A Spartivento, punta di terra nel lontano sud Italia dove l’esistenza è sospesa e le correnti si separano, nonna Rosetta prende per mano suo nipote Ariele e insieme a lui cammina verso il mare. Il nuovo film di Marco Piccarreda, già in concorso al Visions du Réel e da poco premiato al Bellaria Film Festival nella sezione Gabbiano, racconta di come due fragilità, invece di volare via, possano stringersi insieme in un legame di cura che restituisca bellezza a entrambe. In che lingua parla l’amore? Nel torrido brusio estivo le carezze di Rosetta a suo nipote sono parole limpide come l’acqua in cui si tuffano i bagnanti, le uniche a cui egli possa davvero rispondere senza smarrirsi. Cercare il proprio senso nel senso dell’altro è una fatica necessaria; se Ariele ha bisogno di sua nonna per orientarsi fuori nel mondo, lei ha bisogno della felicità di lui per rallegrare la sua vecchiaia, immaginare altri futuri da abitare e contrastare il tempo che le sfiorisce le ossa.
Lo sguardo di Piccarreda osserva l’eccezionale naturalezza di questo affetto a debita distanza, riverberando le interiorità di Ariele e Rosetta sulla superficie di una macchina da presa spesso fissa, a volte inquieta ma certo mai pietosa, intenta a registrare le aritmie di un sentimento sgangherato, tanto potente quanto impalpabile. Nel solco di opere come L’estate di Giacomo (2011) di Alessandro Comodin, Spartivento esplora il perturbante territorio del desiderio, utilizzando il cinema come amplificatore di pulsioni in grado di sovvertire luoghi comuni e narrazioni stantie, solo in apparenza solidali. La ripresa del reale e la soggettiva percezione che di questo ha Ariele sono i due poli tra i quali si struttura la tensione che sospinge il film, alternando timori e risate, lunghe attese e improvvisi slanci, nella lasciva vertigine sensuale propria dell’estate e di un giovane corpo adulto alle prese con i propri scompigli. In questo senso Spartivento solleva questioni che per la sua breve durata non può approfondire: in che modo è lecito filmare l’esperienza di chi, come Ariele, vive una condizione di distacco da quel che comunamente chiamiamo realtà? E poi, filmare questa diversa forma di stare al mondo, la quale non solo non viviamo ma di cui neanche abbiamo gli strumenti per comprendere i meccanismi, significa tradirla o darle voce? Il tentativo del film è radicale perché impossibile, seppur doveroso. Avvicina il nostro sguardo a quello di Ariele, confronta i nostri battiti coi suoi e li scopre vicini. Se il cinema è sempre immagine e crisi del reale, immaginare un ordine in ciò che di ingovernabile non si conosce permette quantomeno di assumere coscienza del suo scarto, aprendo spiragli in occhi altrimenti serrati.
Il ritratto di un’Italia immobile e abulica, in cui la famiglia sembra ancora rimanere l’unico solido riparo per persone affette da disabilità, fa da sfondo perciò ai repentini sussulti del cuore di Ariele, al contempo in gabbia e liberato, al suo sfrenato appetito di sensazioni e alla sua volontà mai doma di abbracciare l’orizzonte. Un desiderio, questo, la cui sfuggente traiettoria come già detto lo schermo contiene a stento, ma che Piccarreda ha avuto l’intuizione e la delicatezza di evocare in tutta la sua stridente energia, espandendo il campo d’azione del cinema e delle possibilità della vita, così da confondere gli azzurri di cielo e mare, la cosiddetta normalità con la sua gioiosa differenza.