La bruma mattutina vela la palizzata di un villaggio mentre un branco di berserkir, coperti su capo e dorso da pellicce d’orso e lupo, emerge furtivamente dalla soglia del bosco. Da oltre la barricata giunge un grido d’allarme, seguito subito da una lancia ad alta velocità che, afferrata in volo dal membro più esposto, viene riscagliata verso il mittente. Con un colpo di reni i guerrieri si liberano delle pelli animali, emettendo un urlo di guerra reso ancor più ferino dalla contrazione muscolare dei corpi ipertrofici sfoggiati a mo’ d’incontrastabile condanna. Il piano sequenza – uno degli innumerevoli del film – prosegue e con esso l’assalto dei berserkir, travolgente, sitibondo, ma anche compiaciuto, come sempre lo è stato Robert Eggers e qui in particolare modo, per la propria appariscenza estetica, per la propria abilità nel portare a schermo una visione tanto formalmente risoluta quanto patinata. L’apice drammaturgico della sequenza lo si tocca nella scena successiva che vede un bambino del villaggio tentare invano la fuga, venendo raccolto di forza da un soldato e condotto all’interno di un capanno parzialmente impallato dal protagonista, Amleth. La porta si chiude alle spalle del vichingo. Questo si volta e, quasi fosse il suo ruolo spettatoriale a appiccare l’incendio, se ne oltrepassa la semi prospettiva, per vedere altri due soldati incendiare il capanno dal quale provengono le disperate invocazioni di pietà di donne e bambini. Profano scomodarlo, eppure talmente esplicito il richiamo da rendere impossibile non rivolgersi al capolavoro di Elem Klimov Va’ e Vedi (1985), non solo per la corrispondenza tra eventi ma anche a causa del primo piano su Amleth, il cui sguardo, truce e imperturbabile, è rivolto in camera alla stessa maniera – e al contempo con un contegno diametralmente opposto – in cui il volto del protagonista di Klimov, sul quale pare sia rovinata l’intera sofferenza dell’umanità, interpella silente lo spettatore.
The Northman, terzo lungometraggio di Robert Eggers, è uno strambo e post-moderno colossal, in bilico costante su di un baratro dal quale riesce a mettersi in salvo grazie alle duplici tensioni in gioco. Da un lato una carica registica ferale, capace di connotare i propri personaggi e il proprio racconto di una seriosità funesta e primordiale, che già ascrive quanto messo in scena in un tempo sospeso e indefinibile, nonostante la maniacale cura del regista di riprodurre la realtà storica nel modo più fedele possibile. Dall’altro un racconto derivato dal mito di Amleto, leggendaria figura del romanticismo scandinavo dalla quale William Shakespeare trasse una delle sue più note tragedie. La trama dunque, seppur non privata delle sue asperità più crude e disturbanti, è in grado di risuonare con il più ampio pubblico ipotizzabile. Dopo aver assistito alla morte del padre per mano dello zio, il principe Amleth fa voto di vendetta per risanare la frattura monarchica e salvare la madre, la regina Gudrún. Quella di Eggers è una scelta consapevole e compassata per dotarsi di un’universalità che possa concedergli uno spazio di manovra autoriale libero e immediato. Ed è proprio nel lavoro di mediazione che si esprime la sua visione: Amleth giunge sull’isola dove lo zio, Fjölnir, si è stabilito con la regina avendo da questa un figlio. Momento di svolta è il primo furtivo incontro con la madre che, dopo aver confessato di essere stata mandante dell’uccisione del re, avanza al figlio un bacio, scabroso e febbrile. La tensione vendicativa si scioglie in malia sessuale, incestuosa, evocando nello spettatore le sue pulsioni più basse e edipiche, mettendolo in una condizione di desiderio e scomodità di visione che raramente si attraversa nelle 2 ore e 20 di durata. Ma ecco che Eggers raddrizza il timone e, piuttosto che far sprofondare ancor di più il proprio pubblico in questa promessa di fastidio, si riassetta su quella distanza che per quasi l’intera proiezione fa sentire protetti e talvolta esaltati dalla spettacolarizzazione delle vicende.
Tra l’aulico e il triviale, tra apparato produttivo e impulso artistico, The Northman è una costante negoziazione per la quale pare non esserci più spazio per il fuori campo. Se in The Vvitch (2015) la strega del titolo non era quasi mai mostrata ma sempre evocata nel rapporto di confine con il bosco, se in The Lighthouse (2019) v’era una duplice tensione nel non visto a cui anelare – una la sirena e l’altra la fonte di luce del faro entrambi visti come oggetti di brama sessuale – nell’ultimo film di Eggers l’unico altrove evocato più volte dai mantra guerrieri è nient’altro che il Valhalla. Peccato però che la potenzialità espressiva di una tale istanza si esaurisca nel mero sfruttamento drammaturgico, non divenendo mai forma cinematografica. Soltanto nel finale, quando una valchiria in groppa a un cavallo alato traghetta lo spirito guerriero di Amleth verso le porte dell’ambita sala marziale, Eggers decide di staccare a nero poco prima che si possano vedere i due attraversare il varco celeste, delegando il giudizio di merito su quanto compiuto dal protagonista in una fin troppo facile sospensione di montaggio. Tralasciando la questione più linguistica, forse, ci si riduce a pensare che – come la tendenza degli ultimi anni vorrebbe – la virtù dell’operazione stia nel riconoscere come figura eroica nella quale immedesimarsi un protagonista che altri non è che un criminale di guerra, un assassino che ha sulla propria lama il sangue di una madre, di un fratellino. Vile per giunta. Tutti i combattimenti del film infatti sono in qualche modo impari e non così onorevoli come professano i berserkir, talvolta sono assalti di gruppo, talvolta imboscate. L’unico scontro a detenere quella nobiltà così cara alla legge vichinga è il duello finale con lo zio, a cui Amleth è da sempre predestinato.
Al netto di alcune forzature narrative e deus ex machina fin troppo evidenti – come alcuni interventi letteralmente divini di Odino che, come nel mito, opera cambi di rotta tramite i corvi – The Northman è un’esperienza che non può prescindere da un meritevole giusto approccio di visione. Eggers stesso riporta tra le influenze sì film come Andrej Rublëv (1966) e Va’ e vedi (1985) tenendo però a precisare riferimenti ben più pulp come il Conan di Milius. “A Robert Eggers pop corn movie”, definizione data dal regista stesso, è la frase da far risuonare ogniqualvolta sembri di trovarsi di fronte a momenti inaspettatamente infantili come la quest per recuperare la spada magica Draugr, che Amleth ottiene combattendo contro uno spirito non morto; quest’ultimo reale solo nell’immaginazione del protagonista grazie a un irricevibile trabocchetto narrativo che riavvolge e annulla quanto successo. Nel finale di Va’ e vedi Florya imbraccia un fucile – oggetto anche qui dotato di una funzione “magica” – riuscendo finalmente a sparare contro un ritratto di Adolf Hitler. A ogni colpo, il bandolo delle atrocità e delle conquiste del Führer si riavvolge indietro nel tempo in un (dis)accumulo che conduce all’ultima immagine. Hitler, neonato, tra le braccia della madre. Florya sembra sul punto di sparare ma, mosso da una sconcertante compassione, abbassa l’arma e si unisce alla colonna di partigiani. Poco prima dell’ultimo atto, Amleth ha la possibilità di fuggire via mare con la propria compagna, Olga, ma temendo che i suoi figli possano essere a loro volta incatenati alle ramificazioni dell’Yggdrasill, decide di portare a compimento la propria vendetta, determinato a uccidere una volta per tutte lo zio. Per Klimov il cinema è una macchina del tempo in grado di redimere l’umanità e spezzare il circolo della Storia. Per Eggers invece, almeno in questo caso, il cinema è un atto di sottomissione (intesa in senso divino), anche industriale, consapevole e ben accetta, entro la quale accogliere il proprio destino, consumandolo, forzandolo fino a una rottura che però, purtroppo, non avviene mai, non ancora.