Il trentacinquenne azero Hilal Baydarov ha presentato nel Concorso internazionale del 75° Locarno Film Festival il suo nuovo film, Sermon to the Fish, primo capitolo di una trilogia composta dai futuri Sermon to the Birds e Sermon to the Void. Autore di un cinema lirico e solo apparentemente disfattista, Baydarov studia durante gli anni del liceo informatica e matematica, vincendo di quest’ultima per ben due volte i campionati nazionali. Nel 2011 guida la squadra azera alle Olimpiadi dell’informatica. Due anni più tardi si reca in Bosnia per studiare alla Sarajevo Film Factory sotto la guida di Béla Tarr. In Between Dying (2020) viene presentato in concorso alla 77ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Senza nemmeno avere il tempo di porre la nostra prima domanda, Baydarov ci chiede:
HB: Posso farvi una domanda? Vi è piaciuto il mio film?
DP: Siamo qui proprio per questo!
HB: Perché le persone guardano i miei film e li definiscono “film noiosi”. Quando avevo venticinque anni mi piaceva guardare questo tipo di film. Una volta sono andato al cinema con la mia ragazza. Abbiamo guardato un film di Abbas Kiarostami, ha dormito. Poi l’ho invitata a un film di Bergman, ha dormito. Così ho detto, ok, invitami a qualsiasi cosa tu voglia. Siamo andati a guardare Spiderman, ho dormito. Davvero, non so come spiegarlo. Tutti vogliono andare a vedere questo tipo di film. Non sono contro Hollywood, non voglio criticare questi film. Quando c’è questo “cut, cut, cut…” per me è tutto troppo veloce e mi stanco molto. Ma quando tutto è lento e va piano, sento che c’è una distanza tra me e l’immagine. Il regista non vuole importi qualcosa come se il suo ego fosse superiore al tuo e tu debba obbedirgli. Credo che questo non riguardi l’età perché adesso ho trentacinque anni e sono sicuro che sarò così anche quando ne avrò sessanta, così come ero allo stesso modo quando ne avevo venticinque. Una volta ho chiesto al mio compositore di comporre una canzone. Mi ha chiesto degli esempi. Gli ho mandato Parsifal (1882) di Richard Wagner. Mi ha detto che non era una buona reference. Gli ho chiesto “perché?” e mi ha risposto che questo tipo di musica non era attraente. Gli ho chiesto cosa significasse e mi ha risposto che Wagner componeva come se non ci fosse un pubblico. Poi mi ha fatto ascoltare una canzone della quale capisci in un secondo come sia appositamente composta per te e ti rendi conto che sta venendo verso te, verso il tuo lato. Ma ciò che a me interessa è la distanza che si crea tra te e Wagner e il fatto che tu, in quanto ascoltatore, dovresti andare verso il suo lato, seppur consapevole di non poterlo mai raggiungere data la sua grandiosità. Dovresti comporre qualcosa che rispetti le persone. Abbiamo il dovere di rispettare le persone e di aiutarle. Credo davvero che ci sia un’altra via che possiamo seguire per poter rispettare la dignità umana. Non so nemmeno cosa sia un film lento. Li chiamano arthouse, ma dai, cosa significa davvero arthouse? Paradžanov? Non mi stanca mai. Per me questi sono i film più facili da guardare.
DP: Hai citato due grandi maestri del passato come Kiarostami e Paradžanov. Dato che conosciamo così poco della storia del cinema azero volevo sapere quale fosse la tua connessione con il passato cinematografico del tuo paese.
HB: Come sapete l’Azerbaijan era parte dell’Unione Sovietica e se consideriamo il passato dell’Azerbaijan come parte del passato dell’Unione Sovietica allora abbiamo davvero tantissimi registi che potrei citare. Onestamente però ho un enorme problema con il cinema sovietico in generale a causa della propaganda. Certamente ci sono stati grandi nomi con Tarkovskij, Paradžanov, ma non penso che fossero un prodotto della cultura sovietica bensì il risultato della loro stessa cultura. Se penso al cinema azero penso immediatamente a Huseyn Mehdiyev e Arif Babayev.
DP: E adesso? Ci sono altri registi azeri contemporanei con i quali senti di star condividendo un percorso?
HB: Sì ci sono dei nomi. Credo ci sia anche una nuova generazione in arrivo. Nuovi registi di 25, 26 anni, ma sono soli. Siamo completamente soli. Ricevere supporto, ottenere i fondi, è molto difficile. Credo ci saranno dei nuovi nomi in cinque, sei anni, ma per ora tutti stiamo lottando per fare il film nel quale crediamo. Il destino del cinema in Azerbaijan dipende dai filmmaker. Devono esserci buoni filmmaker per avere del buon cinema, in ogni paese del mondo. Come prima cosa dovremmo avere una buona educazione, poi avremmo bisogno di un posto come una cinémathèque, un luogo nel quale poter guardare i film e incontrarsi l’un l’altro. È importante creare un ambiente nel quale i talenti possano essere coltivati. Sfortunatamente le persone nel mio paese scelgono ingegneria o branche di studio simili, non l’arte.
DP: E qual è la tua più grande lotta, la tua più grande sfida nel fare cinema in Azerbaijan?
HB: Il mio modo di fare cinema è difficile in ogni parte del mondo. Italia, Spagna, Argentina… ho amici in ogni paese e tutti loro lottano. Anche in Francia, registi che riescono a ottenere il supporto dal CNC so quanto debbano lottare davvero. Quando si fanno i cosiddetti “film noiosi” alle persone non piace lavorare con te. Può essere che a qualcuno piaccia guardare il tuo film ma quando inizi a creare, quando hai la prima idea del film sei solo. E in Azerbaijan lo sei cento volte tanto perché non c’è alcuna realtà cinematografica, non ci sono fondi, non c’è nulla quindi sono sempre solo. Ma amo le difficoltà. Le amo. Quando ci sono così tanti ostacoli mi diverto perché so che dovrò superarli. Sono come un problema che aspetta solo di essere risolto e dal quale non puoi fuggire. Per dieci anni tutti i grandi festival hanno rifiutato i miei film. Sette film e ogni festival li ha rifiutati. Così ho ricominciato ancora e ancora e ancora. Ho trovato alcune persone che credessero in me e io in loro così, in qualche maniera, ho trovato un modo per fare film per conto mio, con un budget limitato. Tre persone, tre film. Una trilogia! Il primo è Sermon to the Fish. Adesso ho finito di montare il secondo film. Grosse produzioni richiedono troppi soldi che non posso trovare in Azerbaijan. So di quanto dispongo dunque ragiono per fare il meglio che posso con ciò che ho. Credo anche che il cinema non dipenda da questioni tecniche. Certo hai bisogno dell’attrezzatura ma come la usi dipende dal tuo mondo interiore e quando vedo un mistero in un film indago sempre la testa del filmmaker, non l’aspetto tecnico.
DP: I tuoi film potrebbero essere ambientati ovunque. Non c’è un luogo specifico, non c’è un preciso momento della storia. In questo modo è come se creassi una realtà sospesa e alternativa dal paese in cui vivi e filmi. Qual è la tua relazione tra questo mondo finzionale e l’Azerbaijan?
HB: Ho fatto un film chiamato In Between Dying, ho fatto un film chiamato When the Persimmons Grew (2019), e tutti i miei restanti film sono stati realizzati in Azerbaijan per il semplice fatto che vengo dall’Azerbaijan. Potresti prendere la sceneggiatura di questi film e ambientarla a Taiwan e sarebbe comunque lo stesso film. Potresti ambientarla nelle Filippine, in Vietnam, in Perù o ovunque tu voglia e avresti comunque lo stesso film. Una volta una donna francese mi ha detto che le era piaciuto il mio film perché è presente la tragedia umana. La tragedia umana è universale e credo che In Between Dying lo sia. Cerco di fare film liberi dalle costrizioni di uno specifico luogo fisico.
DP: Durante il Q&A hai menzionato Bresson dicendo di aver ascoltato più volte la colonna sonora di Mouchette (1967) senza guardarne le immagini. Hai anche detto di come per te il suono sia tridimensionale a differenza delle immagini che sono bidimensionali e piatte. Seguendo questo ragionamento, cosa ne pensi, ad esempio, del cinema muto? È sempre stato “piatto” per te?
HB: Credo che il cinema sia nato quando abbiamo trovato il suono. Non credo che il cinema muto sia un cinema completo. Lo amo e lo guardo come chiunque altro ma quando guardo te (indica DP, ndr), sento anche dei suoni e per me questo è cinema. Percepiamo tutto come uno. Non accade mai che ti io ti guardi e non senta dei suoni. No. Il silenzio è molto importante. Tsai Ming-liang per esempio – lo amo molto – sa davvero come usare il silenzio e silenzio non significa assenza di suono. Se togli il suono non è più cinema per me.
SP: Hai anche parlato di Wagner. Wagner creava dei temi molto dilatati quando oggigiorno c’è questa tendenza a creare ritornelli super veloci per catturare l’ascoltatore. Se continuo a pensare al tuo cinema in relazione alla musica penso al minimalismo. È come se tentassi di guardare tra una nota musicale e l’altra, quasi un modo per approcciare l’eternità intesa come concetto matematico di limite. Cos’è per te il minimalismo nel cinema?
HB: Per me un film, come una persona, ha uno spirito interiore, una natura indipendente. Per esempio Sermon to the Fish e In Between Dying hanno due nature completamente differenti. Adesso nel mio nuovo film le canzoni che uso durano nove minuti ciascuna, come una sinfonia che cresce sempre più. Non significa che se uso un determinato tipo di musica a me piaccia necessariamente quello specifico tipo di musica in un dato momento. Dipende dalla natura del film. Il montaggio, le inquadrature, la fotografia, il destino dei personaggi… tutto mi forza a utilizzare un certo tipo di musica perché non puoi andare sopra all’immagine, puoi solo andare nella profondità dell’immagine. E del minimalismo… non so davvero cosa rispondere. Davvero non saprei. Nel 2014 ho fatto un documentario chiamato Nails in my Brain e ogni notte, ogni notte per quattro o cinque ore ascoltavo Arvo Pärt. Lo amo così tanto e probabilmente ho ascoltato ciascuna delle sue composizioni centinaia di volte, ma, non so. Sta tutto nel sentimento per me. Mi piace quando ha un approccio minimalista ma mi piace anche Penderecki, quindi cosa dovrei fare? Mi piace l’arte e l’arte a volte è minimalista, a volte massimalista. Non ci sono restrizioni all’immagine.
DP: Tornando all’inizio della nostra conversazione e ai cosiddetti “film noiosi”, pochi registi oggigiorno chiedono davvero allo spettatore lo sforzo di investire sé stesso e provare una certa “sofferenza” durante la visione di un film. Ma il mio dubbio è, forse un po’ provocativo, durante e dopo la pandemia le persone hanno sofferto molto e potrebbe darsi che non siano più disposte a farlo (e lo erano già poco prima del Covid). Come ti confronti con questo?
HB: Permettimi di dividere la domanda in due e risponderò a entrambe le parti. Primo, proprio non mi piace l’intrattenimento al cinema. Quando guardo qualcosa che appartiene alla categoria dell’intrattenimento, ve l’ho detto, mi annoio. È quasi impossibile per me finire il classico film da 90 minuti. Secondo, non voglio essere maleducato, ma devo dire che non penso mai al pubblico. Quando filmo non potrei mai immaginare che ciò che sto facendo sarà poi un film che verrà mostrato da qualche parte. Filmo sempre quando sento che è il momento di filmare. Mi fermo sempre quando sento che è il momento di fermarsi. Se dovessi pensare al pubblico probabilmente non sarei mai in grado di fare i film che faccio. Non è logica per me un’inquadratura di otto minuti nella quale non succede nulla se non il passare delle nuvole. Le persone si annoierebbero. Lo so. So che c’è stato un cambiamento da prima a dopo la pandemia ma non ho la giusta risposta perché nulla è cambiato per me. Sono ancora la stessa persona, prima e dopo la pandemia e continuo a fare i film nei quali credo, o almeno, ci provo. Può essere che fallirò all’infinito ma questo è il cinema in cui credo. Non è mai la durata. Potrebbe essere un film di nove minuti o di nove ore. Mostrami semplicemente qualcosa con cui possa sentire un’emozione.
SP: La tua pratica di fare cinema è in qualche modo distaccata dalla società e dalla produttività di quest’ultima e questo si riflette nei tuoi film. Ritrai una società al collasso, eppure resistono due esseri umani che riflettono, ognuno a proprio modo, due diversi approcci esistenziali. Il personaggio maschile lotta ancora per sopravvivere e nel far ciò si dedica ad alcune attività primitive come la pesca, il cercare un tetto sotto al quale poter vivere. Al contrario, il personaggio femminile compie attività minime e si dedica completamente alla fede. Qual è stato il tuo processo di scrittura con questi personaggi?
HB: Come prima cosa è importante per me che siano fratello e sorella. La sorella crede nella natura, il fratello crede nelle città. Ho solo diviso me stesso in due, perché metà dell’anno vivo in città e l’altra metà la vivo nelle montagne con mia mamma. In qualche modo volevo scoprire qualcosa in più di me stesso. Lasciate che vi dica qualcosa di molto significativo per me che ho scoperto dopo molti anni. Quando sei nella natura ti senti debole perché le montagne, la pioggia, le pietre sono più forti di te. Non crei queste cose, non hai un controllo su di esse e sei più debole di loro. Ma quando vai in una città, tutto è opera dell’uomo e quindi ti senti come il dio di quel luogo. Ma alla fine diventi senz’anima e non provi più nulla all’interno del mondo che hai creato. È per questo che il fratello muore nella casa che ha costruito mentre la sorella, connessa alla natura, trova l’infinito. Certo la si vede bruciare, muore, ma non è realmente morta. Lei si connette con questa “onda” che esiste dentro ognuno di noi grazie alla quale possiamo sederci assieme e comunicare. Non credo nell’economia, non credo nella religione, non credo nella cultura, credo soltanto in questa stessa anima che ci attraversa tutti quanti. Sento che la natura è più forte, per questo la sorella è più forte.
SP: Qual è il significato del titolo: Sermon to the Fish?
HB: Ho scelto il titolo alla fine della lavorazione del film. Amo la pittura e amo gli artisti del Rinascimento. Amo Masaccio, Piero della Francesca, Giovanni Bellini, Botticelli, Mantegna, Perugino, Raffaello… Ho guardato i loro dipinti milioni di volte e, una volta finito il film, ho visto un dipinto di Paolo Veronese chiamato Predica di sant’Antonio ai pesci (1580-1585) e ho pensato che ci fosse una relazione profonda tra quel dipinto e il mio film perché le persone non credevano in Sant’Antonio, il pesce sì. Il secondo film si intitolerà Sermon to the Birds e il terzo sarà Sermon to the Void.
SP: E qual è stata la prima immagine che ti ha ispirato quando hai iniziato a lavorare a questo film? Hai detto che all’inizio il film non aveva dialoghi e aveva un solo personaggio. Come si è sviluppato da quella versione a quella finale?
HB: Sai a volte mi sento come un pazzo. È ridicolo ma solitamente va così: sono la persona più debole sul set perché sono davvero molto dipendente dai miei attori. Se avessi il tempo di conoscervi meglio probabilmente diventerei dipendente anche da voi. Dico ai miei attori “per favore amico mio, puoi fare questo per me? Per favore guarda da questa parte…” Li percepisco forti e io mi sento debole. Sono in grado di vedere attraverso i loro occhi. Se dico loro di essere sul set alle 10:00 ma arrivano alle 11:00 non dico nulla perché non potrei mai arrabbiarmi con loro. Probabilmente se morissero morirei anch’io. Anche quando inizio con la prima idea del film, comincio con il metter loro all’interno del film. Quando li guardo sono capace di vedere tutto. Ecco perché non c’è sceneggiatura, non ci sono segreti, solo le anime con le quali mi connetto. Ecco perché è così difficile per me lavorare con altri. Prima dobbiamo diventare la stessa persona. Il cinema è una comunità per me. Non so quale immagine sarà la prima, non so quale immagine sarà l’ultima.
DP: Il titolo del terzo film mi interessa particolarmente, Sermon to the Void. Quando pensi a questo vuoto, lo immagini con un’accezione occidentale o orientale? C’è un’enorme differenza nella maniera in cui il vuoto è percepito nelle due culture. Per l’Occidente il vuoto è qualcosa di negativo, distruttivo, per l’Oriente è l’esatto opposto.
HB: Ma voi siete critici? Perché mi date speranza, davvero. Mi pento sempre di fare interviste e quando posso tento di cancellarle ma adesso mi sento molto felice di essere qui con voi. A proposito della tua domanda, credo nella resurrezione. Credo che non nasciamo mai e non moriamo mai. Siamo sempre qui, esistiamo sempre. Non so cosa sia la comparsa, non so cosa sia la scomparsa. Esisto prima e dopo la mia nascita. Siamo tutti la stessa cosa nonostante la mia mente sia così occidentale. Non sono europeo, vengo dall’Azerbaijan, ma a causa della mia educazione, a causa delle cose che amo, a causa della filosofia, del cinema, mi sento super europeo. Non occidentale, non americano, europeo. E credo nell’Europa. Tutto il potere dovrebbe stare in Europa, perché la civiltà che ha dato qualcosa di positivo all’umanità è stata quella europea. Siamo qui grazie al Rinascimento. Se togli il Rinascimento non c’è più il cinema, non c’è più luce. Ma poi c’è il mio cuore. Quello che sto cercando di dire è che quando scrivo qualcosa, quando penso a qualcosa, credo nel vuoto occidentale, la fine di tutto. Oscurità e null’altro oltre a essa. Ma in un film – e questo credo sia dovuto al fatto che fai cinema con l’istinto, con la tua intuizione – a un certo punto la tua mente smette di funzionare. Non è qualcosa che puoi controllare. A volte succede. Tento di mostrare il vuoto occidentale ma alla fine mi rendo conto che c’è una speranza, perché la mia natura è così. In In Between Dying volevo mostrare questa fine totale ma ogni volta il protagonista risorge, ancora e ancora. Una vita continua a riapparire. Sono sicuro che accadrà lo stesso in Sermon to the Void. Tenterò di rappresentare il nulla assoluto in quel film ma, in qualche maniera, alla fine, questo vuoto diventerà una luce che ti aiuterà. Ho provato a mostrare l’oscurità assoluta in Sermon to the Fish ma non ci sono riuscito. Il nulla arriva per il fratello, non per la sorella. Tutte le mie intenzioni erano di mostrare l’oscurità assoluta ma una volta finito il film mi sono detto “dai, questa non è la fine, questa è di nuovo la vita”. Non dimenticherò mai un momento durante il quale stavamo filmando una scena di In Between Dying. Ho posizionato la camera, ho visto l’inquadratura che volevo fare e la scena è andata male. Gli attori recitarono le battute sbagliate così dissi loro di stare fermi e fare qualunque cosa dicessi loro di fare. Iniziai a urlare all’attore “per favore vai a sinistra, vai a sinistra. Per favore cadi e muori.” Morì, così dissi all’attrice di raggiungerlo e abbracciarlo. Quella fu la ripresa sbagliata, ma anche la migliore. Una ripresa fallita che, arrivando dall’intuizione, era la migliore tra tutte quelle girate.
HB: Can I ask you a question? Did you like my movie?
DP: We’re here for that!
HB: Because people watch my films and they call them “boring films”. I just want to say that when I was 25 I always enjoyed watching this kind of films. Once I went to the cinema with my girlfriend. We watched Abbas Kiarostami, she slept. The I invited her to Bergman, she slept. Then I said, ok, invite me to anything you want. We went to watch Spiderman. I slept. Really, I don’t know how to explain. Everybody wants to go watching this kind of films. I’m not against Hollywood, I don’t want to criticize this kind of films. I just want to say that when there is this “cut, cut, cut…”, that’s too fast and I really become so tired. But when everything is slow and going down you feel that there is a distance between you and the image and the director doesn’t want to impose something on you like his ego is superior than yours and you have to obey him. I believe that is not about age because I’m 35, I’m very sure that I will be like that when I’ll be 60 and I was like that when I was 25, also. Once I took my composer to compose a song. He asked me some examples. I sent him Parsifal (1882) by Wagner. He told me that this was not a good reference. I asked “why?” and he said that this kind of music was not attractive. “What does it mean?” and he answered that Wagner composed like there is no audience. He then made me listen to a song that in a second you feel that this music is composed for you and you realize that it’s coming towards your side. But what I care is the distance between you and Wagner and the fact that you, as a listener, should go to his side even though you can never reach him because he is so great. Just compose something that respects the people. We have to respect the people and we have to help them. I truly believe there is a different way we can follow in order to respect human dignity. I even don’t know what’s a slow film. They call it “arthouse” but come on, what does arthouse even mean? Paradžanov? I never get bored. For me these are the easiest films to watch.
DP: Since you mentioned two great masters from the past like Kiarostami and Paradžanov and since we usually know so little about Azerbaijani film history I wanted to know what is your connection with the cinematic past of your country.
HB: You know that Azerbaijan was part of the Soviet Union and if we consider Azerbaijan’s past as part of the Soviet Union’s past we really have a lot of great film directors but honestly I have a huge problem with soviet cinema in general because of the propaganda. Of course there were very big names like Tarkovskij, Paradžanov but I think they were not a product of soviet culture, they were a result of their own culture. If I think about Azerbaijani cinema I immediately think of Huseyn Mehdiyev and Arif Babayev.
DP: What about now? Are there other contemporary Azerbaijani filmmakers you feel like you are sharing a path with somehow?
HB: Well there are some names, I believe there is a new generation coming as well. New young filmmakers about 25, 26 years old but they are all alone. We are all alone. Getting support, getting funding is very difficult. I believe there are going to be some names in five, six years, but for now everybody’s struggling in trying to make the film they believe in. The fate of cinema in Azerbaijan depends on the filmmakers. There have to be good filmmakers in order to have good cinema, in any country of the world. First we must have a proper education, then we need a place, like a cinémathèque, were we can watch the films and meet each other. It’s important to create an environment where the talents can be cultivated. Unfortunately people in my country choose engineering or similar study branches, not art.
DP: And what’s your biggest struggle, your biggest challenge in making cinema in Azerbaijan?
HB: My way of filmmaking is as difficult as in any other part of the world. Italy, Spain, Argentine… I have friends in every country and all of them are struggling. Even in France, filmmakers who get the support from the CNC I know how much they really struggle. When making the so called “boring films” people don’t like to work with you. Maybe some like to watch your film but when you begin creating, when you have the first idea of the movie you are alone. And in Azerbaijan it is a hundred times more because there is not any big cinema world, there is no fund, there is nothing so I am always alone. But I love difficulties. I love them. When there are too many obstacles I enjoy it because I know what I will have to jump over them. They are like a problem standing there waiting just to be solved, you cannot escape it. For ten years all the festivals rejected my films. Seven films and every festival rejected them. So I started making again and again and again. I found people who believed in me and I believed in them so somehow I’ve found a way to make films on my own, with limited budget. Three people, three films. A trilogy! The first one is Sermon to the Fish and now I have finished editing the second film. Big productions requires too much money etc. and I cannot find those in Azerbaijan but I always know what I have in my hands so I think to what can I do with what I have and I try my best. I also believe cinema doesn’t depend on technical things. Of course you need the equipment but how you use it depends on your inner world and when I see a mystery in a film I always search it in the brain of the filmmakers, not in the technical aspects of it.
DP: Your films could be set anywhere. There’s no specific place, no specific time in history. This way you create a suspended and alternate reality from the country you live and film in. So what’s your relationship with this fictional world and Azerbaijan?
HB: I made a film called In Between Dying, I made a film called When the Persimmons Grew (2019), and all my other films are made in Azerbaijan because I’m from Azerbaijan. You could take the script and set in Taiwan and it would still be the same film. You could set it in the Philippines, Vietnam, Peru or wherever you want and you would still get the same film. Once a french woman told me that she liked my film because there is just human tragedy. Human tragedy is universal and I think In Between Dying was like that. I try to make films free from the constraints of a specific physical place.
DP: During the Q&A you mentioned Bresson and you said that you’ve listened multiple times the soundtrack from Mouchette (1967) without actually watching the film. You also said that you think sound is tridimensional while the images are bidimensional and flat. Thinking it this way, what do you think, for example, about silent cinema? Has silent cinema always been “flat” to you?
HB: I believe that cinema started when we found the sound. I don’t think silent cinema is complete cinema. I love it and I watch it like everybody but when I look at you (indicates DP, editor’s note) I hear some sounds and to me this is cinema. We perceive everything as one. It never happens that I look at you and I don’t hear sounds. No. Silence is very important. Tsai Ming-liang for example – I love him so much – really knows how to use silence but still silence doesn’t mean no sound. If you cut the sound it not cinema anymore to me.
SP: You also talked about Wagner. Wagner created super dilated themes while nowadays there is this tendency of creating super fast refrains to catch the listener. If I still think about your cinema in relation with music, minimalism comes to my mind. It’s as if you were trying to look in between one musical note and the other, kinda like a way to approach eternity as a mathematical limit. What’s for you minimalism in cinema?
HB: I just want to say that a film, as a person, has an inner spirit, has a nature which is independent. For example Sermon to the Fish and In Between Dying have two completely different natures. Of course I use that kind of music now but it is because of the nature of the film. Now in my new film the songs are nine minutes long, like a symphony that grows and grows. It doesn’t mean that if I use a certain kind of music I like that specific kind of music in that moment. It’s just because of the nature of the film. The editing, the shots, the cinematography, the fate of the characters… everything forces me to use a certain kind of music because you can’t go over the image, you can go into the deep of the image. And in minimalism… I really don’t know what to answer. Really don’t know. In 2014 I made a documentary film called Nails in my Brain and every night, every night for four or five hours I listened to Arvo Pärt. I love him so much and I’ve probably heard each one of his songs thousands times, but, I don’t know. It is all about the feeling for me. I like him when he has a minimalist approach but I also like Penderecki so what should I do? I like art and art sometimes it’s minimalist and sometimes maximalist. There are no restrictions to the image.
DP: Going back to how you started our conversation talking about the so called “boring cinema”, I’d say that few filmmakers nowadays are really asking the spectators the effort to invest themselves and experience a certain amount of “suffering” when watching a movie. But my point is, maybe a little provocative, during and after the pandemic people suffered a lot and it could be that people are not involved or available to suffer anymore. And they were like that already before Covid. How do you relate to this?
HB: Let me divide this question into two and I’ll answer both of them. First, I really don’t like entertainment in cinema. When I watch anything that belongs to the entertainment category, I told you, I get bored. It’s almost impossible for me to finish the standard 90 minutes film. Second, I don’t want to be rude, but I just want to say that I never think about the audience. When I film I could never imagine that what I’m doing will be a film and will be shown somewhere. I always film when I feel it’s time to shoot. I always stop when I feel like it’s time to stop. If I were to think about the audience probably I could never be able to make the films I make. It is not logical to me an eight minute shot where nothing happens and the clouds there passing by. People get bored, I know. I know that before and after the pandemic there was a shift but I don’t have the right answer because nothing changes for me. I still am the same person, before and after the pandemic and I always make the films that I believe in, at least I try to make them. Maybe I will always fail but this is the kind of cinema i believe in. It’s never the length. It could be a nine minutes film or a nine hours film. Just show me something I can feel something with.
SP: Your way of making movies is somehow detached from society and its productivity and this is portrayed in your movies. You portray a collapsed society, yet remain two human beings that reflect, each in his own way, two kinds of existential approaches. The male character is still struggling to survive and regressing to the primitive aspects of life like catching fish, trying to find a roof under where they can live while, on the contrary, the female is basically doing useless stuff and she’s all about faith. What was your process while writing these characters?
HB: First it’s important to me that they are brother and sister. The sister believes in nature, the brother believes in cities. I just divided myself into two, because half of the year I live in the city and the other half I live on the mountains with my mum. Somehow I just want to discover myself. Let me tell you something very meaningful to me that I found out after many, many years. When you are in nature you feel weak because the mountains, the rain, the stones are stronger than you. You do not create these things, you don’t have control over them and you are weaker than them. But when you go to a city, everything’s man-made so you feel like you are the god of the city. But at the end you become soulless and you don’t feel anything anymore inside the world you have created. That’s why the brother dies in the house he built but the sister, connected to nature, finds infinity. Of course you see that she burns herself, she dies, but she really is not dead. She connects to this “wave” that exists inside all of us which is why we can sit together and we can communicate. I don’t believe in economics, i don’t believe in religion, I don’t believe in culture I just believe in that same soul passing through all of us. I just feel that nature is stronger and that’s why the sister is stronger.
SP: What’s the meaning of the title: Sermon to the Fish?
HB: I chose the title really at the end of making this movie. I love paintings and I love Renaissance guys, I love Masaccio, Piero della Francesca, Giovanni Bellini, Botticelli, Mantegna, Perugino, Raffaello… A million times I’ve looked at the paintings and, once I’ve finished the film, I saw a painting by Paolo Veronese called St. Anthony Preaching to the Fish (1580-1585) and I thought that there was some kind of deep relationship between that and my film because people didn’t believe in St. Anthony but the fish did. The second film will be called Sermon to the Birds and the third one will be Sermon to the Void.
SP: And what was the first image that inspired you when you started making this film? Because you said that at the beginning the film didn’t have dialogues and also just one character. How did it develop from that to the final version?
HB: You know I feel sometimes like a crazy guy. It is very ridiculous but usually it goes like this: I’m the weakest person in my set because I’m really addicted to my actors. If I had the time to get to know you a bit better I would probably get really addicted to you too. I tell my actors “please my friend, can you do this for me? Please just look this way…” I perceive them strong and I feel weak. I see through their eyes. If I tell them to come on the set at 10:00 AM but they come at 11:00 AM I don’t say anything to them because I could never be upset with them. Probably if they die I would die too. Even when I begin with the first idea of the film, I start putting them in the film. When I look at them I am able to see everything. That’s why there is no script, no secret, only the souls I could connect with. That’s why it is very difficult for me to work with others. First we have to become the same person. Cinema is a community to me. I don’t know which image will be the first one, I don’t know which image will be the last one.
DP: The title of the third film really interests me, Sermon to the Void. When you think about this void, you imagine it in a western or an oriental way? Because there is a huge difference in the way void is usually perceived by western and oriental cultures. For the west, void, is something negative, destructive, for the Orient it’s the complete opposite.
HB: Are you film critics? Because you give me hope, really. I always regret interviews and I try to cancel them but now i feel really happy being here with you. Regarding your question, I believe in resurrection. I believe that we’re never born, we never die. We are always here, we always exist. I don’t know what’s appearance, I don’t know what’s disappearance. I exist before and after my birth. We are all the same thing but my brain is so western. I’m not European, I’m from Azerbaijan, but because of my education, because of the things I love, because of philosophy, because of cinema i feel like I am super European. Not western, not American, European. And I believe in Europe. All the power should be in Europe, because the civilization that actually gives something positive to humanity comes from Europe. We are here because of the Renaissance. If you take out Renaissance there is no cinema, there is no light, come on. But then there’s my heart. What I’m trying to say is that when I write something, when I think about something, I believe in the western void, complete and utter end. Darkness, nothing beyond that. But in a film, and this I believe it’s due to the fact that you make cinema with your instinct, with your intuition, at some point your brain stops working. It’s not something you can control. Something appears. I try to show the western void but at the end I realize there is a hope, because my nature is like that. In In Between Dying I wanted to show this complete end but every time the protagonist resurrects, again and again and again. A life keeps reappearing. I’m very sure this will happen too in Sermon to the Void. I will try to represent complete nothingness in that film but somehow, at the end, this void will become light and it will help you. I tried showing complete darkness in Sermon to the Fish, but I couldn’t. It happens for the brother, not for the sister. All my intentions were to show complete darkness but once finished the film I told myself “come on, this is not end, this is life again”. I’ll never forget once we were filming a scene for In Between Dying. I put the camera, I saw the shot I wanted to make and it just failed. The actors said the wrong words so I told them to just stay there and do what I was telling them to do. I started shouting to the actor “please go left, go left. Please fall and die.” He died, so I said to the actress to reach him and hug him. That was the wrong take, but the best take. A failed take. But coming from intuition, that was the best take among ten others takes we made.