L’International Rotterdam Film Festival, alla guida della talentuosa programmatrice Vanja Kaludjercic, giunge alla sua 52sima edizione in grande spolvero. Si percepiscono la mancanza di qualche sponsor e un po’ di tagli di budget ma sono stati tre anni davvero difficili per centinaia di realtà culturali di tutto il mondo, e quelle grandi e rodate non hanno fatto eccezione. Dopo due anni di formati ridotti per le restrizioni anti-Covid, il festival olandese si presenta però con oltre 455 film tra lungometraggi e cortometraggi e un afflusso di pubblico con oltre 252.000 presenze. La percezione è che l’intera Olanda si smuova per il festival, con sale piene di pubblico alle 10 del mattino per vedere film che forse mai avranno un distributore ufficiale. Parlando con alcuni spettatori abbiamo percepito che, per il pubblico, essere Tiger Member è un dovere e un onore per sostenere la cultura, una forma di devozione nei confronti di una piccola città conosciuta maggiormente per il suo porto e la sua propensione a lavorare fino alle ore piccole.
Tra i film più interessanti che siamo riusciti a seguire nel magma di sezioni offerte dal festival se ne distinguono sicuramente tre che ci parlano di coppia e di come le esigenze contemporanee abbiano rimescolato le carte della classica idea di famiglia. Tre film di paesi diversi, tutti diretti da donne che hanno in comune il tentativo di mettere in discussione il superpotere maschile all’interno della relazione, cercando di fare riflessioni intelligenti sulle esigenze, i desideri e le impasse nell’amore nel 2023. In un contesto storico in cui il culto dell’ego e dell’autorealizzazione personale ha stravinto, ecco che i sacrifici e le mancate occasioni sembrano diventare il male da evitare a tutti o costi perché in fin dei conti “You Only Live Once”.
Four Little Adults di Selma Vilhunen, in concorso per Big Screen Competition, ci parla del poliamore e delle possibili variazioni che una storia inizialmente monogama di mezza età può prendere. Nella Finlandia contemporanea Julia è attivista del partito delle pari opportunità e il marito Matias un prete appartenente alla comunità protestante. Entrambi ricoprono un ruolo pubblico e rappresentano una guida e precisi valori per centinaia di persone, chi attraverso la politica, chi attraverso la fede. Strenua garante della parità tra sessi, del diritto alla paternità di equità salariale, la Finlandia sembra il contesto perfetto per sperimentare la dimensione poliamorosa, un concetto nato agli albori degli anni ‘60 secondo cui all’interno della relazione è permesso amare contemporaneamente più persone cercando di condividere in maniera e sincera e trasparente con il proprio partner le evoluzioni dei rapporti esterni alla coppia. Nel film di Selma Vilhunen l’approccio della coppia al poliamore avviene quasi per caso, in seguito al tradimento di Matias ai danni di Julia, con cui è sposato da oltre 20 anni. L’idea di rimanere con un uomo che inevitabilmente avrebbe di nascosto pensato ad un’altra donna alimentando un desiderio proibito, porta Julia a concepire l’idea di aprire il proprio matrimonio e di proporre a Matias ed Enni (l’amante) un incontro a tre e discuterne assieme le regole; con tanto di guida americana distribuita ai piccoli adulti inizia così un’avventura il cui esito è sconosciuto alla coppia e all’impatto che avrà nei confronti delle persone più strettamente connesse ai due. Il film riflette molto onestamente sulle conseguenze che avere una relazione poliamorosa può comportare: non solo origine di gioia, amore e gratitudine ma anche motore di sofferenza, gelosia, senso di abbandono, rabbia, frustrazione, accettazione e infine comprensione. La stessa regista, monogama convinta, dopo aver girato il film è arrivata a mettere in discussione determinati dogmi familiari: meglio tradire che stravolgere l’idea di famiglia, perché le confessioni servono proprio a questo. Il poliamore mette in discussione le basi della nostra società e della famiglia creando una rottura e un disfacimento del sistema binomiale su cui si basa il nostro quotidiano. Julia e Matias hanno il coraggio di aprirsi allo sconosciuto, accettando i rischi di perdere la persona amata ma anche di permettere l’evoluzione dell’altro e le proprie aspirazioni più profonde in fasi diverse delle loro vite. La guida poliamorosa arriva fino ad un certo punto: non si è certo preparati per gestire una famiglia allargata che assomiglia più ad una tribù.
Il film affronta l’argomento con delicatezza, seguendo i personaggi nella loro intimità e fragilità solo attraverso la sincerità, la sperimentazione, l’accettazione e la comprensione, senza indicare loro la corretta via. Molto spesso crediamo che essere adulti sia una questione anagrafica ma forse stiamo solamente vivendo una parte della nostra maturità rinchiusi in zone di comfort che non permettono realmente un’evoluzione dei nostri spiriti. Amare il prossimo significa anche abbandonare l’idea di possesso e la conseguente idea che il nostro partner ci appartenga come un oggetto. Il matrimonio è un contratto che va onorato e come in ogni contratto ci si assicura una sorta di esclusività relazionale. Che la sharing economy non sia solo un’anticipazione di una possibile applicazione in relazioni più oneste, più sincere, in cui entrambi i partner possano sentirsi liberi di aprirsi e con delicatezza ed esprimere i propri desideri, le proprie fantasie, senza la falsa pretesa che una sola persona possa in qualche modo colmare tutte le nostre esigenze e necessità in ogni fase della nostra esistenza? Interessante percepire come nelle comunità LGBTQ+ il concetto sia maggiormente diffuso e sia già accettata l’idea della condivisione delle proprie esigenze e dei propri bisogni senza condannare i comportamenti non binari. Four Little Adults è un inno all’amore e all’onestà, e riesce nell’impresa di presentarci il poliamore come qualcosa di accettabile e di forte, che ha i suoi vantaggi in termini di comunità, di condivisione e di bellezza. Amare significa riuscire ad abbandonare sentimenti gretti come il possesso e la gelosia a cui l’umanità sembra condannata.
Venato di toni post-romantici e da de-influencing è invece Voyage en Italie di Sophie Letourneur. Jean Philippe, non più giovanissimo professore, e Sophie, giovane freelance interpretata dalla stessa regista, hanno appena avuto un figlio e conducono una vita frenetica nella Parigi contemporanea. Letourneur cerca di approcciare in maniera leggera e cinica il sotterraneo psicologico che si nasconde dietro la decisione di andare in vacanza da neogenitori, inscenando una semplice villeggiatura di quattro giorni pronta a trasformarsi in un labirinto decisionale degno dei film di Jacques Tati: questo già a partire dalla decisione della meta, che non può ripercorrere le geografie emozionali già vissute dai due, né essere troppo costosa e quindi infine, in equilibro tra dura realtà e riflessioni aspirazionali, e porta i due a scegliere la meta di tutte le ex di Jean Philippe: L’Italia, luogo cliché per ogni coppia che voglia testimoniare il proprio amore eterno. In una brillante collezione di dialoghi sarcastici e situazioni al limite del grottesco, la regista si mostra alla macchina da presa per quella che è, con tutti i difetti che possono emergere in ogni migliore luna di miele. Se l’illusione che la straordinarietà della vacanza possa trasformare i propri personaggi viene smascherata fin dalle prime sequenze, le situazioni che sembrano uscite dalle puntate di “Turisti per caso” degli anni ‘90 rimandano, pur in modo ironico, tenero e pieno di rassegnazione, all’idealizzazione che ogni coppia ha di questo momento dell’anno.
Presto la pigrizia e le abitudini del quotidiano si impossessano della coppia, che si arrende ai modelli del marketing turistico pensato per rendere le vacanze una fonte di serotonina infinita: proprio come le vacanze di Monsieur Hulot, le ferie sono un’impresa molto più complessa della quotidianità. In un viaggio morettiano i due protagonisti percorrono i must see della Sicilia seguendo una fedele guida Routard che sembra non lasciare spazio al caso e alla scoperta. Tutto è progettato secondo un preciso percorso, dall’orario della colazione alle docce quotidiane per togliersi il sale dalla pelle frettolosamente abbronzata. La vacanza diventa così una chimera da affrontare con coraggio, in cui ogni scelta è un’impresa erculea e ogni decisione può diventare la causa o meno di un fallimento personale. Una pressione che supera ampiamente la routine della vita di tutti giorni in uno sforzo sisifeo, performato per strappare qualche selfie sorridente in luoghi suggeriti dalla guida, che imballerà le memorie digitali dei nostri smartphone. Ecco che la vacanza diventa un momento di straordinaria quotidianità, che si riesce ad apprezzare solamente alla sua conclusione, quando il momento del ricordo e della condivisione delle proprie avventure prende la forma del racconto a posteriori, alle volte grottesco, ogni tanto tenero, qualche volta condiviso, spesso discordante. Letourneur forse cerca di raccontarci che attraverso le parole siamo in grado di costruire qualcosa di molto più forte, intenso ed intimo dell’esperienza in sé. Dopo l’acclamato Enorme, la regista firma così un’altra riflessione sulla realtà di coppia contemporanea.
La coppia è al centro anche del danese Superposition, diretto dall’esordiente Karoline Lyngbye. Proprio in una breve intervista tenutasi durante il festival, la regista ha confessato che secondo le più recenti ricerche oltre il 40% dei danesi soffre di bornout e stress post primo figlio. Sempre più intolleranti nel non riuscire più a conciliare in maniera soddisfacente la propria relazione, quella familiare e quella sociale, tutti vogliono cercare di aver tutto senza rinunciare a qualcosa, per poi lamentarsi costantemente della mediocrità delle proprie vite e degli obiettivi mancati. Quanti di noi non hanno mai pensato almeno una volta nella vita di mollare il caos cittadino e scappare rifugiandosi tra i boschi selvaggi di qualche valle e dedicarsi alla vita campestre senza distrazioni o pressioni sociali? L’incipit di Superposition ricalca esattamente questa ideale situazione bucolica, in cui la giovane coppia di creativi composta dalla scrittrice Stine e dal giornalista Teit, con figlioletto a carico, decide di trasferirsi per un periodo di almeno sei mesi nel cottage più isolato della Scandinavia, immerso nella vegetazione più selvaggia e lontano da ogni altra interferenza umana. Potrebbe essere una perfetta prefazione per una truculenta trama horror, ma in realtà Superposition è un film che parla di relazioni e della difficoltà a trovare una quadra quando subentrano delle disfunzionalità nella coppia. Si capisce fin dalle prime sequenze, infatti, che i protagonisti stanno passando un periodo di tensione e di elaborazione – causato da un tradimento da parte di Teit.
Stine appare distaccata ma sembra aver ritrovato la giusta energia e ispirazione creativa per portare a termine il suo primo romanzo, rimasto troppo a lungo un sogno nel cassetto. Teit è riuscito invece a vendere ad una testata giornalistica di podcast la particolare esperienza di estremo isolamento creativo che la coppia sta vivendo, e inizia a registrare una serie di puntate che spedisce in chiavette ordinatamente imbustate e messe nel più lontano punto di raccolta postale del territorio. La vicenda però si complica quando i due intravedono dall’altra parte della penisola una coppia di personaggi poco distinguibili e cominciano a temere di non essere soli; la sparizione improvvisa nel bosco del figlioletto innesca poi il primo elemento thriller del racconto, che presto si trasforma in un ambiguo noir paranormale. Il bambino ritrovato comincia infatti a rifiutare l’identità della madre, affermando che non sia la vera madre e la situazione degenera quando i due genitori, dopo la decisione di abbandonare l’esperienza alla Into the Wild, si ritrovano in una strada che li riconduce al cottage senza soluzione di uscita. Decidono così di recarsi sull’isola di fronte, dove avevano intravisto delle possibili forme di vita, e scoprono con costernazione che i vicini non sono altro che la copia esatta di loro stessi con un figlio scomparso.
Il film prende una piega al limite del grottesco, proprio come il principio della superposizione, che parte dall’assunto secondo cui in una parte del mondo c’è una sorta di accesso ad universo parallelo in cui gli eventi possono andare in un altro modo, senza per questo alterare lo stato naturale delle cose. Mentre la coppia dall’altra parte del fiume cerca disperatamente il figlio scomparso da giorni, il confronto con la propria copia genera una serie di situazioni e di scambi di persona che non portano che alle stesse dinamiche e conclusioni. Proprio queste dinamiche raccontano come la tossicità di coppia lavori per inquinare nel profondo le relazioni, portandole a un punto di rottura e di violenza in cui le personalità si annientano. Il film sfrutta intelligentemente la teoria della superposizione per mettere in scena le difficoltà relazionali e la necessità fondamentale di arrivare ad un punto di comprensione profondo dei propri limiti e delle proprie paure, anche se a tratti sembra dirci che l’unica persona che possiamo realmente accettare e amare totalmente siamo noi stessi.