Nella Mostra del novantesimo anniversario è stato presentato un film tratto da Don DeLillo. E no, non era la baracconata d’apertura White Noise. Era In viaggio. Certo, l’ultima opera di Gianfranco Rosi non adatta nessun libro specifico dell’autore americano – ma lo stile di quest’ultimo non è poi così lontano da quello di Rosi (e dal montaggio di Quadri). De Lillo è l’unico ad aver capito che il mondo globalizzato post-89 (quello immortalato definitivamente da Underworld) era anche la fine, e non solo il compimento, della postmodernità. E che dunque si rendeva fisiologico il ritorno alla vecchia dicotomia romantica tra il frammento e la totalità, che nulla come lo stile ellittico di DeLillo sa riattualizzare.
Come (fra gli altri) Sacro GRA, In viaggio ha una struttura circolare e ricorsiva, agevolmente divisibile in segmenti di analoga conformazione: al netto delle salutari variazioni, ogni viaggio del Pontefice risponde a uno schema più o meno fisso: le ali di folla, il discorso etc. Come è naturale che sia con il documentarista più efficacemente formalista del cinema italiano, il vero protagonista de In viaggio non è tanto il Papa, ma la propria stessa struttura, che con la sua circolarità e ricorsività riproduce un movimento che, più che raggiungere una serie di destinazioni sparse per il pianeta, idealmente mima il girare più volte intorno al globo. Ma se da un lato il pianeta viene alluso come sistema totale tramite la forma, dall’altro a ogni nuova inquadratura si apre un nuovo mondo, poiché tutte o quasi sono contraddistinte da un elevatissimo grado di indipendenza formale.
All’interno di questo paradosso neoromantico del frammento e della totalità, che è la globalizzazione secondo Rosi (e DeLillo), non esistono tanto soggetti, ma forze dotate di un grado diverso di autocoscienza. Il Papa stesso non è tanto un uomo politico, quanto una delle forze interne al sistema-pianeta globalizzato, dotate di particolare autocoscienza – e dunque, come conseguenza di questa, anche di una esplosiva soggettività politica: sui tanti esempi del caso spicca l’atteggiamento verso i sospetti di pedofilia che colpiscono una parte significativa del clero, e rispetto a cui Bergoglio non ha paura di affondare la lama nel vivo dei conflitti nel momento stesso in cui ne ricuce le ferite. All’estremo opposto dello spettro delle forze che popolano la globalizzazione, c’è quella a cui l’autocoscienza (e dunque la soggettività politica) viene violentemente sottratta: i migranti. È dunque naturale che l’altra presenza forte, fortissima del film siano loro: tra la potenza politica del Papa, player del mondo globalizzato così decisivo da spingersi al limite della sua stessa orbita (uno dei momenti principali del film è senz’altro il collegamento con gli astronauti in diretta Zoom dentro la loro navicella), e la forzata impotenza dei migranti che non possono che essere passivi rispetto ai flussi globali, In viaggio cerca di dispiegare il ventaglio delle possibilità di una dimensione politica dentro la globalizzazione. Possibilità che nasce dal fatto che la totalità non è una prigione: ogni frammento riscrive e ripartorisce il Tutto. Possibilità che è semplicemente un sottoprodotto dello spostamento fisico. Il percorso è tutto, e il luogo tende a diventare intercambiabile e dunque indifferente, cioè nulla (inevitabile climax del film: piazza San Pietro vuota durante il Covid). La coscienza, e dunque l’agire politico, nasce dal movimento. Esiste una verità più cinematografica di questa?