Perché un ipotetico giovane avventore dell’International Film Festival Rotterdam, semplice cinefilo/a o aspirante professionista del cinema, con più di quattrocento film esibiti lungo più di dieci giorni, dovrebbe prendere e andare a vedere la retrospettiva di una cineasta ungherese di cui in pochissimi hanno parlato per decenni, e oggi quasi nessuno? Le risposte possibili sarebbero dozzine. Tutte giuste. Ci limiteremo qui a giusto un paio.
Alcune di esse potrebbero essere anche solo schiettamente pragmatiche. Davanti a The Lady from Constantinople (1969), ci si accorge che esordire dietro la macchina da presa con un film che non racconta nulla di particolare ma mette in piedi una galleria di decine e decine di personaggi e situazioni con un solo personaggio che li attraversa tutti, dando ad ognuno la possibilità di trovare espressione per qualche secondo o minuto al massimo, non è una cosa che capita solo agli aspiranti registi di oggi. Solo che mentre oggi bisogna passare attraverso le forche caudine dei FilmLab e di altri Strumenti Del Demonio, dove spesso ci si accontenta di fare dei film delle vagule blandule checklist che sfogliano gli elementi di interesse (i quali di norma rimangono tutti rigorosamente sulla carta) uno dopo l’altro come si sfogliano profili su Tinder, dove il personaggio connettore è nulla più che un pretesto, e l’ambiente uno sfondo indifferente (e che quindi sono pronti per schiantarsi in quell’anticamera dell’oblio che si chiama “Un Certain Regard”, o simili vicoli ciechi del circuito festivaliero), all’epoca di The Lady from Constantinople anche il personaggio connettore doveva essere un personaggio a tutto tondo, e il mosaico poteva e doveva comporsi solo nella misura in cui l’ambiente e le acrobazie coordinative della macchina da presa trovavano una consistenza sufficiente a fondere i frammenti in un Tutto con una vita propria. I giovani che aspirano a prendere parte al cinema di domani avrebbero dunque tutto da guadagnare ad imparare da film del genere, anche a un livello immediatamente concreto come questo.
Altre risposte potrebbero essere più articolate. Impossibile che, a quest’ora, i nostri ipotetici giovani cinefili o giovani aspiranti professionisti del cinema non siano già stati permeati da uno Zeitgeist contemporaneo molto incline, almeno in teoria, a privilegiare il female filmmaking. Ed è anche molto probabile che costoro abbiano orecchiato qualcosa di un antico slogan femminista come “il personale è politico e viceversa”, anche se senza dubbio il femminismo mainstream di oggi rende difficile capire che cosa questo significasse di preciso.
Per cominciare a capire qualcosa di questo slogan, il cinema di Judit Elek è un eccellente punto di partenza. Già la sua biografia aiuta parecchio, e infatti la maggior parte del volume che accompagna la retrospettiva (The Lady from Budapest, curato da Gyöngyi Fazekas, Barbara Wurm e Olaf Möller) consiste in gran parte di una lunga intervista focalizzata soprattutto sulla vita di Elek, da subito strettamente intrecciata alla Storia con la S maiuscola. Ben prima che la sua carriera venisse variamente ostacolata dal regime (ma anche dopo l’89 non è che ebbe grandissime opportunità di lavorare), Elek vide il padre essere ripudiato da quel Partito Comunista Ungherese che contribuì a fondare, espulso dalla patria, poi al suo ritorno confinato lontano da Budapest ai lavori forzati in quanto ebreo. Nel 1944 (a sette anni di età), Elek e la famiglia furono ammassati in uno dei ghetti della capitale, rintanati in condizioni disumane tra freddo e fame finché la piccola Judit, l’anno successivo, venne “adottata” da una famiglia del contado e trattata più o meno da soprammobile fino a parecchi mesi dopo la guerra, quando la madre riuscì rocambolescamente a trovarla nonostante nessun canale istituzionale permettesse il rintracciamento. Dopodiché, negli anni Cinquanta, il padre ingegnere viene di nuovo retrocesso a operaio semplice per ragioni politiche, e una Judit quasi ventenne si trova a cominciare la scuola di cinema nel momento in cui scoppia la rivoluzione del 1956, che lei segue senza capirci granché ma comunque piuttosto da vicino, visto che frequenta il lievemente più stagionato futuro regista Imre Gyöngyössy, che nella rivoluzione ebbe un ruolo piuttosto attivo. L’unica cosa che all’epoca capisce è, o così lei dichiara nell’intervista, che quei carrarmati russi non le piacevano, e che voleva fare cinema.
Da sempre appassionata di Storia, Elek la vede intrecciarsi confusamente alla propria esistenza; ad esempio (ed è solo una di molte occorrenze riportate nella lunga intervista), quando il marito Zsolt Kézdi-Kovács, pure lui filmmaker, fu obbligato dal regime dopo la fallita rivoluzione a riferire periodicamente informazioni sulla moglie alle autorità componenti (in altre parole: ai servizi segreti). Storia e autobiografia vedranno sempre sfumare i reciproci confini l’una nell’altra, senza che questo incrocio assuma mai contorni definiti. Anche nella sua filmografia. Come la propria stessa biografia, la Storia è un serbatoio da rincorrere umilmente, senza mai pretendere di averne un quadro già cristallizzato a priori. Elek comincia così ad entrare nel cinema ungherese senza nessuna ideologia particolare, e anzi con intenti non più determinati e precisi della semplice voglia di fare film. Le sue intenzioni, casomai, saranno chiare (anche a lei stessa) solo a posteriori, riconoscendone i contorni solo dopo aver rincorso la Storia dove e come si possa, così come la biografia propria e altrui.
Personale e politico sarebbero insomma parte di uno stesso magma da esplorare senza preconcetti, finché qualcosa si rende visibile – ma solo a posteriori, e non come esemplificazione di uno schema predefinito. Negli anni Settanta, diventò famosa una certa “scuola di Budapest” che, mescolando finzione e documentario, rivelava lo iato tra narrazione ideologica ufficiale (da parte del regime soprattutto) e realtà osservabile empiricamente. Elek non ne fece mai parte (non mescolò mai realtà e finzione), ma il suo cortometraggio di esordio Encounter (1963), notato subito da Louis Marcorelles dei Cahiers (che fu tra coloro che fecero di più per far conoscere il suo cinema al di fuori dell’Ungheria), giocava già su questo iato (come del resto il successivo e televisivo We Will Meet in 1972 – In Dark and in Light (1972), che giustapponeva la propaganda ufficiale relativa alle condizioni dei minatori a interviste ai minatori stessi), ed ebbe un ruolo di primissimo piano nell’ispirare il successivo, simile approccio da parte della scuola di Budapest, la quale com’è noto si mosse soprattutto all’interno di quegli studi Béla Balázs in cui vide la luce lo stesso Encounter. Il successivo dittico On the Field of God in 1972-1973 (1973) e A Commonplace Story (1975), fu girato con spirito analogo benché al di fuori degli studi Béla Balázs: e non si tratta, appunto, solo di uno dei più importanti esempi di cinéma vérité in assoluto nella storia del cinema europeo (e probabilmente mondiale), ma anche un caso da manuale di interpenetrazione di personale e politico.
Nell’arco di quasi cinque anni anni, Elek gira quello che di fatto è un unico documentario tagliato in due parti. Nel piccolo villaggio di Istenmezeje, Elek fa la conoscenza di due ragazze appena uscite da scuola, e delle loro famiglie. Marika è ribelle e mascolina: vuole specializzarsi e trovare lavoro fuori, da sola. Ilonka invece si innamora di uno dei giovani minatori del luogo, Laci. Grazie a un eccezionale livello di intimità raggiunta con loro e con gli altri abitanti del villaggio, Elek rende la sua cinepresa un sismografo emotivo straordinariamente sensibile. Se uno dei libri di cinema da lei preferiti è la teoria del cinema di Béla Balázs ci sarà un motivo: il film è tutto in come i volti si increspano, si aprono inaspettatamente, si fanno iperespressivi, raccontandoci una storia diversa e più complessa del fluido processo di integrazione post-scolastica che vorrebbero le autorità (che infatti prevedibilmente cercarono di bloccare il film, il quale poté circolare, miracolosamente, solo grazie all’aiuto di uno dei funzionari ufficiali). Non si tratta, però, nemmeno della storia di una giovane speranza avvizzita e rassegnata al grigiore quattro anni più tardi, come vorrebbe una pigra vulgata assai diffusa nella letteratura critica sul dittico. Si tratta invece della prima emersione di un assunto a cui Elek rimarrà assai attaccata lungo tutta la sua filmografia: lo sfumare dei confini tra l’appartenere e il non appartenere. In teoria, Marika dovrebbe essere la ribelle, e Ilonka quella integrata. Ma alla società neppure Ilonka e la sua scelta pro-matrimonio, pro-patriarcato va bene. E del resto, di converso, il tribunale non si farà poi troppi problemi a condannare gli uomini che hanno molestato pesantemente Marika sull’autobus. Ma anche durante quel processo, la cinepresa ci racconta una storia diversa, una storia di rapporti interpersonali intrinsecamente malati (e non solo tra sessi diversi), di incessante, sgradevole diffidenza, ostilità strisciante, risentimento confuso, dubbio e paura. In quell’ambiente, tentare di suicidarsi è la norma: ci hanno provato le stesse Marika e Ilonka, come del resto la madre della prima, mentre il padre invece ci è riuscito, e solo per una lite al bar.
Ad essere isterica non è Marika né Ilonka, ma la società stessa, incapace di accettare tanto chi si ribella quanto chi si integra. Appartenenza e disappartenenza sono pari, e questa zona grigia, questa ordinarietà del non integrabile è esattamente quella materia umana che Elek capta attraverso le confessioni intime degli abitanti, i riflessi incondizionati su volti e corpi, le pieghe scomodamente enigmatiche del quotidiano. È una materia che non cessa di palpitare, irriducibile a determinazioni definite: anche alla fine del secondo film è impossibile riscontrare per davvero la presenza di un arco come quello che andrebbe semplicisticamente dalla speranza alla disillusione: le ultime scene con Marika e Ilonka le vedono perplesse davanti alla sfinge di una quotidianità impossibile da soddisfare, ma quella che si legge sui loro volti è una perplessità vitale, disordinatamente reattiva ma non rassegnata.
Dello stile documentaristico del dittico Elek si ricorderà nel successivo, finzionale Maybe Tomorrow (1979): già dai primi minuti, la cinepresa bracca i due adulteri protagonisti, seguendo scrupolosamente e lungamente i loro movimenti in attesa che da sotto la superficie ufficiale dei rispettivi matrimoni emergano sintomaticamente sui loro corpi e volti i segni di qualche magagna nascosta sotto il tappeto. Presto, però, il protagonista maschile erediterà una casa in campagna, e da qui il film scivola in un deliberato caos dove non c’è più la minima traccia di una drammaturgia tradizionale: la storia dei due protagonisti si eclissa dietro quelle di altri personaggi che gravitano intorno alla casa, e farà ritorno solo alla fine, dopo che le altre vicende avranno fatto loro da opacissimo specchio, impantanate in una asfissiante, debordante promiscuità di uomini, cose e percorsi narrativi, tutto centrifugato insieme. Si fa fatica a stare dietro a questo maelstrom, ma la realtà è complessa, e Elek non ha paura della complessità. Lo si vede bene nel successivo Maria’s Day (1984), film in costume su vari famigliari dell’eroe nazionale Sándor Petőfi, poco dopo la sua morte nei moti del 1848. Nei primi minuti pensiamo che il film sia sulla vedova, ma questo dramma in costume, che mescola brillantemente eleganza, inventiva, precisione registica e furia selvaggia, trasmette nervosamente conflitti di personaggio in personaggio senza risolverne nessuno, e appena balugina un minimo di autocoscienza si ri-precipita nel turbinio indefesso di relazioni interpersonali di tellurica, strutturale instabilità. Finché, del tutto coerentemente con questo meccanismo drammaturgico per contagio, arriva il colera.
Tra Maybe Tomorrow e Maria’s Day, Elek firma The Trial of Martinovics and the Hungarian Jacobins (1981), progetto bloccato dieci anni prima perché troppo evidentemente allegorico rispetto al regime filostaliniano in carica. Ignác Martinovics è un poliedrico intelletto rinascimentale, prelato francescano, scienziato pionieristico e molto altro, accusato alla fine del diciottesimo secolo dagli austriaci di cospirare per estendere la Rivoluzione francese all’impero austro-ungarico. Dalla sua storia Elek trae un denso dramma processuale che sfrutta al meglio le risorse sperimentali offerte dal mezzo televisivo: la parola la fa da padrona, ma viene servita egregiamente da una superiore perizia compositiva attentissima ai rapporti tra figura e sfondo. Nulla è più lontano dal film di un mero scontro tra istanze conservatrici e istanze rivoluzionarie: ovviamente Martinovics non sta mettendo in piedi alcuna cospirazione, e semmai l’unica cospirazione è quella della macchina della giustizia per attribuirgli una colpa che non ha. Eppure, Martinovics è tutt’altro che estraneo ai magheggi della politica: non capiamo mai davvero che cosa abbia in testa né da quale parte della barricata stia (impero? Ungheria? Conservatori? Ribelli?), dà indicazioni contraddittorie e spesso di estremo interesse politico. Arriva persino a predire per l’Europa come l’unica via per la stabilità sia la tensione perpetua, in senso di fatto già pienamente israelo-palestinese: a buon diritto dunque, al momento in cui la sentenza contro di lui verrà eseguita, dichiarerà di stare anticipando i tempi…
Al netto dell’inaudita complessità politica mobilitata, il film rimane lucidamente focalizzato sull’analogia tra quello a Martinovics e i processi-farsa staliniani – i quali, notoriamente, riproducono precisamente le dinamiche antisemite attraverso cui gli ebrei vengono accusati di questa o quella cospirazione inesistente… Non a caso, dopo Maria’s Day Elek girerà Memories of a River (1989), sul caso Tiszaeszlár, dal nome del villaggio in cui si verificò, nel 1882, la scomparsa di una quattordicenne, della quale furono ingiustamente accusati (e pesantemente perseguiti, torture comprese) un gruppo di ebrei di passaggio. Per la prima volta, Elek riflette sistematicamente sulle proprie radici ebraiche, e lo farà sempre più insistentemente nei decenni a seguire, anche intervistando a lungo Elie Wiesel e dedicando alla tradizione musicale chassidica un libro e un film. Da ora in poi, per la verità, si registra anche una certa riconciliazione: il suo cinema comincerà a diventare sempre più inamidato, e le tensioni, mai assenti, troveranno comunque più facilmente il modo di ricomporsi. Già in Memories of a River, per dire, nulla contesta la supremazia dell’infallibile Legge, peraltro coerentemente con le premesse della tradizione religiosa che Elek sta riscoprendo.
Ma l’ebraismo di Elek non ha nulla di ortodosso. Già il padre, in una lettera alla figlia Vera poco prima che morisse, nel 1943, confessava di vedere nell’identità ebraica nulla più di un’identità come le altre, oramai spezzata storicamente e di cui rimaneva soltanto il ricordo. Dell’ebraismo, Elek vede non un’identità a cui aggrapparsi, ma di nuovo la perfetta epitome della continuità tra appartenenza e disappartenenza. Dell’ebraismo le interessa questa continuità; non le interessa invece né la specificità etnica né quella religiosa, che sente piuttosto indifferenti.
Detto questo, Memories of a River contiene già una potente condensazione di un tema che già i film precedenti presagivano abbondantemente, e che potremmo considerare come la figura rivelata a posteriori a seguito della lunga immersione di Elek nel cinema, sulla scia dell’umile curiosità verso la valanga della Storia e quella della biografia, propria e altrui. In altre parole: la cifra fondamentale che il suo cinema ha lasciato trasparire solo in corso d’opera, e di cui la stessa Elek era all’inizio ignara. Sulla zattera che li sta conducendo verso Tiszaeszlár, il gruppo di ebrei vede galleggiare un cadavere. La cinepresa indugia a lungo sullo scandalo, colmo di mistero, di quel ritrovamento; più tardi, i protagonisti lo seppelliscono, venendo naturalmente accusati dagli inquirenti di occultamento di prova. Mentre il film, dunque, sembra infilarsi nei binari di una versione semitica dell’hitchcockiano The Trouble with Harry (1955), la specificità ebraica sembrerebbe configurarsi come quella di resistere dal distogliere gli occhi rispetto allo scandalo dello sguardo di un morto che poi tanto morto non è, mentre gli altri (è la cifra stessa del cospirazionismo antisemita) esorcizzano quello scandalo facendo di chi riesce a tollerarlo un capro espiatorio.
Ed è questo il nodo che stringe insieme teologia, psicanalisi e gender e che definisce, a posteriori, l’essenza del cinema di Elek (nel volume The Lady from Budapest, infatti, è incluso un assai utile saggio sul ruolo dei morti nel cinema di Elek). Come ci insegna la psicanalisi (quantomeno la linea freudo-lacaniana), sul palcoscenico del mondo tutto ciò che facciamo è rivolto allo sguardo di un Grande Altro (per gli amici: Dio) che, guardandoci, conferma la nostra esistenza, e rinsalda la nostra appartenenza all’identità in cui ci riconosciamo. Ma quando questo sguardo è sia morto che vivo, esso non conferma né rinsalda un bel niente, e non fa che ributtarci in faccia tutta l’ineludibile instabilità in cui ci troviamo a vivere senza rimedio. Il fantomatico female gaze sarebbe insomma, per Elek, uno sguardo capace di ri-guardare uno sguardo vivo e morto al tempo stesso, senza che la resurrezione ci consoli con la possibilità di tracciare una qualche linea, in esso, tra vita e morte, del tutto omologa all’altra impossibile linea tra personale e politico.
I drammi parossisticamente instabili e frastagliati che erano Maybe Tomorrow e Maria’s Day, dopotutto, erano tali perché sapevano di essere implicitamente rivolti a uno sguardo né vivo né morto. Nel secondo, quello di Petőfi, la cui assenza pesa su tutto il film; quanto al primo, uno dei pochi suoi leitmotif è uno dei due amanti che guarda l’altro mentre dorme (e a scindere il film in due è uno sparo subito da una donna che sembra morta e che poi torna viva). L’ultima inquadratura di Martinovics è un “divino” sguardo dall’alto che sigilla l’espulsione, da parte del sistema ecclesiastico-politico, di un’eccezione troppo conforme alla regola. Awakening (1995) filma un racconto di decenni prima in cui Elek fuse insieme elementi autobiografici e finzionali: esso racconta di un’adolescente la cui madre muore, ma torna in forma di muto fantasma (la voce però si sente in voice over) per assistere a tutte le più importanti tappe di crescita della figlia. E comincia visualizzando un episodio che la regista cita spesso nelle interviste: dovendo sloggiare durante le persecuzioni contro gli ebrei verso la fine della Seconda guerra mondiale, la piccola Judit inciampa su un cadavere, e si ritrova faccia a faccia con il volto immobile di un’anziana morta che giace a terra. Retrace (2019), in forme invero un po’ contorte, legnose e senili, affronta il controcampo del Dio morto-non-morto: la colpa incancellabile, innanzi ai propri morti come davanti a Dio, del rimanere vivi.
Elek ha la fama di avere un carattere scontroso, non di rado conflittuale. Del resto, le sue interviste e i suoi film suggeriscono l’immagine di una donna abituata da sempre a combattere – non pro o contro qualche ideologia, ma per qualcosa di inizialmente indeterminato e che sarebbe emerso solo a posteriori: la possibilità di una forma cinematografica data alla consapevolezza che non abbiamo scampo, siamo condannati a combattere per sempre, perché potremmo smettere solo guardandoci combattere. Ma non possiamo guardarci combattere, perché questo è privilegio di uno sguardo che non è il nostro, vivo e morto al tempo stesso.