Vi ricordate il viaggio dell’eroe? Quello di Christopher Vogler, ripreso da Robert McKee in Story e da Syd Field in The Screenwriter’s Workbook, quello che molti critici cinematografici calano su ogni immagine in movimento o quello che è il passaggio obbligatorio per ogni studente di cinema. Sì insomma a quanto pare non si può prescindere dal viaggio dell’eroe nella narrazione, non si può proprio fare, neanche volendo. Al massimo lo si può violare, ma la sovversione è derivativa, per poter trasgredire bisogna conoscere, se si vuole trasgredire bene.
Con Titane Julia Ducournau di fatto al viaggio dell’eroe non sembra pensare mai, perché il mondo ordinario non è mai esistito per Alexia, intrappolata sin da bambina tra un rapporto infernale con il proprio padre (figura archetipica non collegata direttamente a una relazione patriarcale, ma piuttosto epigono di una prigionia la cui unica via di fuga è la rabbia e la cieca violenza) e una sindrome post traumatica, da cui esce ricercando un fine in ciò che non è umano, in ciò che non può essere narrato, in ciò che non può imporle nulla, nel motore e nel metallo. L’incontro con un finto nuovo padre prigioniero di gravi scompensi emotivi e preso a pretesto per fuggire dai suoi orrori sarà sì catartico, ma laddove arriverà l’evoluzione drammaturgica scorrerà in parallelo anche la fine inevitabile.
Senza eroina, senza anti eroina, senza mentore (che agogna una redenzione molto più della stessa Alexia), senza antagonista, l’elemento scatenante che instaura una sorta di catarsi suicida proviene dalle azioni empie della protagonista (ci sono protagonisti e co protagonisti, non esistono eroi, alleati e nemici) e la connessione con il sacrificio cui verrà sottoposta non è mai salvifica: quel “ti voglio bene” strappato verso il finale tra finta figlia e finto padre non porta nessun premio o “ritorno con elisir”, perché nonostante la Ducournau inserisca in ogni sequenza ciò che di più provocatorio esiste nel condurre lo spettatore medio del film d’autore verso un limite estremo di grottesca empietà, Titane rimane un film profondamente “arreso”. La salvezza non è per sé, per la propria volontà di potenza, ma per un postulato di mondo, e quindi, volente o nolente, di morale.
É come se nel tentativo di trasmutare tutti i valori ci si rendesse conto che anche il rifiuto tout court di un percorso eroico ci riporta sempre al sacrificio di noi stessi per qualcosa di cui neanche noi riusciremo mai ad appurare l’esistenza, per quell’utopia che ci conduce a scambiare la speranza con la fantascienza.
Da qui nasce il nuovo übermensch, dalla contraddizione insita nella vita, non dall’abolizione dei generi, non dall’aggiramento della coscienza, ma dalla presa di consapevolezza che il cambiamento nella narrazione dell’esistere ritorna comunque al punto della ricerca di un altrove, del guardare in alto con un bambino appena nato per ritrovare un senso, dell’offrirsi sull’altare non di qualcun altro, ma di qualcos’altro. Qui sta il motore, qui sta la propulsione, la macchina non è un oggetto di alienazione, di disumanizzazione, non è Cronenberg, non è Carpenter, non è neanche Tsukamoto, è inevitabilità di immolarsi all’ignoto neutro, né uomo né donna (Alexia da quasi subito dismette i panni di entrambi i generi perché non è importante, non è questo il punto della questione). In questo sì, in questo Titane è cinema nuovo, perché aggirando la gabbia della drammaturgia classica, pur richiamandone i sottotesti (i richiami al rapporto edipico sembrano quasi una presa in giro, e questa sì, è la vera provocazione), ci mostra che nessun Anti Cristo nasce senza che la propria Medea si sia immolata sull’altare della trasmutazione. Una nuova Madonna macchiata di tutti i peccati del mondo, un nuovo San Giuseppe quasi incestuoso (ma in realtà assolutamente no), un’umanità che della redenzione non se ne fa più niente, e forse per Ducournau è proprio questo il punto, spostare lo sguardo verso la vera teleologia/teologia, che non è per un bene o per un miglioramento, ma per trovare la nostra fine in un vuoto a rendere. Dietro la linea dell’orizzonte della contemporaneità intravediamo in Titane proprio questo, il superamento del senso, riflesso in un’immagine che non racconta più storie attraverso una sintesi (pittura), né tantomeno un’analisi (romanzo), ma un’immagine che ormai è diventata una cosa a sé stante, immolata a un’entità di cui nessuno potrà mai carpire nulla. Il nuovo senso è nell’enigma, il nuovo cinema è nell’inanimato, nel niente, senza avventure, senza prove, senza resurrezioni.