconvolgere la donna, nell’opera di Todd Field, presentata a Venezia e candidata a sei Oscar, i rumori sembrano invece provenire dal ventre di una foresta, i cui ossessivi rintocchi e urla selvagge assillano il cuore di tenebra della protagonista. Lydia Tár, viene detto subito, è molte cose e tutte eccezionali: prima donna a dirigere la prestigiosa Filarmonica di Berlino, personalità di spicco della musica classica, Maestro apprezzato a livello internazionale e allieva prediletta di Leonard Bernstein, in carriera ha ricoperto incarichi di straordinario rilievo, vincendo i più rinomati premi del settore.
Fin dalla scelta del titolo, declinato enfaticamente al cognome, il film ha bisogno di erigere il suo personaggio a monumento di successo, irraggiungibile espressione della romantica figura dell’artista geniale e tormentata, così poi da accentuarne il dramma della caduta una volta che la sua rispettabilità pubblica verrà intorbidita da uno scandalo sessuale e la sua aurea magnetica sul palco rivelerà nella vita privata i contorni sempre più distruttivi di un insano narcisismo. Tár si serve narrativamente del mondo musicale – la registrazione della quinta sinfonia di Mahler, le gerarchie e i rapporti conflittuali all’interno dell’orchestra – come porta d’ingresso per raccontare tutt’altro, quelle dinamiche d’ombra del potere che contraddistinguono le élite culturali d’Occidente, allestendo un mondo obliquo al nostro nel quale è già possibile che questo potere sia detenuto da una donna, per di più omosessuale.
Proprio la scrittura del personaggio di Lydia mostra potenzialità e limiti del film. Se infatti da un lato la rappresentazione di una donna autorevole e respingente, dichiaratamente lesbica, affascinante per il suo carismatico talento e a suo agio con le pratiche del comando e della ricchezza in un universo dominato dagli uomini, allarghi gli orizzonti di un cinema ancora produttivamente patriarcale come quello hollywoodiano, dall’altro ben presto ci si accorge quanto non rientri affatto tra gli obiettivi del film approfondire questa inusuale differenza. Lydia vuole che il suo ruolo di direttore rimanga nominato al maschile, non riconosce urgenti le istanze femministe riguardo al suo lavoro e trova ridicolo giudicare l’arte in base alla condotta di vita del proprio autore. A casa veste i panni del “marito” assente e fedifrago con Sharon (Nina Hoss), partner e primo violino della sua orchestra, mentre le dimostrazioni d’affetto nei confronti della figlia adottiva si limitano a minacciare (in maniera alquanto machista) la compagna di classe che la bullizza. Del resto, in quella scena Lydia si presenta non a caso alla bambina come il padre di Petra, esemplificando in modo ironico ma non per questo meno netto il ripudio del femminile operato dal film.
Tár delude quindi le sue interessanti premesse appiattendo quello che poteva essere un discorso critico e sociale – l’establishment culturale contemporaneo è nella sostanza un sistema omofobo e misogino? quale modello di potere alternativo può costruire al suo interno una donna omosessuale, e a quale prezzo? – in favore di un thriller da camera tutt’altro che allegro, pieno di forbitissimi estenuanti dialoghi e salvato solo in parte dalla mastodontica, seppur del tutto fuori scala, interpretazione di Blanchett. Ciò che più perplime e rende quantomeno ambiguo l’intento del film è la scelta di equiparare la soggettività di Lydia a quella stereotipicamente maschile del predatore sessuale, dell’orco che sfrutta senza scrupoli la sua influenza per assoggettare i suoi sottoposti e disporne a piacimento. Field sta forse dicendo che le donne si macchierebbero degli stessi crimini degli uomini se ricoprissero i medesimi ruoli di potere? In questo caso, se pure ritrarre una donna meschina nella maniera in cui si è soliti vedere un uomo operi un indubbio stravolgimento dei canoni, è altrettanto evidente come tale sovversione, ripiegandosi su sé stessa, rimanga un esercizio di stile piuttosto che un atto emancipatore. Oppure, e sarebbe più problematico, le quasi tre ore del film si risolvono nel tentativo di far empatizzare gli spettatori nei confronti di una persona colpevole di atti terribili solo perché bravissima nel suo lavoro, dando adito a chi vede nella fantomatica cancel culture il male di quest’epoca perbenista? Comunque sia, la direzione è confusa e la critica, se esiste, sfiora appena la superficie del problema. La tensione erotica tra Lydia e la sua assistente (Noémie Merlant), nonché il desiderio della prima per una giovane musicista russa vengono repressi e accantonati da una regia intimamente pudica – il sesso è il motore delle vicende ma neanche un gomito si mostra nudo – incapace di legare in modo credibile un’azzardata riflessione sui costumi del presente alla rovina personale di una donna troppo simile a un uomo, al peggiore degli uomini, per apparire emotivamente o politicamente rilevante.
Al pari del già citato personaggio di Jessica di Memoria, anche Lydia trova in un altrove lontano una fuga e un rifugio. Lì era la Colombia, qui un imprecisato sud est asiatico, entrambe terre colonizzate, nelle cui acque «sopravvivono i coccodrilli dei film di Marlon Brando», la violenza e il moralistico senso di colpa dell’Occidente. Quel che però in Weerasethakul si configurava come paesaggio dell’anima, luogo straniero da tradurre per ritrovarsi, con Field diventa acquario misticheggiante, sfondo dipinto, esotico teatro per la punizione e il riscatto di un personaggio senza identità. Anche lo sguardo finale tra Lydia e la prostituta filippina, uno dei pochi momenti davvero memorabili del film perché in grado di rendere conto al carnefice delle sue responsabilità, unendo la sopraffazione coloniale a quella sessuale, la presa di coscienza dell’orrore al disgusto delle vittime, viene agilmente digerito dall’ultima comica sequenza in costume, confermando la natura indulgente e consolatoria di un film solo in apparenza interessato a decostruire un’autorità prevaricante tramite gli occhi e il corpo di una donna inedita. Il femminile proposto da Tár è al contrario a tal punto dimentico di sé, ammansito, espiato, odiato e rimosso da capovolgersi in paranoica parodia del maschile, secondo un’equivalenza delle differenze tra uomo e donna, oppresso e oppressore, colonialista e colonizzato, che a nulla conduce se non alla conservazione di quel sistema di potere che si occhieggiava in partenza di voler scuotere dalle fondamenta.