I quattro cortometraggi di Bertrand Mandico, riproposti al Milano Film Fesitval di quest’anno, riescono a fornire una valida idea dell’abisso sensoriale che caratterizza il cinema del regista di Tolosa. Reso finalmente noto al pubblico internazionale dopo la presentazione del suo Les Garçons sauvages alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2017, Mandico esprime nei suoi film una costante lotta alimentata dalla ricerca di una purezza irraggiungibile, perché vanificata dall’estrema contraddizione dell’essere umano, messo in scena come un’entità ridicola e ambigua, che scoperchiata dalle sue grottesche sovrastrutture si rivela come ammasso informe e ferino, imprigionato e condannato dalla sua stessa banalità, ma proprio per questo capace di irretire l’interesse del cineocchio.
Protagonista del dramma grottesco impresso su una pellicola 16 mm è la sessualità, tematica centrale in queste quattro opere. In Notre-Dame Des Hormones (2015) un involucro di carne diventa oggetto dei desideri più oscuri e morbosi di due attrici teatrali che si accingono a portare in scena il complesso edipico, mentre in Prehistoric Cabaret (2014) una showgirl imbastisce un teatrino in cui un tubo con all’estremità una microcamera penetra nelle sue viscere fino a uscire dalla bocca, filmando la reazione sbigottita del piccolo gruppo di astanti, in un perverso e volutamente effimero gioco metacinematografico, per arrivare a Y a-t-il une vierge encore vivante? (2015), con protagonista una Giovanna D’Arco (Joan the slut) accecata e derubata di ogni dignità e ingelosita dall’innocenza di una vergine tenuta prigioniera da un albero antropomorfo, e infine a Depressive Cop (2017), dove un poliziotto con una maschera in lattice e dal volto sconosciuto (che si rivelerà poi quello di un polipo), indaga sulla sparizione di una ragazza figlia di una prostituta del luogo.
Prendendo spunto dall’horror d’autore degli anni ’80 (Żuławski, Carpenter, Cronenberg) e dalla critica alla cultura francese in tutte le sue forme (muovendosi tra un certo cinema di Godard e i più recenti lavori di Bruno Dumont), questo nuovo autore sembra voler affondare le proprie radici artistiche nel subconscio più inconfessabile della società borghese, rendendo protagoniste delle sue storie figure archetipiche sfigurate e spogliate della loro sacralità, creando un nuovo mondo nato dal contrasto tra alto e basso, tribale e aulico. In questo esercizio radicalmente contemporaneo Mandico trova un nuovo surrealismo, che come nei film di Miguel Gomes divora attraverso il grottesco qualsiasi anelito di distacco da ogni umiltà, ma mentre il regista portoghese dedica questa messa in scena a una missione fortemente civile, in questi quattro cortometraggi la denuncia trascende l’attualità e diventa senza tempo, grazie anche a un dialogo morboso e inarrestabile tra passato e presente, tra mito e realtà. Ed è nella chirurgica operazione della demolizione di questo mito (“Ammazza i tuoi idoli!”, cantava qualcuno) che si nasconde il nucleo di questi cortometraggi e forse di tutto il cinema di Mandico.
Nel corpo deforme e ricoperto di escrementi di un Edipo invecchiato che invoca sua madre, che scopriamo essere il medesimo involucro di carne adorato dalle due attrici (la nostra signora degli ormoni appunto), ritroviamo una vittima sacrificale intenta a soccombere all’interno del gorgo pulsante di tutti i desideri sessuali, intesi foucaultianamente come dispositivi di potere pronti a schiavizzare chiunque, compresi noi stessi. Proprio come nel controcampo ideale di una microcamera che ci osserva dopo averci attraversato.