Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose
al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole;
in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e
questa enorme casa, ma non me ne ricordo.
La casa di Asterione, Jorge Luis Borges
Silenzio assoluto in sala. Lo si raccomanda al Locarno Film Festival appena prima della visione di Asterión di Francesco Montagner, presentato nel concorso Corti d’autore dei Pardi di domani. Un avvertimento al pubblico che sembra dire: fate attenzione, non siate passivi, non guardate solo le immagini, predisponetevi a un’altra forma di ascolto. Asterión stordisce, fomenta, richiede uno sguardo attivo e una certa dose di autocontrollo per un corto (15 minuti) che esige molto dallo spettatore. Anche per questo il film di Montagner si fa portatore di un ribaltamento: si cambia il punto di vista, a partire dal racconto di Borges, La casa di Asterione, dove il minotauro da carnefice diventa vittima di Teseo, che a sua volta si fa incarnazione di un male culturale ed ereditario. Da qui un passo ulteriore che riguarda le questioni di genere, rivelandosi motore per parlare del maschile: chi meglio di un giovane autore per iniziare a ragionare sul proprio ruolo rispetto al mondo e alla mascolinità? Così il minotauro, rappresentazione animalesca del “macho” e del maschilismo tossico, viene qui dissezionato, frammentato fisicamente (il protagonista umano è un tassidermista), condizionando anche la forma del film (la discretizzazione del montaggio), per far posto ad una visione più sottile sulla mascolinità e i suoi fantasmi. Il rapporto uomo/animale, retto da verticali simboliche di potere, in Asterión diventa un rituale febbrile e silenzioso che incita al ragionamento attraverso il rapporto morboso tra lo sguardo umano (quasi un superocchio) e la carne. E se la relazione tra l’uomo e l’animale affonda le radici in un mondo arcaico, pre-pagano, dove le viscere sono usate per predire il futuro e le teste indossate per rituali di trasfigurazione, come se la carne nascondesse dentro di sé un segreto, oggi sembra vano il gesto dell’uomo che cerca di impossessarsi di un sapere sconosciuto per diventare un Superuomo. Una cultura cucita su pelle, un potere che è questione culturale e che cerchiamo di indossare forzando ogni possibile natura personale, ma che si rivela presto vuoto. Asterión si colloca pienamente nella contemporaneità, in uno spazio ben definito (la corrida, ancora oggi teatro di spettacolarizzazione della violenza) e secondo un orientamento ben preciso (che incamera anche la riflessione di genere). Un cinema che sperimenta davvero con le immagini, che lavora sul pubblico avviando un meccanismo di presa di coscienza vivida del proprio sguardo. Intervistiamo il regista nel tentativo di verificare e approfondire queste percezioni.
IS: Da dove arriva l’idea di Asterión?
FM: Il progetto è nato come un lavoro scolastico iniziato molti anni fa. Dovevamo realizzare una poesia filmica, e ho trovato interessante unire la tassidermia taurina, che fanno sui tori in Spagna, con il racconto di Borges in cui il minotauro da antagonista diventa protagonista, da rappresentante di un’aggressività virile diventa figura docile e dimostra che era Teseo il vero mostro. Questa cosa mi ha ispirato, e ho iniziato a ragionare sul processo della tassidermia collegandola con il mito mediterraneo del toro.
IS: Il tuo modo di fare cinema non trova una continuità stilistica, ma tu porti avanti una ricerca concettuale ben precisa cercando di ragionare sul maschile. Ti ritrovi in questa lettura?
FM: Non sento la necessità di essere un cineasta che viene riconosciuto per uno stile preciso, mi piace sperimentare. Mi è piaciuto lavorare su Asterión perché a differenza di Brotherhood ero molto più libero da logiche di narrazione. Brotherhood, in questo senso, era più un romanzo. Invece Asterión l’ho pensato più come un artista che un cineasta. Se un cineasta prima pensa e poi realizza, invece con Asterión filmare è stato una scoperta, un atto istintivo. Sicuramente ci sono delle tematiche che continuano: tornano la mascolinità e il rapporto con l’animale, infatti il tassidermista cerca di diventare il toro, di assumerne le fattezze generando così un’immagine di morte.
IS: In Asterión emerge un punto di vista sulla decostruzione del maschile. Come hai lavorato con la decostruzione dello sguardo e perché essa passa da un’estetizzazione dello smembramento animale e del suo carico di violenza?
FM: Nell’atto del tassidermista non ci vedo violenza, ma una forma di amore tossico. Il toro nel film muore di sua propria natura, l’uomo e il toro condividono due destini fatali e soffrono della propria natura irrequieta. È una violenza che entrambi compiono contro sé stessi nella volontà di trasformarsi in qualcosa che non si è. Se prendiamo la mascolinità machista, quella di Marlon Brando per esempio, e la dissezioniamo, poi non troviamo altro che un guscio vuoto.
IS: C’è una grossa componente metaforica nel montaggio, una discretizzazione delle immagini, il frammento usato che riflette la potenza del concetto; tutto in assoluto silenzio. Che ruolo ha giocato, anche a questo proposito, l’utilizzo della Bolex?
FM: L’ispirazione per questo lavoro sono stati i film di Stan Brakhage come Window Water Baby Moving (1959). Volevo utilizzare il concetto della frammentazione e lavorare sulle mani: il tassidermista è l’uomo e quindi volevo frammentare l’immagine così come l’uomo disseziona il toro. Volevo che fosse come una poesia la cui logica si rifà più alla trasmissione di memorie, di proiezioni. Mi piaceva lavorare con il concetto cubista. Il suono avrebbe rubato astrazione alle immagini. Se il film è muto diamo più peso alla metafora delle immagini e siccome tutto il film lavora sul significato simbolico, poteva funzionare molto di più dei suoni. Sentire che in sala la persona di fianco a te muta il respiro in base alle immagini: anche questo mi interessava. La Bolex è prima di tutto una camera accessibile, e poi il suo utilizzo investe una questione stilistica: volevo un certo tipo di sporcatura, crudezza e imperfezione delle immagini. È una di quelle macchine senza tempo che garantisce un rapporto immediato con le immagini.
IS: Esiste una teoria femminista derivante da un libro, Carne da macello, la politica sessuale della carne, in cui l’autrice Carol J. Adams mette in relazione il consumo di carne e la sua rappresentazione commerciale con l’oggettificazione e la sessualizzazione della donna. Quindi consumo di carne si associa al machismo. Il toro è una vittima perché assoggettato da un potere, in questo caso quello dello spettacolo. Tutto questo per dire che la sofferenza animale è qualcosa di molto caro al femminismo intersezionale. Come hai riflettuto rispetto a questo? L’animale è comunque sconfitto, nonostante possa sembrare metaforicamente una rappresentazione del potere.
FM: Anche l’animale, come il corpo femminile, è spesso oggetto delle pratiche di spettacolarizzazione. Trasformare il concetto del minotauro e trasporlo nel contemporaneo sottende secondo me la fine di un’era: della mascolinità, così come della corrida. Il maschio contemporaneo deve confrontarsi con il passato; anche da maschi viviamo in un immaginario di mascolinità di un certo tipo. Ho lasciato il corto volutamente ambiguo e universale per dare diverse letture. Mi piace sempre prendere dal reale, partire da un cinema della realtà e poi farlo mio trasformandolo in un discorso personale. La tassidermia cerca di dare vita alla morte, ma non possiamo vincere questa battaglia perché creiamo una forma vuota. Forse è arrivato il momento di oggettificare il corpo maschile, metterlo nel mirino e provare a capire come lavorare su noi stessi.