(English below). Dal 4 all’8 Marzo 2019 le registe Esther Urlus e Josephine Ahnelt hanno deciso di creare un negativo vegan in bianco e nero 16mm fatto a mano, mostrando in questo modo l’esistenza di un’alternativa non di origine animale per il materiale cinematografico analogico. Dopo numerosi tentativi sono riuscite a produrre un’immagine, che risulta di fatto come il primo film a base vegetale nella storia del cinema, Vegan Analogue Film. Questi sono i loro risultati finali. Abbiamo chiesto a Esther e Josephine cosa le ha spinte a portare avanti questo esperimento e quali implicazioni pratiche e teoriche questo possa a vere per il futuro della pellicola.
Perché avete sentito il bisogno di creare un film sostituendo la gelatina di origine animale?
Josephine Ahnelt: nel 2007, mentre studiavo alla Friedl Kubelka Filmschool, ho iniziato a lavorare e ad apprezzare i film analogici. Spinta inizialmente da uno spavento per la salute nella mia famiglia, sono diventata vegana cinque anni dopo. Ora, la mia motivazione nell’essere vegana non comprende solo i grandi benefici sul nostro ambiente e l’evitare le orrende sofferenze inflitte agli animali. Gradualmente ho liberato il mio intero stile di vita da qualsiasi prodotto animale. Tuttavia, a causa dello stile e dell’estetica del film analogico che ha fortemente influenzato e accompagnato il mio lavoro, la pellicola è stato l’unico elemento non vegano che non sono ancora riuscita a lasciare andare. Questa combinazione tra il vedere le qualità distintive che possiede un film analogico, che non possono essere sostituite dal video digitale, e l’assenza di un’opzione praticabile disponibile per fare a meno della gelatina animale, mi ha motivato a produrre Vegan Analogue Film.
Come funziona il processo tecnico per arrivare alla produzione di un film a basa vegetale?
Esther Urlus: da alcuni anni produco emulsioni fotosensibili, emulsioni fotografiche a base d’argento adatte per ricoprire su trasparenti in 16mm. Per questo tipo di lavoro utilizzo formule basate sulle scoperte dei pionieri della fotografia e del cinema. La maggior parte di queste emulsioni di gelatina d’argento erano create per scopi fotografici, da rivestire su lastre di vetro o carta. Praticamente tutte queste formule possono essere utilizzate anche su strisce di pellicola trasparente da 16 mm. Un’emulsione in bianco e nero si prepara facilmente con un po’ di nitrato d’argento, bromuro di potassio e gelatina. In realtà è simile alla preparazione della maionese. Un’emulsione fotografica è una sospensione fine di cristalli fotosensibili insolubili in un colloide, solitamente costituito da gelatina. Il componente fotosensibile è uno o una miscela di alogenuri d’argento: bromuro d’argento, cloruro e ioduro. La gelatina viene utilizzata come legante permeabile, consentendo agli agenti di processo (ad es. sviluppatore, fissatore, toner, ecc.) in soluzione acquosa di entrare nel colloide senza spostare i cristalli. In tutti i suoi 100 anni di esistenza, la gelatina nelle emulsioni di pellicole cinematografiche non è mai stata sostituita da nessun altro legante. Ma da qualche parte, in una di tutte queste pubblicazioni di chimica scientifica sulle emulsioni cinematografiche, ho letto che Fuji fece alcune prove (brevettate) con alcol polivinilico come sostituto della gelatina. Questo era tutto, nessun dettaglio. Quindi il primo esperimento che ho fatto insieme a Josephine è stato semplicemente sostituire la quantità di gelatina che uso normalmente per le mie emulsioni di bromuro d’argento con una forma solida di alcol polivinilico (PVA). Sebbene dicesse solubile in acqua, non siamo riusciti a dissolverlo, quindi il primo test si è concluso con meno PVA rispetto alla quantità di gelatina che uso normalmente. Durante lo stato di emulsificazione della preparazione dell’emulsione sembrava che gli alogenuri d’argento insieme al PVA iniziassero a coagulare. Quindi questo primo test è uscito completamente appannato al nero, con un aspetto molto granuloso. Poi ho trovato questo brevetto del 1959/63 della società GAF (che produceva solo brevemente pellicole cinematografiche) e ho scoperto che utilizzavano una concentrazione di PVA del 15% per questa emulsione. Quindi il giro di prova numero 4 è stato una sorta di improvvisazione, con questa formula GAF. Il rivestimento in tutti i nostri test è stato eseguito con un pennello morbido (vernice) su pellicola trasparente da 16 mm che è stata fissata con nastro adesivo su un tavolo e asciugata durante la notte. La pellicola è stata quindi caricata in una fotocamera Bolex, con velocità 12 fps e un obiettivo da 26 mm su f-1.1. Il film è stato esposto all’esterno in una giornata di sole. Dopo l’esposizione è stato sviluppato in 3 minuti, in D97 e in una vasca Lomo. Nessuna agitazione, solo movimenti morbidi su e giù ogni 40 secondi. Il primo camera test è uscito quasi nitido, con ancora un po’ di grana, con solo alcune linee del fotogramma visibili. Durante il secondo camera test è stata filmata la stessa giornata di sole, con le stesse impostazioni, ma questa volta con un’esposizione più lunga (1 secondo per ogni fotogramma). La abbiamo sviluppata e poi…Ecco un’immagine!
Nell’immaginario cinefilo comune, la pellicola è vista come un mezzo più “puro”, come un contenitore esposto all’usura del tempo e quindi più fisico e sincero, rispetto alla “fredda perfezione riproduttiva” del digitale. Coloro che resistono all’industria cinematografica contemporanea sono, con le dovute e necessarie eccezioni, molto più favorevoli all’analogico. Ma, al di là dell’apparenza, il mezzo più democratico ed etico tra i due sembra essere il digitale, soprattutto se si considera l’origine animale del film. Come filmmaker che hanno sentito il bisogno di creare un altro tipo di film, come vi collocate in questa dicotomia, vera o falsa che sia?
J.A .: sia la pellicola che il digitale sono mezzi straordinari a tutti gli effetti. Come artisti e registi è importante conoscere le loro qualità distintive per fare la scelta giusta quando si tratta di scegliere cosa utilizzare per il proprio progetto e processo di lavoro. A causa della disponibilità molto più scarsa delle pellicole oggi giorno, dovuta alla mancanza quasi totale di aiuti da parte delle istituzioni cinematografiche, all’inaccessibilità a un certo tipo di attrezzature e alle scarse possibilità finanziarie – l’uso del video diventa spesso una scelta obbligata. Credo che sia importante che le persone che aspirano a lavorare con il mezzo audiovisivo abbiano più accesso e opportunità di approcciarsi anche al cinema analogico. Mentre per quanto riguarda la questione etica, credo sia piuttosto difficile confrontare le due sorgenti. Il digitale è il più democratico dei due è vero, ma è anche facilmente sostituibile e quindi crea molti sprechi tecnologici. Le fotocamere analogiche in confronto sono tradizionalmente riparate meccanicamente e quindi sono in circolazione e funzionano da 100 anni. Ovviamente la corsa tra analogico e digitale per il Prime Market Spot è stata vinta da tempo. Ora credo che si tratti di garantire che la pellicola analogica rimanga accessibile per l’uso pubblico e per i registi che scelgono di lavorarci, essendo ampiamente apprezzata come mezzo distintivo. La necessità di opzioni più sostenibili e rispettose dell’ambiente continuerà a crescere nei prossimi anni. Lavorando su una valida alternativa vegana per il film analogico possiamo contribuire alla sua continua rilevanza.
Negli ultimi anni si parla sempre più di una profonda messa in discussione dell’antropecentrismo, quel sistema socio-culturale che pone falsamente l’essere umano come causa ed effetto di tutto e che quindi genera ogni sorta di sfruttamento indiscriminato di tutte le identità non umane che popolano il pianeta. Pensate che da questo punto di vista il cinema potrebbe essere in grado di rappresentare, attraverso un certo tipo di immagine, il pensiero di grandi pensatori antispecisti come Horkheimer, Derrida, Singer e Berger al fine di creare una vera resistenza?
J.A.: il cinema è stato affascinante e persino misterioso a volte nel modo in cui è in grado di riflettere la filosofia di alcuni registi attraverso il loro lavoro. A questo proposito, credo che sarebbe in grado, attraverso modi sottili o diretti, di rappresentare tali pensieri. I film sarebbero molto probabilmente una parte vitale nel creare una tale resistenza, a volte come dimostrazione d’avanguardia e talvolta come mezzo di accompagnamento.
I film che prendono sul serio il problema della macellazione degli animali e che riescono a declinarlo dal punto di vista artistico, senza limitarsi a essere dei semplici reportage sui diritti degli animali, sono oggi rarissimi, come se il tema dell’antispecismo fosse qualcosa di estremamente periferico e sostanzialmente non degno di considerazione da parte di molti autori e registi contemporanei. Secondo voi, chi sono gli autori o i singoli film che pongono intelligentemente il problema del superamento di una concezione specista dell’esistenza nel cinema contemporaneo?
J.A.: Ricordo che alcuni anni fa vidi Primate (1974) di Frederick Wiseman e ne fui profondamente commossa. Uno dei film più chiacchierati nel mondo del cinema d’autore è Le Sang des bêtes di George Franju, del 1948: contrasta le immagini di un idilliaco sobborgo parigino con le uccisioni esplicite in un macello locale. Dopo lo screening, gli spettatori discutono del loro shock sulle immagini e talvolta lasciano la sala. In questi giorni la maggior parte dei macelli ha imparato a non far entrare i registi, per proteggere la loro immagine. Nel 1948 Franju è stato invitato nel macello e ha avuto il tempo di esplorare e scoprire liberamente il proprio ambiente. Per questo è diverso dal materiale video girato sotto copertura dagli attivisti. Ma Sono consapevole che i due esempi che ho appena elencato non sono considerati lavori recenti e spero di vedere nel prossimo futuro più autori e registi creare film affascinanti incentrati sul tema dell’antispecismo e sulla messa in discussione dell’antropocentrismo.
State andando avanti con la sperimentazione che avete iniziato con Vegan Analogue Film?
J.A.: Sì. Attualmente stiamo cercando di fare domanda per un programma di studio per ricercare ulteriormente e migliorare la qualità del materiale, nonché entrare in contatto e far progredire un dialogo con case di produzione cinematografiche che potrebbero produrre film vegani in futuro.
From 4 to 8 March 2019, directors Esther Urlus and Josephine Ahnelt decided to create a hand-made 16mm black and white vegan negative, thus showing the existence of a non-animal alternative for analog film material. After numerous attempts, they managed to produce an image, which is the first plant-based film in the history of cinema, Vegan Analogue Film. These are their final results. We asked Esther and Josephine what prompted them to carry out this experiment and what practical and theoretical implications this could hold for the future of film.
Why did you feel the need to create a film by replacing gelatin of animal origin?
Josephine Ahnelt: while studying at the Friedl Kubelka Filmschool I started working and appreciating analogue film in 2007. Initially propelled by a health-scare in my family I went vegan five years later in 2012. Now my Motivation to be vegan is most rooted from the great benefits it has on our environment and wanting the horrendous suffering inflicted on animals to end. Gradually I rid my whole lifestyle of any animal products. However, because of the unique workstyle and aesthetic of analogue film that has greatly influenced and accompanied my work– it has been the One non vegan Item I have not been able yet to let go of. This Combination of seeing the distinctive qualities that analogue film possesses which cannot be replaced by video and there not being a viable option available motivated me to produce Vegan Analogue Film.
How does the technical process to get to the production of a vegan film work?
Esther Urlus: I have been making light-sensitive emulsions for a number of years now, photographic silver based emulsions suitable to coat on clear 16mm. For this I’m using formulas based on the discoveries of the photo and cinematographic pioneers. Most of these silver-gelatin emulsion formulas were for photographic purposes to coat on glass plates or paper. Practically all of these formulas can also be used on strips of 16mm clear film. A black & white emulsion is easily made with some silver nitrate, potassium bromide and gelatin. It’s actually similar to making mayonnaise. A photographic emulsion is a fine suspension of insoluble light-sensitive crystals in a colloid sol, usually consisting of gelatin. The light-sensitive component is one or a mixture of silver halides: silver bromide, chloride and iodide. The gelatin is used as a permeable binder, allowing processing agents (e.g., developer, fixer, toners, etc.) in aqueous solution to enter the colloid without dislodging the crystals. In all its 100 and more years of existence the gelatin in motion picture film emulsions was never replaced by any other binder. But somewhere, in one of all these scientific chemistry publications on motion picture emulsions, I did read that Fuji made some try-outs (patented) with polyvinyl alcohol as substitute for gelatin. That was all, no details. So the first experiment I did together with Josephine was just replacing the amount of gelatine I normally use for my silver-bromide emulsions with a solid form of Polyvinylalcohol (PVA). Although it did say soluble in water we couldn’t get it to dissolve, so first test ended with less PVA than the amount of gelatin I normally use. During the emulsificationstate of preparing the emulsion it looked like the silverhalides + PVA started to clot. Thus this first test came out completely fogged to black, with a very grainy look. Then I found this patent from 1959/63 from the GAF company (that only briefly manufactured motion picture film) and found that they used a 15% PVA concentration for this emulsion. So tryout number 4 was a freestyle on this GAF formula. Coating in all our tests was done with a soft (paint) brush on clear 16mm film which was taped flat on a table and dried overnight. The film then was loaded in a Bolex camera, speed 12 fps, and a 26mm lens on f- 1.1. The film was exposed outside on a sunny day. After exposure developed 3 min in D97 in a Lomo tank. No agitation, only soft up and down movement every 40 sec. Camera test 1 came out almost clear, with still quite some grain, very vaguely there were some frame lines visible. Camera test 2 was filmed the same sunny day, same setting (12 fps, f-1.1) but this time with long exposure (1 sec for every frame). Developed and then…There was an image!
In the common cinephile imagery, film is seen as a more “pure” medium, as a container exposed to the wear and tear of time and therefore more physical and sincere, compared to the “cold reproductive perfection” of digital. Those who are resistant to the contemporary film industry are, with due and necessary exceptions, much more in favor of film. But, beyond appearance, the most democratic and ethical means between the two seems to be digital, especially if we consider the animal origin of film. As a filmmaker who felt the need to create another type of film, how do you place yourself within this true or false dichotomy?
J.A.: Both analogue film and video are amazing mediums in their own right. As an artist and filmmaker it’s important to know their distinctive qualities to make the right choice when it comes to choosing for your own project and work process. Due to the much more scarce availability of analogue film, may it be in visibility at film institutions, accessibility of material and equipment or trough financial possibilities – using video often becomes the choice by default. I believe that it’s important that people aspiring to work with audiovisual medium have more access and opportunity for practical exposure than analogue film. In regards to the ethical means, I again feel its hard to compare the two. Digital is the more democratic of the two but also easily replaced with the next thing and therefore creates a lot of technological waste. Analogue cameras in comparison are traditionally repaired mechanically and thus have been around and working for a 100 years. The race between analogue and digital for the Prime Market Spot has been won some time ago. Now, I believe it’s about making sure analogue film stays accessible for public use and the filmmakers who choose to work with it, by being widely appreciated as a distinctive medium. The need for more sustainable and environmental friendly options will continue to grow in the upcoming years. By working on a viable vegan alternative for analogue film we can contribute to its continued relevancy.
In recent years there is more and more talk of a profound questioning of anthropecentrism, that socio-cultural system which falsely places human beings as the cause and effect of everything and which therefore generates all kinds of indiscriminate exploitation of all the non-human identities that populate the planet. Do you think that from this point of view cinema could be able to represent through a certain kind of image the thought of great antispecist thinkers such as Horkheimer, Derrida, Singer, Berger, in order to create a real resistence?
J.A.: cinema has been fascinating and even mysterious at times in the way it is able to reflect the philosophy of certain filmmakers trough their work. In that regard I believe that it would be able via subtle or direct ways to represent such thoughts. Movies would most likely be a vital part in creating such a resistance – sometimes as an avant-gardist display and sometimes as accompanying piece.
Movies that take the problem of animal slaughter seriously and that manage to decline it from an artistic point of view, without being like simple animal rights reportage, are very rare nowadays, as if the topic of antispecism were something extremely peripheral and substantially not yet worthy of consideration by many contemporary authors and filmmakers. In your opinion, who are the authors or single movies that intelligently pose the problem of overcoming a speciesist conception of existence in contemporary cinema?
J.A.: I remember a few years ago seeing Primate (1974) by Frederick Wiseman and being deeply touched by it. One of the most talked about films in the Essential Cinema Programs is Le Sang des bêtes (1948) by George Franju. It contrast images of an idyllic seeming Parisian suburbs with graphic killings at a local slaughterhouse. After the screening viewers discuss their shock over the images and sometimes leave the cinema mid movie. These days most slaughterhouses have learned not to let in filmmakers, as to protect their image. In 1948 Franjus cinematography has the poetic form of someone who has been invited in and given the time to freely explore and discover their environment. In this way it feels different from the undercover videomaterial shot by activists. I’m aware that the two examples I just listed aren’t considered recent work and I hope to in the near future see more authors and filmmakers create fascinating films centering around the topic of antispecism and questioning of anthropocentrism.
Are you moving forward with the experimentation you started with Vegan Analogue Film?
J.A.: Yes. Currently I’m looking into applying for a study program to further research and develop the quality of the material as well as get in contact and progress a dialogue with film production houses who might produce vegan film in the future.