“Allora, c’era un russo, un tedesco, un inglese e un italiano…”. Che l’austero ciclo sokuroviano sui capi di Stato (qui Stalin, Hitler, Churchill e Mussolini, tutti moltiplicati in numerosi doppioni che gironzolano irresolutamente nell’oltretomba) si compia definitivamente in una forma che non può non ricordare il formato-barzelletta, non deve sorprendere. Sokurov intende portare l’ispirazione dantesca fino in fondo: se commistione alto-basso ha da essere, ben vengano merde pestate, battutacce sulla longevità della regina d’Inghilterra, water con tre sciacquoni che riportano sulla terra la maestà celeste di un imponente complesso monumentale in pietra bianca, e così via.
Alla fin fine, la Divina Commedia è una commedia. E fa ridere, e forse un po’ pena, il tentativo, da parte di chi detiene il Potere, di tagliare corto con l’infinita attesa della resurrezione di Gesù Cristo per ricongiungere invece a forza Uomo e Dio, scimmiottando l’onnipotenza del secondo. Anche perché queste quattro figurine che hanno devastato il ventesimo secolo non sono, per Sokurov, che pallidi, tardi simulacri di uno che invece a cambiare il mondo c’è riuscito una volta per tutte nel secolo precedente, in un modo che non può più essere riprodotto una seconda volta: Napoleone. Solo a lui è concesso di affiancare il padreterno in un paradiso biancastro che in fondo non è che semplice esistenza post-storica, e infatti ad affiancarlo a propria volta sarà Churchill: sarà il “suo” Occidente a guida anglosassone ad approfittare del massacro della Seconda Guerra Mondiale per ergersi a potenza dominante mondiale e, di lì a poco, propagare l’illusione della “fine della Storia”. Che è e rimane illusione, naturalmente. Lo si ripete più volte nel film: torneranno i dittatori, torneranno le masse infoiate, torneranno i massacri. La Storia non finisce senza ricominciare eternamente.
Ma per un film come questo, parlare di Storia come se fosse separata dalle tassonomie pre-scientifiche medievali non avrebbe senso. Stalin ha un bel credere che quanto vede intorno a sé nell’oltretomba sia comunismo realizzato: attraverso dialoghi che si rincorrono slegati, sconnessi e quasi balbettanti in nebulosa spirale, trapela (di nuovo assai dantescamente) che fascismo e comunismo sono due diversi modi di realizzare in terra la visione divina. E la visione divina identificata dal Sokurov che guarda a Dante è un comunismo della materia: liquidi, gas, solidi, minerali, infrastrutture architettoniche (porte, finestre etc.), organismi e inorganico si compenetrano senza soluzione di continuità. I capi di Stato cominciano il loro vagare in ambienti che risentono fortissimamente della fisionomia umana, con massicci petrosi in cui sono incastonate le fattezze di volti, rami che sembrano gambe pelose e rovi giganti intrecciati fino a formare cunicoli che assomigliano all’interno dello scheletro; poi, però, la sfida da loro lanciata al cielo porta a polarizzarsi da un lato le masse umane informi, oceani di ombre ondeggianti (ma anche lo stesso Napoleone è nulla più di un’ombra), e dall’altro il sogno totalitario per eccellenza di un umano perfettamente integrato all’architettonico a propria volta integrato nella natura, con i quattro protagonisti arroccati in un imponente sistema di squadratissime rocce bianche a fare da immenso palazzo imperiale. Ma non sarà l’uomo a imporre alla materia un nuovo ordine: un’umanità che ignora il monito teologico di Malevich (espressamente citato in uno dei passaggi più stupefacenti del film) circa l’illusorietà della spazializzazione (ovvero di una distinzione tra due e tre dimensioni) non potrà che ficcarsi nel catartico massacro della Seconda Guerra Mondiale e nel conseguente ritorno al punto di partenza, con la commistione inestricabile tra i regni della materia. Volgendosi indietro per guardare all’estetica dantesca dal punto di vista di un presente in cui il Potere, al termine della sua corsa, è vicino a dissolversi, con la resurrezione a portata di click su di un qualsiasi computer casalingo (Fairytale in pratica rianima footage fotografico dei capi di Stato facendoli fare cose ex novo su uno sfondo pittoricamente creato in computer grafica, in uno sfacciato “deepfake” ottenuto con mezzi che non hanno bisogno di essere più che artigianali per dotarsi di efficacia visuale), Sokurov la tende come un elastico fino ad arrivare a un Rabelais senza più ottimismo proto-illuminista: mollata così la presa, l’elastico si riavvolge violentemente fino a tornare alla Commedia.
Orfano della propria illusione, condannato a vagare in uno spazio senza cardini orientativi che sembra non avere inizio né fine, dove lo status della materia, come esemplificato dalle onnipresenti nebbie e rovine, è strutturalmente intermedio e dunque impermeabile a qualunque forma si voglia imprimergli stabilmente, al Potere non rimane che la futilità. E meravigliosamente futili sembrano i milioni di svolazzi pittorici compulsati dal digitale sokuroviano, mentre Napoleone, rimirando Stalin attraverso la porta socchiusa del paradiso, non ha di meglio da chiedergli che quale sia il suo parrucchiere.