Come capiamo che il cinema di Noè è un cine-paura? Non un cinema horror, ma un cine-spavento come il cine-pugno dell’esperienza sovietica?
Lux Aeterna, presentato a Cannes nel 2019, è tornato in sala a Milano grazie alla retrospettiva dedicata dal Cinema Beltrade, proprio perché accostarsi a Noè significa abbracciare un’intera filmografia, un modo di pensare cinema unico e non frammentabile. Perché, allora, parliamo di cine-paura? Il film non è ancora iniziato, la pellicola non è ancora messa in bobina, il file non è avviato ed ecco che sullo schermo compare: Attenzione “non adatto ai soggetti che soffrono di attacchi epilettici”. E subito dopo Dostoevskij raddoppia: “siete tutti in buona salute, ma non potreste mai immaginare la felicità che prova l’epilettico un secondo prima della crisi. Tutta la felicità di una vita non la cambierei mai con questa, per niente al mondo”. Cine-paura, e se io spettatore non sono a conoscenza di soffrire di epilessia? Il dubbio, cine-spavento. È sull’extradiegetico che Noè inizia il film. Un film da body horror (che con Noè sperimenta sul pubblico e non sui personaggi) in cui il corpo attoriale è un corpo consapevole del suo ruolo (i ballerini di Climax, Gainsbourg e Dalle) e che diventa corpo orrorifico non nel contesto drammaturgico, ma nella resistenza del corpo-spettatore. Chi guarda soffre e resiste con il corpo attoriale che è spogliato di sé e dal suo ruolo, per restare solo un involucro resistente, affaticato.
Alcune sequenze di Dies Irae di Dreyer anticipano il tema, ma Noè si discosta dalla finzione in Lux Aeterna per seguire uno schema puramente meta cinematografico (come era già successo in Climax), in cui Charlotte Gainsbourg e Béatrice Dalle interpretano loro stesse mentre si preparano a recitare in un film incentrato sulla persecuzione delle streghe in chiave pop. L’incipit del film le mostra intente a chiacchierare davanti al camino acceso, con uno splitscreen (che poi avrà il suo naturale sviluppo in Vortex) che provoca un doppio straniamento: in primis la scissione dello schermo che forza lo sguardo, lo sfida di nuovo, per allargare, stropicciare, infastidire la visione provocando nuovi modi di detournare il punto di vista, e in secundis l’evasione dalla drammaturgia portata avanti come consapevolezza che il discorso tra Dalle e Gainsbourg è preso di peso dalla realtà; non sono personaggi, quindi, ma attori (tanto che l’episodio dell’eiaculazione che racconta Gainsbourg è riconducibile al set di Nymphomaniac).
Un sfida per il pubblico che in Lux Aeterna prende forma della luce (stroboscopica, in costante intermittenza ad alta frequenza) da cui il cinema proviene, e da qui Gaspar Noè parte per rimodellare un discorso cinematografico sulla rottura del linguaggio e sulla consapevolezza del proprio sguardo. Se la luce crea il cinema, allora per Noè solo la luce può distruggerlo.
Prima l’arte, poi l’industria. Prima il regista-narciso che lavora e sfida il pubblico a idolatrarlo e poi il film; per questo in Lux Aeterna il film non esiste se non nella sua dimensione extradiegetica. Il film è l’assenza del film stesso, è il meccanismo consapevole di sé stesso, è verità nella finzione e finzione a servizio della verità, è il regista-eccesso così narcisista che non deve avere una trama, è l’arte prima dell’opera, il set prima del film, l’idea prima della persona e il corpo prima del pensiero. Un’operazione meta cinematografica/ meta teatrale che prima parla a chi guarda (per l’ego) e poi a sé stesso. Un cinema che disvela il suo mistero si spoglia della possibilità di perdersi nel racconto, rompe la magia dell’immedesimazione e ci lascia consapevoli del nostro destino di osservatori, al giuoco del regista. Ecco che allora il film diventa quasi una sevizia sensoriale che il corpo subisce (dieci minuti di luci stroboscopiche che si alternano: blu, bianco, rosso). Attenzione però, il cinema-eccesso di Noè che aspira alla transitorietà dell’arte non può esistere se non nell’eternità del cinema (a cui aspira, e per questo cita Dreyer, Fassbinder, JLG).
Quello di Noè è un cinema post-moderno perché privilegia l’eccentrico, l’atipico, il difforme. Ne è attratto, li corteggia, quando può lo produce. Cercando non più lo shock benjaminiano, ma l’eccitazione jamesoniana, cioè l’alto e il basso sensoriale, la vitamina emotiva, l’allegria allucinatoria, senza mai prendersi troppo sul serio. Tanto che nelle immagini in cui siamo costretti a stare davanti al dolore degli altri, Sontag si chiede “la gente vuole piangere, ma è altrettanto vero che la gente vuole inorridire?” La risposta è si, il ché dimostra che per un cinema come quello di Noè, dove il dolore trapassa l’immagine e non è più “davanti gli altri”, la visione è pura esperienza fisica: seduti sì, ma sofferenti. Allora, forse, il futuro immaginato da Cronenberg in Crimes of the future, il sesso direttamente proporzionale al dolore degli altri, è più prossimo di quanto pensiamo.