Nella prima stanza che accoglie la mostra Collasso Analitico un muro color panna ospita la scritta: “Al di là della tecnica, dell’immagine, si è attraversati da utopie. Possa la lingua essere la nostra casa”. Sulla seconda parte di questa frase ho riflettuto molto, prima ancora di addentrarmi nel percorso espositivo. Ho provato a fare un gioco, cioè invertire la posizione delle parole “lingua” e “casa”. A sostituire “casa” con “identità”, “persona”,“io”, “noi”, “storia”, “memoria”. Eppure casa sembrava calzare perfettamente, capace di racchiudere i plurimi tracciati di un’espressione così semplice e quotidiana. Mi sono concentrata su lingua: anche lì vi erano più o meno le stesse parole. Nonostante entrambe facessero riferimento a luoghi fisici ben precisi, non riuscivo a dare loro un esatta ubicazione. La loro raffigurazione divenne sempre meno statica ed effimera e con quei dubbi ho iniziato a scoprire le vite di Micol Roubini e Giulia Bruno, così come le loro opere.
Attualmente in corso presso Casa Testori (fino al 5 giugno), Collasso Analitico è «un percorso in fieri e un’indagine a porte aperte, più che una mostra» – così come la definisce la sua curatrice Daniela Persico – che racchiude i lavori e le ricerche delle due artiste sopra citate, entrambe nate a Milano e successivamente condotte altrove dal loro passato e dal loro destino.
Il progetto di Micol Roubini parte da una fotografia scattata nel 1919 che ha per oggetto la casa natale del nonno materno, nel piccolo paesino ucraino di Jamna: Roubini si è servita di fotografie, agende, fogli, documenti, ritagli per riempire e colmare il vuoto materiale che ha comportato la partenza della sua famiglia, quando nel 1957 lasciò l’Unione Sovietica per l’Italia: 23.000 grammi è il peso degli oggetti che non arrivarono mai a destinazione. Tra questi anche una macchina da cucire, una macchina da scrivere, un servizio da tavola, una bicicletta. Il loro peso corrisponde a quello di 1287 fogli di carta velina, disposti in una delle sale, a formare un cuboide di carta; allo stesso modo, l’inconsistenza degli oggetti si accentua in rapporto al loro significante, rimodellato e travisato su errori di trascrizione e traduzione (tra russo, polacco, italiano), a sottolineare l’idea dell’artista in merito all’incomunicabilità del linguaggio. Gli oggetti rimasti e sopravvissuti al viaggio – libri, bicchieri, fotografie – vengono ripresi frontalmente dall’artista nel video Veglia, come se venissero interrogati, unici custodi privi di parola capaci di serbare i dettagli delle vite passate davanti a loro. Ai silenzi di Veglia si oppongono le voci di Appunti per un film ucraino (riprese che confluiranno nella realizzazione del lungometraggio La strada delle montagne): il percorso tracciato da Roubini si chiude circolarmente nel luogo dell’inizio – della partenza – con il ritorno a Jamna, in una raccolta di testimonianze spesso taciute della seconda Guerra Mondiale e degli anni dell’Unione Sovietica. Ritorna la parola con la sua carica veritiera, anch’essa vittima dell’usura del tempo.
La ricerca sul linguaggio di Giulia Bruno ha invece più diramazioni e sembra essere un continuum – storico – di quella iniziata da Roubini: guarda anch’essa al passato ma da una prospettiva collettiva, ponendosi come osservatrice a media distanza. La forma del linguaggio e la ricerca di un suo standard diventano l’oggetto di un’indagine che guarda al presente e ai media contemporanei: la lingua non è più solo intesa come un agglomerato di lettere e fonemi ma di immagini, fotografiche o video che siano. Il viaggio di Bruno è un itinerario quasi mondiale: in Artificial Act – Research for a Film una serie di studiosi si interrogano sul ruolo e l’eredità dell’Esperanto, a partire dall’utilizzo radicale che ne fece la Fiat durante gli anni ‘50 e ‘60 per tradurre i manuali tecnici e diffonderli oltre i confini – un linguaggio utilizzato a fini economici – quando ancora l’inglese era poco noto. Seguono le fotografie e le testimonianze ibride di comunità tra Cina, Indonesia, Brasile, Corea del Sud, che in seguito alle colonizzazioni degli anni ‘70 si sono trovate a ricostruire una propria identità interconnessa ed artificiale, fatta di composite radici, così com’è l’Esperanto. Al linguaggio come forma socioculturale, Bruno porta attenzione al linguaggio come elemento sonoro, nel quale la voce umana intesa come performance vocale, diventa l’oggetto per una ricerca non solo musicologica ma soprattutto etnografica.
Collasso Analitico spalanca mille finestre e riflessioni che escono dalle mura di Casa Testori, in uno sguardo composito – a tratti confuso, così come lo è la realtà – sul secolo scorso, servendosi appunto di molteplici linguaggi espressivi tra quello scritto, sonoro, fotografico e multimediale. Le riflessioni unite in questa mostra vengono colte in un preciso momento spartiacque, dove guardare i meccanismi e l’eredità del passato diventa necessario per non dimenticare ed affrontare le trasformazioni di un presente in cui il rischio di una standardizzazione e manipolazione del linguaggio diviene sempre meno un’utopia. Un linguaggio, che si stacca sempre più dalla parola spontanea, dal suo supporto, a favore di una smaterializzazione accelerata dal diffondersi non solo delle tecnologie digitali ma anche delle leggi algoritmiche dei motori di ricerca, le quali ci impongono una semplificazione estrema della lingua, del modo di comunicare e quindi di pensare.
Se le fotografie stampate e gli oggetti conservati da Roubini sono depositi di una memoria capace di sopravvivere ad un intero secolo – alle guerre, alle migrazioni – e costituiscono anch’esse un alfabeto materico, la babele di immagini tradotte in pixel, modificate, falsate ed interpolate a cui siamo oggi sottoposti, non riusciranno mai a svolgere il compito per il quale sono state realizzate: ricordare, trattenere, conoscere (la Storia e gli Altri). Torno alla citazione d’apertura della mostra e la rileggo quasi come mantra e obiettivo da perseguire: possa la lingua essere la nostra casa, anche per il futuro.