Un pittoresco villaggio della campagna francese, una bambina orfana di madre accudita dal padre falegname, un bosco incantato e la profezia salvifica di una fattucchiera. Con Le vele scarlatte, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes e ora nelle sale italiane, Pietro Marcello, ispirandosi all’omonimo romanzo di Aleksandr Grin, trasforma il racconto russo in una storia dal sapore fiabesco ed etereo, immersa nelle immagini poetiche e vivide della pellicola. Il film prende il via dal ritorno dal fronte di Raphaël, falegname che la Grande Guerra ha lasciato claudicante e ignaro della morte della moglie. Al suo arrivo, scopre però di avere avuto una figlia, Juliette, che è stata fino a quel momento accudita da Adeline, donna del villaggio che pratica piccole magie e dalla quale l’uomo si trasferisce. Juliette cresce quindi tra le mani callose di Raphaël, che “fanno miracoli” nel legno, e le mani concentrate di Adeline che mette a punto i suoi sortilegi.
Pur non rinunciando a collocare in un arco temporale piuttosto preciso il suo racconto, Marcello elude qualsiasi altra collocazione spaziale che potrebbe confinare e fissare l’atmosfera fiabesca della storia in un ambiente fin troppo connotato. E proprio come qualsiasi fiaba, i temi non sono mai urlati, ma sempre sussurrati, accennati appena. Soprattutto la storia principale, quella di Juliette, cresciuta tra Raphaël e Adeline – tra mondo materico e mondo magico. Se il destino della madre, violentata da un paesano e vendicata poi dal marito rientra nello stereotipico schema di genere: donna=vittima e uomo=salvatore, Juliette rifiuta invece il ruolo di vittima, scappa dal suo predatore e si rifugia nei boschi, nella dimensione eterea delle profezie e delle magie. E anche quando da un aereo con i nastri scarlatti arriva Jean, il pilota che secondo la profezia avrebbe dovuto salvarla e portarla via con sé, è invece lei a portarlo in salvo, ribaltando la prospettiva e vanificando completamente il ruolo salvifico del “principe”.
Infatti, anche la storia d’amore tra la ragazza e il pilota, che sembrerebbe apparentemente troppo poco sviluppata, risponde in realtà al topos del genere, dove il ruolo del “principe” è pratico, funzionale: non c’è nessun romanticismo, nessun’intima connessione, il pilota arriva soltanto per svolgere il ruolo specifico di messaggero di una profezia. Il vero legame è quello padre-figlia, l’unico che merita un trattamento più profondo ed esplicito. L’emancipazione di Juliette, infatti, può avvenire soltanto dopo la morte del padre, tanto che le vere vele scarlatte, quelle del veliero di Grin e della tradizione che ancora oggi la città di San Pietroburgo mantiene, appaiono solo dopo aver sepolto la salma di Raphaël.
Il racconto di Marcello ha tutti gli elementi per entrare a pieno titolo nel genere della fiaba. Non è dunque un caso che anche l’uso di materiale d’archivio sia ridotto. Se in film come Martin Eden o La bocca del lupo l’archivio aggiunge un sostrato favolistico, dona una dimensione mitica ed eterea alla storia e ai suoi testimoni, qui invece la sfera magica è già talmente presente e connaturata al racconto che non solo non ha bisogno di essere ulteriormente enfatizzata, ma diventa essa stessa archivio. È il volto stesso di Juliette che quindi finisce per fondersi nel color seppia delle immagini di un grande magazzino di altri tempi. Per lo stesso motivo, Marcello ricorre all’archivio soprattutto per rappresentare la guerra, la miseria, o comunque tutti quegli elementi che sono esclusi dal regno del racconto fiabesco e che hanno bisogno di una leggerezza e delicatezza particolare per dialogare con gli altri elementi del film.
C’è infatti un contrasto netto ma mai troppo esplicito tra il mondo magico di Juliette, e in generale della sfera femminile, e quello materico di Raphaël. Ma ciò che Marcello sembra volerci dire è che questi due mondi coesistono, si contaminano costantemente e non possono esistere l’uno senza l’altro. Proprio l’avvicinarsi di Raphaël al mondo mitologico, intagliando la polena di una nave (che lo stupore di Adeline: “si fanno ancora le polene?” sottolinea) ne segna la sua fine, lo scopo ultimo della sua esistenza. Allo stesso modo, solo dopo la morte del padre, Juliette inizia ad avvicinarsi al mondo materico, incanalando la dimensione romantica e poetica nella più pratica arte di intagliare strumenti musicali. In questo senso, Le vele scarlatte sembra suggerire la necessità di una nuova libertà nella quale coesistano materia e spirito, razionalità e magia, serietà e leggerezza.