Caro Wes Anderson,
mi trovo immobile e attonito davanti al tuo cinema. Sono finalmente incapace di leggerlo, di tradurlo, di contestualizzarlo. Ricordo con affetto quando vidi al cinema I Tenenbaum: ero un neo-adolescente che cercava un punto di rottura con i film della sua infanzia, e lo aveva individuato nella tua estetica, nel tuo formalismo, nel tuo eccesso di maniera. Pensavo allora, e ho continuato a pensare per molti dei tuoi film successivi, che esercitassi quella smisurata passione per la perfezione dell’immagine come una sorta di condanna della tua idea di regia, una dannazione imposta dalla necessità di possedere una riconoscibilità, un marchio di fabbrica. Trovavo – forse sbagliandomi – che il malessere esistenziale fosse il motore, la spinta propulsiva delle tue storie e dei tuoi personaggi. Quando vidi per la prima volta I Tenenbaum non avevo neppure idea di chi fossero Kurt Cobain e David Foster Wallace, ma di fronte al tuo film mi era sembrato di attraversare tutti quegli umori e tutte quelle suggestioni visive e poetiche che avevano ribaltato la cultura pop americana degli anni Novanta. Le avevi assorbite per realizzare un capolavoro di geometria visiva e narrativa, che utilizza come scudo la forma e la posa vintage per nascondere in realtà un sentimento autentico di malinconia inscalfibile e di sconfitta perenne, tipico di tutti i tuoi romantici protagonisti: dal terzetto di ladri disadattati di Bottle Rocket per arrivare a quell’incredibile trio di fratelli de Il treno per il Darjeeling, che si trova sempre in viaggio senza una destinazione precisa, inadeguato davanti a ogni situazione, disperatamente alla ricerca di un posto nel mondo a cui appartenere e in cui riconoscersi. Mi sembrava che la tua maniacale esaltazione della messa in scena si limitasse a un discorso superficiale, perché non era altro che un mezzo per far emergere l’inquietudine del tuo cinema, la sua indagine della fragilità umana all’interno di un sistema occidentale, capitalista, americano, che costringe alla competizione e che fonda la sua scala valoriale sul perseguimento del successo economico e del benessere familiare.
A diciannove anni dalla mia prima volta con I Tenenbaum e dopo aver visto The French Dispatch, metto in discussione le mie idee e le mie interpretazioni. Non ho dubbi che il tuo cinema sia migliorato, e che allo stesso modo sia migliore la tua performance registica. I tuoi ultimi lavori dimostrano una cultura elevatissima e volano alti tra riferimenti artistici, letterari, musicali, cinematografici. Ma il marchio di fabbrica che ti ha sempre caratterizzato adesso è uno standard. I tuoi film si sono tramutati in un prodotto intellettuale e visivo gratificante, da proporre a uno spettatore targettizzato. Il malessere dei personaggi, la loro inadeguatezza, non è più la conseguenza inevitabile di un sentimento di ribellione al mondo stilizzato in cui abitano, ma è diventato esso stesso una posa senza urgenza, svuotata di significato. Questo sospetto ha cominciato a serpeggiare dopo Moonrise Kingdom, che all’epoca avevo approvato con parsimonia: celebrare la storia d’amore impossibile tra due adolescenti mi era già sembrata una semplificazione della tua poetica. Dopo un film volutamente episodico e dichiaratamente abbozzato come The French Dispatch, mi allontano in maniera definitiva. Un omaggio impeccabile al giornalismo e alla cinefilia, e proprio come L’isola dei cani, una sfida alle barriere del linguaggio. Ma non riesco a scavare e a estrapolare altro. Nel corso degli anni, quel formalismo protettivo – che interpretavo come una critica inventiva e geniale alla stessa imposizione di un immaginario nel linguaggio di ciascun cineasta – ha finito per prevalere. Chi pensa all’idea del tuo cinema ormai la associa inevitabilmente a un catalogo, a una mostra, a una galleria d’arte. Non è sbagliato, ma non voglio essere coinvolto. I tuoi film adesso rispondono in pieno alle aspettative. Ma a volte, è preferibile deluderle.