Quale regista oggi considera il thriller (poliziesco, d’azione, psicologico) come occasione di riflessione sociale e politica? Dopo cinque lunghi e una miniserie è possibile rispondere con un nome e un cognome: Rodrigo Sorogoyen. Pochi registi ancora in attività ragionano quanto questo spagnolo classe ’81 sulla ricaduta antropologica e sociale delle possibilità espressive di questo genere; se si fa attenzione all’uso degli strumenti, alla calibratura del linguaggio con cui Sorogoyen ha girato Antidisturbios (miniserie per Movistar Plus scritta con la fondamentale collaboratrice di carriera Isabel Peña), ad oggi il suo lavoro più complesso e organico, si comprende subito la portata della sua riflessione sociologica. Si prenda per esempio il grandangolo, strategia formale spesso usata con fini virtuosistici ma in Sorogoyen figura retorica chiave per l’interpretazione della realtà: il grandangolo, per come lo usa questo regista, cioè piantato sul personaggio, imperniato su di esso, è ben più di un catalizzatore di tensione crescente in grado di produrre una sensazione di claustrofobica oppressione sui volti portati in primo piano; esso è un catalizzatore di realtà, un intensificatore di consapevolezza delle relazioni di forza tra personaggio e contesto, un metro di rappresentazione secondo cui è proprio il soggetto a essere il punto di responsabilità da cui dipendono le sorti del mondo – essendo il mondo prospetticamente ancorato alla figura e quindi sempre il prodotto della scelta di un soggetto, dei suoi spostamenti nello spazio. Lo stato di tensione continua con cui questo regista costruisce le sue scene e racconta le sue storie dipende in toto dall’uso dell’obiettivo grandangolare proprio perché esso rimanda implicitamente a una scelta decisiva che il soggetto deve continuamente compiere per vivere, per sopravvivere. Non è un caso che i soggetti di Sorogoyen stiano sempre di fronte a situazioni critiche, cioè a momenti di scelta obbligata, da cui non si torna indietro, e per cui è necessario lottare contro un nemico che è il proprio carattere – non sorprende che nei suoi film ricorrano scene dei protagonisti chiusi in spazi angusti ma risolti illusivamente da specchi, cioè scene in cui il protagonista si trova a confrontarsi con se stesso come unico antagonista.
Il grandangolo nei suoi film non è messa in scena muscolare di forza, non è uno sproloquio verbale, ma è una via stilistica di interpretazione del carattere, una presa di coscienza della tragica posizione (tragica perché colpita dall’inevitabile) che il carattere deve sopportare per definirsi all’interno del mondo: è la compressione continua di un arco drammatico nell’immediatezza dello stile, di una grafia, di un’immagine, innervazione sensoriale di una psicologia e di una condizione attraverso un’immagine che pare superare le mediazioni argomentative e colpisce frontale. E se si ha l’impressione che il cinema di Sorogoyen colpisca, si rinforzi di scena in scena, secondo una logica di implementazione e solidificazione progressiva della scrittura e delle immagini, è proprio perché di scena in scena avviene questa riconferma dell’arco, questa compressione che sempre costringe il carattere ad affrontare la posta in gioco, a misurarsi con l’esigenza del mondo e l’ordine di un sistema. Perché se il grandangolo rimanda i fatti del mondo a una radice soggettiva è anche vero che mette in relazione (non alla maniera di una dialettica campo/controcampo) il soggetto con tutto ciò che lo circonda, con tutto ciò che lo reclama, con il sistema: il cinema di Sorogoyen riflette sul sistema, sulla struttura straniante in cui l’individuo è un ingranaggio che gioca un ruolo, compie una parte, inconsapevole e allo stesso tempo insostituibile, come dice uno dei personaggi chiave sul finale di Antidisturbios. Nel momento in cui questo gioco delle parti diventa evidente al soggetto, cioè nel momento in cui il soggetto si fa consapevole del sistema (tutti i film di questo regista raccontano la scoperta traumatica di un meccanismo di potere relazionale che coinvolge e ordina gli eventi), allora comincia una lotta per definirsi fuori di esso: che si tratti di essere un detective che cerca di risolvere omicidi seriali, o un membro di un partito circondato da un complotto ai propri danni o di una madre accecata dalla proiezione del lutto o di un poliziotto antisommossa incastrato in uno schema più grande di lui, il soggetto, nella visione di Sorogoyen, inizia a esistere in un arco drammatico perché mette in dubbio la sua condizione sistematizzata, perché causa un terremoto identitario in cui rompe la rigidità degli automatismi di potere e cerca di uscire da essi. Ma uscire dal sistema significa uscire dal modo in cui il sistema organizza la propria identità e quindi la lotta del soggetto è questa lotta con se stesso in cui cerca di riconoscersi al di fuori del sistema.
E cosa c’è fuori dal sistema? Tutti i film di Sorogoyen finiscono su questa domanda, con personaggi che si affacciano di fronte a quell’ignoto che è la loro identità al di fuori del sistema che li aveva definiti: in Che Dio ci perdoni il detective Valente è spaventato dall’abisso che ha di fronte quando si scopre in fondo identico al killer da cui pensava di essere opposto, in Il regno il politico de la Torre non sa forse rispondere all’esame di coscienza a cui lo costringe la giornalista da cui spera di ottenere riscatto, in Madre la protagonista Elena elabora finalmente il trauma che la costringeva a negarsi come madre e si ricongiunge con il proprio passato dopo dieci anni, in Antidisturbios Lopez, ormai abbandonata la professione, si interroga sulla nuova identità di fronte ai fantasmi. Questo interrogativo – che cos’è l’identità del singolo fuori dal sistema che lo controlla e lo definisce – sostanzia lo stile di Sorogoyen, che si tratti di grandangolo, di piano sequenza o di messa in tensione continua degli eventi, come un mezzo di scavo che è tanto più psicologico quanto si allontana dalle disanime psicologiche convenzionali. Non c’è psicologia spiccia nei suoi film (e infatti non c’è finale consolatorio o dinamica drammaturgica abitudinaria ma una fluttuazione narrativa sempre disorientante), piuttosto c’è una psicologia a sbocco antropologico, che ragiona sull’abisso sotteso alle azioni quotidiane e ha ambizioni di ritratto sociale e universale: sia nel dramma psicologico sulla maternità sia nei suoi tre thriller pensati, miniserie compresa, come capitoli di una trilogia sulla corruzione sistematica di uno stato, il principio guida è una prospettiva culturale – quanto mai rara – che considera il cinema e le immagini come un momento per ragionare ad alta voce sulle complessità sociopolitiche del proprio paese – e per ora il regista sembra troppo interessato alla Spagna per andare all’estero come tanti talenti. Dal carattere di un personaggio al trauma di una nazione e ritorno passando per la straripante tensione di un’immagine che tiene assieme figura e mondo esplicandone i complessi rapporti di forza attraverso uno stile che non è urticante per il gusto di esserlo ma perché si riconosce come adeguata forma simbolica di una situazione sul punto del collasso morale e sociale: questo è il cinema di Sorogoyen, risposta per immagini alla crisi di una società che si scopre radicalmente violenta, sistematicamente carnefice e vittima di se stessa; specchio analitico che cerca di mettere in scena una psiche comune affetta da problemi radicali andando sempre più in profondità, alla radice delle complessità, alla radice del colpo d’occhio antropologico. Quindi verso la rappresentazione dei due non detti del contemporaneo, il Male – ci si aspetta un horror rurale per il suo nuovo film – e la Storia – il prossimo progetto seriale di Sorogoyen sarà incentrato sulla Guerra civile spagnola.