GOOD TIMES / BAD TIMES è un faccia a faccia redazionale intorno allo stesso film, due visioni opposte per suggerire uno sguardo più ampio e mai scontato sul cinema.
GOOD TIMES: Every cloud has a sylver lining
Finalmente un segnale. Un corpo è comparso di nuovo nel cinema americano commerciale, nel blockbuster americano. Va a cavallo, veste una felpa arancio, ha il volto di Danyel Kaluuya. Ma Danyel Kaluuya non c’entra nulla (la prova è ottima, ma non è questo il discorso, non si tratta di politique des acteurs): c’entrano le immagini, l’istantaneo cedimento della loro distaccata virtualità, della loro sempre più autoconsapevole musealizzazione. Era da tempo che non si trovava un corpo al centro di tutta la giostra spettacolare – è sempre opportuno ricordare che il più grande incasso della storia del cinema contemporaneo è un film sul concetto di avatar corporeo; non però come controparte tematica (di corpi trasformati in temi e messaggi è sempre più pieno il cinema tutto, e l’inflazione esponenziale di luoghi critici come “film politico sul corpo” è lì a certificarlo), ma come chiave esperienziale: il corpo in movimento nella sua urgente, imminente forza d’azione, il corpo come oggetto di mediazione tra l’immagine proiettata e l’esperienza percettiva spettatoriale (era questa la lezione di Spielberg e di Carpenter), il corpo come prima occasione di innervazione del senso, il corpo come pezzo di rappresentazione magicamente ribaltato in pezzo di realtà.
Jordan Peele ha intuito questo con Nope (anche se tutta la sua trilogia d’esordio è dichiaratamente sul corpo), ha intuito che nel contesto cultural-industriale di progressivo abbandono dei corpi da parte degli immaginari (il secondo più grande incasso del cinema contemporaneo, momento cardine del palinsesto produttivo più legittimato dalle nuove generazioni, è un film sul trauma collettivo della dissoluzione dei corpi in un blip) l’opportunità sempre meno designata per rifondare i discorsi, cinematografici, sociali, politici e renderli comunicabili, era quella di riconoscere nel corpo in movimento una “nuova” matrice espressiva, in grado di azzerare e rigenerare i codici più irreggimentati, quelli dove non sembra più esserci manovra disponibile per un rinnovamento. In questa storia di cowboy contro alieni che è Nope, Peele mostra come basti un corpo in movimento a mandare in cortocircuito i programmi storici del cinema americano (pre Lumière e post digitale): prende i due generi maggiormente codificati, i codici con il catalogo più ricco, e li porta a un’indistinzione inedita (spesso cercata ma anche spesso fallimentare, malgrado tutti gli estroversi sforzi industriali), a un punto di convergenza che presto si istanzia come una nuova ibrida mostruosità.
È lì, dove i connotati del western incontrano guancia contro guancia, occhio contro occhio, i connotati della fantascienza, ecco, è lì che Peele fa muovere il corpo: il western, genere della riscrittura continua, della continua riformulazione dello stesso segno, dell’infinitesimale variazione sul già dato, genere insomma dell’attuazione continua rispetto a possibilità limitate si fonde con la fantascienza, genere di polo opposto, quello in cui il segno non deve essere ripetuto (conformemente alle ormai limitate possibilità dell’immaginazione) ma scoperto, sempre di nuovo inventato fuori dai confini del possibile, sempre di nuovo generato in un vuoto inesplorato, il genere che è piena possibilità di fronte a un’attuazione limitata. Nell’incrocio inaspettatamente generativo di due codici che trattano il corpo in senso opposto il corpo stesso non solo riconfigura, ma è riconfigurato in un solo colpo come il segno che è da sempre visitato e da sempre infinitamente visitabile e allo stesso tempo, il segno inesplorato e mai del tutto completamente esplorabile: il corpo è western e sci-fi, o più specificamente, l’oggetto alieno e l’oggetto di contesa (non è forse suo proprio il mistero che da sempre l’immagine ha cercato di colonizzare e tuttavia non è mai riuscita a catturare del tutto, il mistero del movimento?). Moltissimo è già stato detto sulla fotografia che chiude il film, sul suo peso analogico, sulla sua natura d’impronta, ma il corpo non concede discorsi completi, smentisce le appropriazioni e le definizioni, perché il corpo (di cui l’animalità citata altrove non pare che un sinonimo) è il punto che rimane sempre cieco nella piena sovraesposizione – è questo abisso di senso disposto nel pieno della luce meridiana fare paura, e non una qualche minaccia jumpscare, non una qualche avventura: l’abisso generato da ciò che ci è assolutamente famigliare e invece si rivela sconosciuto.
Il corpo è in questo senso imprendibile, e quindi una contromisura dei poteri; è il contropotere, che riscrive le possibilità dell’immaginario semplicemente con la propria carica performativa, agente. Sarebbe proprio l’agency del corpo-immagine (lo stato di vitalità delle immagini, su cui ha lavorato Horst Bredekamp) a fendere la cortina anestetica dello spettacolo americano e a fare precipitare la teoria-cinema in una sensazione, tramite cui il cinema e i suoi discorsi sono sentiti prima che compresi. Questa forma di vitalità immersa nella desertificazione dei “contenuti”, tra le immagini ad allevamento intensivo, inizia a diffondersi sempre di più, ora che alcuni autori americani hanno deciso di operare dentro alla struttura del blockbuster – si pensi, recentemente, al senso delle soggettive in The Batman. Anche nella sua crisi, il cinema commerciale americano fa intravedere possibilità di sovvertimento, forme di coscienza nel frastuono: in effetti, qualcosa che sembra troppo fermo (una nuvola? Un cavallo?) forse in realtà si sta muovendo. [Leonardo Strano]
BAD TIMES: Per tutti i gusti
Prima di addentrarsi nell’analisi di un film complesso e stratificato come Nope credo sia opportuno porre una premessa storica e sociologica, che ad alcuni potrà sembrare scontata, ma che si nasconde, neanche troppo velatamente, in ogni sequenza dell’ultimo lungometraggio di Jordan Peele: oggi non ha alcun senso distinguere ancora tra cultura alta e cultura bassa. Come teorizzato da Bauman nel 2011, la caratterizzazione dell’opera artistica nel ventunesimo secolo comprende estensioni che fino ai primi decenni del ventesimo non sarebbero state erette a status di legittima rappresentazione creativa neanche nei sogni più fervidi del più scatenato fruitore o fruitrice. Questo aspetto comporta aspetti positivi, come la democratizzazione dell’arte e la sua conseguente apertura verso confini inaspettati, ma anche caratterizzazioni negative, come la totale arbitrarietà della dialettica artistica e la conseguente fusione tra ciò che può costruire il discorso e ciò che invece lo può distruggere. La strada da seguire, da recuperare, di fronte a questo scenario così nuovo e così straniante, che spesso rende l’oggetto culturale estremamente sfuggente, è una differenza fondamentale tra tranquillante e stimolante: è quello che fai della cultura che hai ciò che conta, è come quello di cui fruisci viene trasformato nella tua vita, la cosa importante. Per cui, diciamolo a scanso di equivoci anche in questa sede, ben venga tutto, purché questo tutto sia in grado di trasformare. In questo senso naturalmente non si tratta di dimenticare tutta la tradizione culturale europea, di dimenticare la filosofia, di dimenticare un metodo di studio, però si tratta di rendersi conto che quel modo di formarsi non esiste più, che un certo approccio da parte dell’élite culturale nei confronti delle persone che non hanno lo stesso “accumulo culturale” non ha più senso. Chi pensa che ci sia ancora questa distanza non si è reso conto di che cosa è diventato il mondo.
Affiancandosi a questa riflessione Pelee mette in scena la storia della famiglia Haywood e dello scontro-confronto (in quest’ordine) con il disco volante-animale (ancora in quest’ordine). Partendo dall’impianto squisitamente nazional popolare dell’horror di cassetta, come nelle due opere precedenti, il film si dirama su innumerevoli discorsi tematici, diventando di fatto una summa di quasi tutti i discorsi sulla visione nella contemporaneità.
- C’è il discorso sull’ecologia (e archeologia) dell’immagine – al centro di molto cinema americano recente (per lo meno da Birdman in poi) – portato avanti dal vortice di generi e sottogeneri che in Nope si alternano in ogni sequenza, dall’horror appunto, passando per il mistery d’autore (una derivazione volutamente manifesta di un certo sense of wonder spielberghiano che parte e si ferma su Incontri ravvicinati del terzo tipo), fino ad arrivare senza colpo ferire al western, il cinema americano per eccellenza (anch’esso tradito ed eccellentemente trafugato da derivazioni europee, per puntualizzare). In questo senso è perfetta e calzante l’interpretazione data nell’ottimo articolo di Pietro Masciullo su Sentieri Selvaggi: “Questa volta Daniel Kaluuya scappa da una cosa aliena che lo bracca cercando di sedurre il suo sguardo; il giovane ferma la sua auto, si sporge appena dallo sportello per guardare, poi abbassa gli occhi e dice letteralmente: “Nope!“. Pensiamoci. La torrida atmosfera notturna, il furgone in una strada di campagna e l’imponente presenza aliena dall’alto fanno venire in mente una speculare sequenza di Incontri ravvicinarti del terzo tipo nella quale, però, Richard Dreyfuss si sporge fiducioso da quello stesso finestrino guardando con estatica beatitudine la nave aliena che fluttua sulla sua testa. Insomma, cos’è successo nel frattempo a Hollywood per doverci ossessivamente ricordare quant’è pericoloso guardare in alto? Don’t Look Up, appunto…” In questo senso quindi il rifiuto nei confronti di un’immagine che decenni fa aveva ancora dei vuoti da riempire è diventato l’unico sentiero percorribile per non incappare nella retorica del riciclo, buono per andare da Oprah insomma. Da qui il dietro front, dal digitale alla pellicola, dalla pellicola al zooprassinoscopio, fino ad arrivare, nell’ultima sequenza, alla fotografia, a quell’assenza del fotografo che si sottrae allo sguardo soggettivo, a differenza del suo predecessore, il pittore.
- C’è il discorso sull’animalità e sulla necessità di superare lo sguardo antropocentrico. In questo senso questo guardare in alto si contrappone al guardare davanti a sé, proprio dei cavalli, che nel film sembrano ben più consapevoli degli umani rispetto a ciò che sta per accadere. Guardare in alto alla ricerca di forme di vita che concepiscono il tempo e lo spazio diversamente da noi, che coltivano un mistero più grande, senza sapere che in realtà questa trascendenza è già racchiusa nell’immanenza del mistero animale (lo stesso mistero su cui ci si interroga quando la scimmia Gordy dopo aver massacrato tutto il cast della sitcom Gordy’s Home decide di dare amichevolmente il pugno al piccolo piccolo Ricky), è un atto di arroganza che evidenzia la ragione, il raziocinio, come uno svantaggio, piuttosto che come un’occasione per andare oltre noi stessi. Non per niente il cinema delle primissime origini, il zooprassinoscopio appunto, raffigura un cavallo, come spiega molto bene Pietro Bianchi in un altro ottimo articolo su Film Tv: “Perché il mistero di Nope non è quello di un alieno umanizzato di cui dobbiamo scoprire le motivazioni (non c’è segreto – Peele ce lo mostra da subito dalla sua “pancia” interna), ma quello di un’animalità enigmatica proprio perché inappropriabile.”
- C’è infine il discorso sulla sostituzione del corpo attoriale (su cui troverete sterminata letteratura ovunque), sulla messa in luce di un cinema afroamericano che conquista il centro della scena (a morire sono i bianchi e i servitori dei bianchi, e quindi dello spettacolo e dell’immagine) e guardandosi indietro ristabilisce la sua storia (un accenno leggero alla legittimità o meno della cancel culture?) rivalutandosi e riposizionando ciò che prima era stato nascosto dal potere della classe dominante. Inoltre, parallelo allo scarto accennato prima sul percorso a ritroso da cinema a fotografia, un discorso su chi sia effettivamente il protagonista di questo film si compie nel finale proprio nel momento in cui è la sorella di chi pensavamo fosse il protagonista a compiere il gesto salvifico dello scatto fotografico, confermando così diversi indizi disseminati precedentemente. A guadagnarsi i riflettori non solo non è il maschio bianco, ma nemmeno il maschio tout court. In realtà qui Peele lascia un enigma nell’ultimissima inquadratura. A cavallo arriva sì l’uomo, ma salvato dalla donna. E se a uscirne fuori fosse solamente la persona e non il genere a cui appartiene?
Ritorniamo ora al discorso sull’orizzontalità dell’arte e sulla virtù del suo utilizzo. Nope sembrerebbe compiere attraverso l’uso della pop culture e del cinema come intrattenimento un discorso tra i più alti e completi di molta della cultura socio politica contemporanea. Peele getta un ponte tra due estremi e a tratti trasforma il suo film in un video essay sui retaggi culturali e sui loro riflessi su ciò che sarà della settima arte. Molto ambizioso.
Il sentiero sembra tracciato. Ma in soccorso di una mia latente insofferenza durante la visione viene un paradosso che è stato elaborato ultimamente da Harari, il paradosso della conoscenza. Secondo questo assunto una conoscenza che non è in grado di modificare i comportamenti non serve a niente. Ma una conoscenza che riesce a cambiare effettivamente le cose vede svanire subito la possibilità di avere presa sulla realtà, perché nel frattempo questa realtà è già cambiata proprio a causa dell’azione di questa conoscenza sul mondo. Più dati raccolgo, più ho una comprensione della Storia, ma in questo modo la Storia cambia corso, e di conseguenza la nostra conoscenza diventa desueta. Più la conoscenza dell’essere umano avanza, più è costretta a rinnovarsi.
Sì, è proprio questa la sensazione che ho avuto guardando Nope. Una corsa sfrenata verso l’attualità dei discorsi. Un copia-incolla metodico ma anche maniacale del sottotesto sulla narrazione. I personaggi si muovono esclusivamente manovrati dalle speculazioni teoriche di cui sopra, senza che il compimento di questo esperimento si completi godardianamente (“questo frame non può contenermi”, per intenderci). Il discorso metacinematografico in questo senso finisce per inaridire la linfa drammaturgica, che rimaneva presente e attiva in un film come Get out, infinitamente più semplice ma anche più efficace nella sua linearità che non usciva dal genere, pur muovendocisi dentro con atti dislocatori e inediti.
La spinta performativa nel voler agguantare tutte le istanze crea involontariamente un’alienazione che genera un oggetto d’arte distante da un senso rizomatico e pericolosamente vicino all’arborescenza che, credo, Peele voglia evitare consciamente, ma che inconsciamente ricerchi per potersi guadagnare un posto nel Ghota della politique des auteurs contemporanea.
Epigono di un certo vizio del cinema contemporaneo, Nope diventa un oggetto ambiguo che non ricerca nello spettatore il giudizio di valore ma solo l’inseguimento del senso. Ma quale spettatore trova con questo metodo? Forse solo quelli che leggeranno questo articolo fino in fondo, o forse neanche loro. Cultura alta. [Mario Blaconà]