Eccovi servita una bella playlist con i migliori videoclip delle canzoni dell’anno. Ovviamente, si tratta come sempre di una classifica parziale, dato che non è possibile vederli tutti quanti (MVDb dice che nelle televisioni americane, ne son passati circa mille fra quelli realizzati quest’anno. E si tratta solo della produzione mainstream). Come non è sempre detto che una bella canzone possa vantarsi di avere anche un bel videoclip e viceversa. Al netto di quest’annata non troppo felice, se c’è una cosa che riteniamo importante da segnalare, è la scelta delle major di preferire al solito videoclip la realizzazione dei visual-video, ovvero brevi sequenze ripetute in loop per tutta la durata del pezzo. Una scelta dettata sì da logiche produttive, ma che inevitabilmente condiziona (ed è condizionata) dalla sempre più breve soglia di attenzione che l’utente dedica alla visione di un contenuto video (in media, non più di 20 secondi, a meno che non ci sia un cagnolino o un balletto da imitare. Se prendiamo il secondo caso, allora, la vincitrice di questa classifica è per forza la hit estiva Don’t You Worry dei Black Eyed Peas ft. Shakira & David Guetta. Il che ci dovrebbe far scattare in testa qualche domanda. Ma se lo dicono loro di stare tranquilli, andiamo pure avanti sereni).
Die Antwoord – Age of Illusion
King Gizzard & The Lizard Wizard – Iron Lung
Per cavalcare l’onda del momento, mettiamo al primo posto i due videoclip che riteniamo meglio riusciti grazie all’AI – ovvero, con l’intelligenza artificiale (che Miyazaki e Del Toro hanno definito “un insulto alla vita stessa”). Quest’anno ne sono usciti parecchi e ne vedremo uscire ancora una valanga, sempre più invasivi e sempre più simili fra loro. Precisiamo da subito, semmai venisse il dubbio a qualcuno, che anche questi video sono pensati e scritti da esseri umani: l’intelligenza artificiale è solo un mezzo per realizzarli e come mezzo porta con sé alcuni elementi riconoscibili che ne caratterizzano l’estetica. Ricorrono infatti la frammentarietà di più immagini amorfe che ne generano a loro volta una più articolata (spesso forzando gli equilibri compositivi classici dell’inquadratura) e una narrazione che si sviluppa in profondità e non in linearità (come le animazioni di Simone Massi o gli specchi di Pistoletto). Anche se l’universo da cui attinge il motore di ricerca non ha particolarmente “gusto”, e ne scaturisce una sensazione di vuoto latente, una mancanza di poesia, nessun inatteso…
Ma appunto, siamo certi che fra qualche anno questi due esempi ci sembreranno obsoleti, come l’auto-tune usato dai trapper o l’idea di scrivere un post su Facebook. E forse la bellezza di questi video “inumani” risiede non tanto nel racconto di superficie che riflette una desolante e anonima realtà virtuale (costellata di manga hentai, scorci urbani alla Blade Runner e lisergiche apparizioni di mostruosità naïf ), ma di riuscire a testimoniare ancora una volta l’illusione perenne (e in qualche modo commovente) che abbiamo noi uomini di aver trovato finalmente il modo per… per fare cosa? Boh.
Kendrick Lamar – N95
Kendrick Lamar – We Cry Togheter
Kendrick Lamar – The Heart Part 5
“Sono tutti noi”. Quest’anno il messianico Premio Pulitzer Kendrick Lamar è tornato in scena dritto dal mare, camminando sulle acque (in mocassini Vuitton). N95 unisce il minimalismo dell’architettura brutalista (che fotografata in bianco e nero è un ottimo set di moda) con la spiritualità solitaria di Ghost Dog, scanditi da titoloni vagueiani e un bianco e nero che ci riporta al sempiterno La Haine (un video pieno di idee che faranno tendenza: quella che probabilmente fa già strippare i filmmaker è il vetro rotto al 0:26). Risultato di grande effetto, ma forse un po’ troppo autocompiaciuto. Rimane la solita percezione di chi sta accusando il mondo dello spettacolo mentre viene illuminato dai riflettori delle camere. Non ci resta che piangere?
Per l’appunto, We Cry Togheter (“co-diretto” dallo stesso rapper) è il video più “alla maniera” cinematografica (cioè, alla Netflix) e proprio per questo meno interessante, offrendo scorciatoie su tracciati già lungamente solcati. In questo caso: una scena di sesso esplicito nel finale (ammetto che per un secondo provoca un’impressione strana vedere Kendrick che si cala i pantaloni e “copula” con la compagna sul divano, nella posizione più animalesca e pornografica che il sesso propone. Ma poi ti domandi se la tua perversione da spettatore consista nel provare quel senso di ribrezzo/eccitazione solo perché stai vedendo qualcosa che potresti trovare anche in un qualsiasi porno, oppure se quella che hai è un’attrazione dettata dallo scandalo perché il tuo idolo scopa davanti ai tuoi occhi proprio come un comune mortale. In ogni caso, la situazione è abbastanza grave “bro”). Se non che – colpo di scena ancora più basso – il carrello corre indietro per mostrarci che è tutto finto, che tutto fa parte di un set…e la solita critica alla spettacolo torna ad azzannare la coscienza dello spettatore che “non ci aveva proprio pensato”. Finiamola dai.
Ma allora Kendrick, c’è un video che merita davvero di essere visto? Sì. Si tratta di The Heart Part 5, il primo uscito a Marzo che ha anticipato l’uscita dell’album. Un video essenziale e d’effetto: Kendrick, t-shirt bianca e bandana, canta di fronte a un fondale rosso (dovremmo dire “interpreta” più che “canta”). Man mano che incastra le rime il volto cambia, trasfigurandosi in alcuni personaggi iconici della blackness americana: O.J. Simpson, Kobe Bryant, Jussie Smollet, Kanye West, Nipsey Hussle e Will Smith. La cosa che colpisce, oltre ai sottotesti delle varie e disparate storie dei personaggi (per cui si dovrebbe spendere un testo a parte), è l’effetto magnetico che il video ha sullo spettatore: il montaggio è ridotto all’osso, le piccole variazioni sono lasciate (ancora una volta) alle funzioni del nuovo mezzo digitale (in questo caso, un filtro facciale molto simile a quello utilizzato da Scorsese per ringiovanire De Niro in The Irishman). La percezione è quella di un superamento della dimensione spettacolare a favore di un’unica inquadratura, di stampo televisivo certo, ma che proietta oltre la soglia delle quinte di stage. All’opposto dell’involuzione spasmodica che ci propone l’AI, il video punta all’unicità irripetibile del gesto per rendere sacra l’immagine.
Kanye West – Life of the Party
Kanye West – Heaven and Hell
Un effetto simile lo ritroviamo in Life of the Party, a metà fra un visual e il solito contenuto autocelebrativo che il nostro mostruoso/genio (ultimamente più mostruoso che genio) ci appioppa ogni anno. Ancora una volta però, confesso che l’uso del filtro facciale applicato sulle fotografie di Kanye, da quando è bambino in tutte le fasi della sua crescita, porta con sé una riflessione strutturale sull’uso creativo del materiale d’archivio: potremo far dire, a persone del passato, quel che non hanno mai pronunciato? Oltre al fatto che dare l’impressione di poter cantare lo stesso pezzo, da quando si è bambini fino ad oggi, regala la sua dose di malinconia. A me ricorda lo stile del synchro-vox, la tecnica dei cartoni americani low-budget che permettevano al personaggio di simulare un dialogo, ritagliando una bocca vera su un disegno sempre immobile. E anche Viva degli Zen Circus, che quest’anno compie 10 anni. Auguri.
Di tutt’altra specie, Heaven and Hell mostra un mondo popolato da anonymous (il vero volto dei rivoluzionari moderni – secondo gli stessi anonimi cospiratori) immersi in una periferia globalizzata. Nella grigia piazza di spaccio, il video porta avanti quel filone narrativo nazionalpopolare che ha preso piede a partire da V per Vendetta, per poi trovare il consenso dei “sovversivi” incompresi di mezzo mondo (da Joker a Nocturama, citandone giusto un paio). Ma il momento in cui messia Kanye (tutti messia quest’anno…) si erge sopra nuvole e fa collassare il cielo in un tripudio dantesco di anime desaturizzate (mi spiace tirare in ballo l’ultimo film di Sokurov, ma il suo inferno è davvero simile), sa risvegliare in noi quella pulsione romantica di terrore, da farci sentire tutti sempre così singoli e moltitudine (due compartimenti stagni ben divisi fra di loro). E le citazioni si sprecano: dalle incisioni di Doré ai quadri di Magritte, fino al gran finale, catapultati ancora una volta di fronte a una serie di video-immagini in non-movimento: alle scene tratte dalle pitture dell’ottocentesco John Martin, che narrano le battaglie epiche di un retro-futuro alle porte. Speriamo di no.
Come hanno già scritto in molti, è lei la vera vincitrice del 2022: non solo perché ha realizzato uno fra i più innovativi dischi dell’anno, ma anche perché è riuscita a venderli (a venderli, insomma… a farci dei soldi. Ci siamo capiti).
Rosalia è un personaggio che mette d’accordo tutti: amata da un pubblico di ragazzi e di ragazze, osannata da molti gruppi femministi e punto di riferimento per i non binary, tanto da farne una bandiera nel ritornello che sventola “io sono tutto, io mi trasformo”. Ad oggi, ricopre la vetta pop dell’osannata questione postmoderna fra “alto” e “basso”. È glamour, incazzata, social, mulatta, politica, e le piace battere cassa sui quattro quarti della reggaetton (genere quasi esclusivamente maschile e machista). Detto ciò, i videoclip non sono mai così interessanti, spesso ancora troppo relegati all’immaginario teen da spiaggia e discoteca. Tutti a parte SAOKO, che invece è un vero e proprio svarione di linguaggi, carico d’adrenalina epilettica. Aggiungo poi una suggestione totalmente personale ( e perciò arbitraria), ma penso che chi sfreccia in moto nei video incarni ancora l’immagine più pura della giovinezza bruciata, da Easy Rider a Ragazzi Fuori. I videoclip di oggi sono pieni di motociclisti, ma anche di motocicliste (un dettaglio che SAOKO tende a enfatizzare nelle sequenza al 1:13), sempre sfacciati che scorrazzano coi loro caschi fumé. Le acrobazie sui motori non sono mai state così pericolosamente sexy.
Salvatore Ganacci – Take Me To America
Figlio della satira elettro-demenziale che negli anni ha generato fenomeni virali quali i Little Big, Tommy Cash o gli Ylvis, in questi ultimi tre anni Salvatore Gannacci è riuscito a costruirsi un’identità forte e credibile, cosa che nell’ambiente tanto esclusivo dei Dj non è sempre concessa. Già dai tempi dell’iconico Horse, il nostro si presenta come la caricatura di un David Guetta lobotomizzato (come se ce ne fosse già bisogno). Il risultato è un impassibile manichino danzante, timido fino al mutismo ma non per questo meno cinico e crudele. Ganacci compie pochi movimenti, poche espressioni, scosse dalle pulsazioni della sua stessa “poca” musica, fatta di cassa dritta e sample deep con campioni di voci a caso. Una tamarrata insomma. Ma il suo personaggio si distacca dalla comicità grottesca e gratuita dei colleghi: in Take Me To America, confezionato con una regia eccezionalmente raffinata (un film rinchiuso in poco più di 4 minuti, il vero tempo che dovrebbero avere quasi tutte le serie), il videoclip è un pastice fra il Cohen di Borat e i Leningrad Cowboys di Kaurismaki, passando per Kusturica e Roy Andersson (i tempi comici sono quelli del cinema svedese). Per non parlare del complesso edipico morettiano, che nello “skit” video Galaxi Brain viene palesemente citato (se non conosci la citazione riparti dall’inizio della filmografia di Nonno Nanni, tanto la trovi fra i primi).
Non c’è molto da dilungarsi su D.M.B., se non crepare d’invidia pensando che siamo davanti alla celebrazione dell’amore (sincero, sembra) della coppia più in del momento, rappresentata da uno stile rapsodico, collaterale…Per farla breve stilisticamente geniale. Si mescolano insieme l’effetto pixelato da censura, il grandangolo, la stop-motion, la soggettiva di un bicchiere, dissolvenze incrociate, l’analogico della pellicola, la foto analogica, il finto analogico digitale…Tant’è che non si capisce più niente e tutto sembra possibile. Se non ché alla fine il registro cambia di nuovo e ci riporta con spiazzante leggerezza in una dimensione narrativa quasi infantile (quella lineare dello scorrimento da sinistra a destra) in cui tutte le cose e le persone sono ritagliate sovvertendo i criteri di grandezza come in un geroglifico animato (e siccome in questa playlist non c’è nemmeno un video italiano, ammettiamo che si tratta di una bella copia di Festa dei Crookers ft. Dargen Damico e Fabri Fibra? Era il 2010, ma l’idea è praticamente la stessa: con la sola differenza dettata dalla nostra inclinazione “felliniana” di aggiungere nani, costumi grotteschi e fotografie di cibo ovunque).
Stromae – Santé (Live From The Tonight Show Starring Jimmy Fallon)
Semplicemente la live-performance più ipnotica e meglio giostrata dell’anno. A riprova del fatto che la magia delle immagini in movimento non sta negli effetti digitali, ma nelle trovate più essenziali.
Ringo Starr- Everyone And Everything
Mentre chiudevo questa classifica è comparso sul mio schermo senza prima avvertire, senza che me ne potessi accorgere: sagomato dal tramonto di una spiaggia, ancora a cavallo della sua batteria, Ringo Starr ci ha regalato Everyone And Everything, l’inno ambientalista e pacifista che ci meritavamo. Una canzone che immagino si rifiuti di cantare perfino Greta Thumberg. Ho cercato nei crediti del videoclip, cercando di capire se l’avesse realizzato qualche casa di produzione napoletana, come quelle che sfornano ogni settimana le hit di Francesco D’Aleo o Nico Desideri. Non è così e non vorrei aggiungere altro.
Concluderò ricordando quella bella vignetta di Andrea Pazienza in cui un motociclista prova a convincere con insistenza l’amico, assicurandogli che quella che sta mangiando è la peggior zuppa che ha mai provato. Ecco, non vorrei farvi cascare nella tentazione. Ma sento che qualcuno sta già battendo sulla tastiera.