Sandra è un’interprete assediata dagli impegni, svicola da una parte all’altra di Parigi per lavoro, con l’obiettivo di occuparsi della figlia poco più che undicenne e del padre Georg, affetto da una malattia rara che colpisce la memoria. Durante il trasferimento del padre in ospizio, Sandra riscopre l’amore grazie a Clément, un vecchio amico sposato.
In una riflessione dedicata a un film di Mia Hansen-Løve non si può che partire dalla storia. Il suo cinema sta tutto lì: nel contenuto che sovrasta la forma, nei personaggi che affrontano passioni e criticità tipiche di ogni parabola esistenziale. Lo zoom, che mette a fuoco precisi momenti di vita dei personaggi, rende il suo cinema il più autobiografico per eccellenza: è quasi sempre una lei, innamorata di un uomo più grande (Un amore di gioventù), succube e ricercatrice delle attenzioni amorose (Un bel mattino), alla ricerca di una storia da raccontare (Sull’isola di Bergman). Ed è proprio questo legame con l’autobiografia il punto di forza della regista, che muove le tante copie di se stessa in spazi diversi, ma con gli stessi modi di dialogare, e arrivando a raccontarli con uno stile preciso e riconoscibile.
In Un bel mattino, torniamo in Francia dopo aver sbirciato tra le passioni cinefile della regista (Bergman e la Svezia), e lo facciamo proprio con Léa Seydoux (la più internazionale delle icone francesi), donna sulla quarantina che cerca di barcamenarsi tra i suoi sentimenti adolescenziali, e quindi ingestibili per il nuovo amore Clément e il tentativo di soffocare le emozioni dolorose per la condizione di salute del padre. Vincitore della Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2022, il film si fa portatore di trasparenza e transitorietà. Un bel mattino scorre facendo della semplicità del quotidiano un’azione chiarificatrice, per un cinema fatto di sottrazione, di passaggi e spazi urbani. “Togliere l’indispensabile”: ecco la definizione che meglio si addice allo stile di Mia Hansen-Løve che lavora per riduzione, per tagli di montaggio netti proprio lì dove dovrebbe arrivare la distensione. Quando Sandra fa le valigie al padre e si siede sul letto, scoppia in un pianto disperato che lo spettatore non ha il tempo di digerire, ed è proprio questa assenza di dialogo tra le immagini (tagliate di netto) e le emozioni percepite che rende reale la sofferenza. È dal vuoto del fotogramma, da ciò che non si vede, che riusciamo a percepire e immaginare un’emozione. Non c’è più spazio per la memoria mentale in questo viavai di panoramiche e tagli: tutto ciò che resta è la memoria dei corpi; corpi desideranti e corpi diventati involucri, come quello del padre che “era un grande uomo”, dice Sandra; l’uso dell’imperfetto indica un corpo la cui memoria è relegata al suo sapere (i libri di filosofia in tedesco) che deve essere tramandata necessariamente agli studenti (altrimenti cosa resta di quell’uomo?). Le dinamiche dell’attaccamento, tipiche della regista, nei confronti della genitorialità e del partner, spiegano come l’amore sia l’unica speranza di rimanere aggrappati alla vita; questo si concretizza in Georg che, nonostante abbia perso vista e memoria, chiede sempre della sua amata.
Quegli stacchi netti, il continuo andarsene dei personaggi nelle situazioni più importanti (Sandra durante il coro finale di Un bel mattino, il ragazzo in Un amore di gioventù che scappa da Parigi, Joseph che fugge da Amy in Sull’isola di Bergman), fa sì che il cinema di Hansen-Løve racconti la vita, non quella romanzata quanto il suo scorrere tra momenti di noia e speranza; perché è vero che la maggior parte del tempo siamo impegnati a transitare da un luogo all’altro, da una situazione ad un’altra, da un’emozione all’altra. È la dimensione del transito, solitamente compressa nell’economia del linguaggio cinematografico, a diventare la sintassi del racconto di Mia Hansen-Løve che rende quest’operazione sul tempo un vero e proprio genere.
Un bel mattino sancisce definitivamente lo stile della regista francese che pedina i suoi personaggi alla ricerca della vera essenza del vivere, troncando le emozioni, per poi, alla fine, tornare ad emozionarsi per un paesaggio che fa da sfondo scorrevole durante le nostre vite accelerate. Parigi non è più una città da cui fuggire ma un paesaggio di passaggio, uno sfondo plastico da guardare solo in uno straniante momento di ritrovata tranquillità.