È soprattutto su una sezione fisiologicamente nevralgica come il concorso principale, che si sono posati gli occhi di chi si chiedeva se, e in che misura, il rinnovato team (a cominciare dalla direzione di Vanja Kaludjerčić) avesse portato con sé elementi di discontinuità rispetto al passato.
La risposta, affermativa, chiama qualche considerazione ulteriore. Considerazioni che, anche tenuto conto delle circostanze estrinseche (il covid) che hanno fatto di questo International Film Festival Rotterdam probabilmente l’edizione che ha dovuto affrontare le sfide più ostiche di tutte le sue cinquanta, portano a essere decisamente ottimisti sul corso che la Tiger Competition sembra aver imboccato da quest’anno.
Niente stravolgimenti radicali, com’è giusto che sia. Ma al netto del rischio di astrazione che sempre si corre in questi casi, il valore aggiunto della line-up di quest’anno può essere riassunto nei termini che seguono: se buona parte del successo del lavoro di selezione dipende tradizionalmente dal ricorrere il meno possibile al compensare gli esiti più incerti, velleitari, irrisolti o fragili affidandosi alle “punte” (che a Rotterdam non sono mai mancate: si pensi solo l’anno scorso a El Año del Descubrimiento di Luis López Carrasco e alla robusta eco internazionale di cui ha beneficiato nei mesi successivi), per mirare invece a un tipo di omogeneità che si combini ossimoricamente con “varietà” tanto quanto rimi con “solidità”, ci si può in questo caso dichiarare indubbiamente soddisfatti.
Merito senz’altro di un’asticella qualitativa piuttosto alta – ma non è solo questo. Per degli esordi, ed è a loro che è riservato il concorso principale, la leggibilità e l’incasellamento in qualche framework riconoscibile è una specie di male necessario, soprattutto oggi e sempre di più. E lo si dice da un lato con la consapevolezza che ciò non sia per forza un male, e dall’altro con tutta la riluttanza ad utilizzare un brutto termine come “framework”, ora che da quando hanno perso storicamente centralità siamo tutti orfani di un termine più sano come “generi”. Ebbene, molti dei titoli della Tiger Competition 2021 hanno in comune l’essere progetti fortemente leggibili, a colpo sicuro, che tuttavia fanno mostra con altrettanta nitidezza di un’estetica che da tali leggibilissime premesse riesce, con lucidità, a deviare eccentricamente, approdando così a ciò che un vasto mare di esordi oggettivamente non ha: una ragion d’essere.
È con indiscutibile lucidità, ad esempio, che Bipolar di Queena Li mette a nudo il proprio meccanismo, illustrato quasi didascalicamente nella primissima scena. Il film intreccia due movimenti che, come due calamite, tanto più si avvicinano quanto più si respingono: uno spinge la protagonista a tornare sul luogo del trauma (la morte del fidanzato) per superarlo, mentre l’altro asseconda la sua fuga da esso, salendo in Tibet prima di scendere fino al mare. Come esige il galateo del road movie, ogni tappa, ogni incontro, fa storia a sé – ma a fare la differenza è come Li tratta questi nuclei autonomi inanellati in una struttura tipicamente debole ed episodica: in ognuno di essi o quasi, Li si prende il tempo di costruire non solo un mood, ma un vero e proprio respiro. Accumulando dettagli e leitmotiv visuali, qualcosa come uno spessore si forma, salva il compositivamente scatenato bianco-e-nero dal rischio della bidimensionalità e lo rende un ambiente a tre dimensioni da esplorare palmo a palmo. Facendo prendere così corpo ai singoli episodi, i due rischi complementari del bozzettismo fine a se stesso (pericolosissimo in un road movie) e del preziosismo figurativo si annullano a vicenda, e il mood o il respiro che li sostituisce finisce per farci coinvolgere genuinamente in un’elaborazione del lutto che sarebbe altrimenti caduta nel banale.
Bipolar insomma non è, grazie al cielo, quell’indie che avrebbe potuto essere sulla carta in base al suo soggetto. Come non lo è Gritt di Itonje Søimer Guttormsen. Cosa, più di un ritratto di una non più giovane aspirante artista con in mano nulla più che le proprie velleità, si presterebbe all’autoironia, all’autoindulgenza e all’autocommiserazione delle ruminazioni mumblecore? Qui però, e per fortuna, non c’è tempo per nessuna di esse: un montaggio tradizionale (continui cambi di asse, stacchi profilo-fronte, vicino-lontano etc.) ma oggettivamente in stato di grazia trascina tutto, i massimi sistemi come le trivialità quotidiane, in un vortice inarrestabile. Agli antipodi dell’informe pseudomimetico in cui si macerano mumblecore e truffe varie, il montaggio mette in forma una dinamicissima entropia vettoriale: quell’esistenza, la propria, che Gritt sa bene star venendo sprecata, non ha nulla di informe, ma è una spirale che fa mulinare sempre più veloce, stringendoli sempre più l’un l’altro, il contingente e l’essenziale. Per non farsene stritolare, Gritt approda all’unico, prevedibile esito possibile: trasformare la propria vita in un rituale, anziché redimere in un’opera quell’abisso tra arte e vita che Gritt sente, a ragione, che il mondo intero, e non solo lei stessa, non riesce più a riempire con l’azione.
Gritt, lo si sarà capito, cerca con profitto la commistione con l’arte contemporanea, e non disdegna un buon numero di feticci classici di esperimenti del genere: l’impiego occasionale del 16mm, e ancora più tipicamente i flash-forward del finale sparpagliati enigmaticamente lungo tutto l’arco del film. Li troviamo identici, non a caso, anche in Agate Mousse, da un paese come il Libano che in anni recenti ha puntato molto, e spesso discutibilmente, sull’arte contemporanea come strada maestra per il cinema. In linea con molti di quei tentativi, Selim Mourad conta di trovare il cinema portando all’estremo l’autoreferenzialità dell’arte contemporanea, differenziandosene per eccesso di autocoscienza. I risultati gli danno ragione: il suo film parte come fosse un remake del terzo episodio di Caro Diario girato da quel Moretti reloaded che è Xavier Dolan, ma solo per trovarsi alla fine, invece, dalle parti di Zardoz. Dallo specchio al cristallo dunque: in mezzo, un caleidoscopio di cellule che tanto appaiono figurativamente autosufficienti, quanto si rivelano a posteriori interconnesse tra loro per dare forma a un complesso, affascinante, inoppugnabile percorso immobile di autopoiesi personale. Il corpo, contemplato all’inizio narcisisticamente, si perde e scompare in questo immobile percorso per immagini e suoni (spesso sconnessi) che, declinando brillantemente la forma ricorrente del cerchio, conduce al punto in cui vita e morte, omosessualità ed eterosessualità, passato e presente, il numero due e il numero tre, cerchio e linea, stasi e movimento, smettono di essere reciprocamente contraddittori. Ed è in quel punto che Selim trova, finalmente, il cinema.
Già con questi tre film parrebbe rendersi identificabile, in questa selezione, la linea accennata più sopra: ampia leggibilità dei progetti in proficua tensione con le forme adottate, spesso in contropiede. Vale tuttavia la pena di precisare quest’ipotesi oltre. Sembrerebbe infatti, più specificamente, che questa selezione abbia voluto privilegiare in particolare quegli esordi che riescano, consapevolmente e intenzionalmente, a evitare di venire imprigionati dal proprio progetto di partenza; che sappiano cioè, individuarne e superarne i limiti intrinseci. In questo senso è esemplare Liborio di Nino Martínez Sosa. Scomodare una figura centrale della storia della Repubblica Domenicana come Olivorio “Liborio” Mateo, scomparso e ricomparso nel 1908 millantando (?) una resurrezione per guidare la propria comunità verso un’utopica autodeterminazione, vuol dire scontrarsi con una materia densissima dal punto di vista politico, sociale, teologico, storico e quant’altro. Martínez Sosa riesce a condensarla e alleggerirla opportunamente in pochi tratti. Sceglie una costruzione arzigogolata (sette capitoli, ognuno affidantesi a un diverso punto di vista sul dipanarsi lineare dell’intrigo), esponendosi dunque al rischio di meccanicità narrativa, che però dribbla alla grande con un magistrale uso congiunto del digitale, degli ambienti e della direzione degli attori, tale per cui, distanziando le componenti dell’azione nel tempo e nello spazio, a ogni momento il film sembra aprirsi incertamente sul momento presente e sulla flagranza del set, anziché limitarsi a soddisfare l’architettura della sceneggiatura.
Un’analoga spinta costruttiva verso i propri limiti informa anche, in parte, Landscapes of Resistance. In un film che accompagna per contrasto i ricordi estremi ripercorsi dalla voce di Sonja, sopravvissuta ad Auschwitz, con la quiete di piani paesaggistici perlopiù fissi, ci si aspetta per forza qualche ponte concettuale gettato verso il presente. Marta Popivoda, però, ha cura di lasciare questa traccia solo abbozzata (perlopiù con scritte in sovrimpressione), e molto sullo sfondo, come dev’essere: pochi punti esclamativi, molti punti interrogativi. La forza del film, tuttavia, è altrove: nella precisione della sua tessitura, nell’avvicendarsi alchemico del verde e del blu interrotto nella parte centrale dal grigio, nel sapere perfettamente dove e perché collocare le poche deviazioni formali (una carrellata qui, una panoramica verticale là, uno sporadico monumento), nel saper captare con amore e rispetto la fragilità del corpo dell’interlocutrice… non manca un sospetto di leziosità, ma nulla che in un primo film non sia ampiamente scusabile.
Quanto descritto sin qui non deve far pensare che il valore medio (lo ripetiamo: più che soddisfacente) della competizione sia dovuto al deliberato calcolo estetico cui si affiderebbero in generale i suoi titoli. Si sa: i film vanno tanto più lontano quanto più sono capaci di trovare quello che non hanno cercato, quando i sintomi di qualcosa di più ampio rimangono in qualche modo impigliati tra i fotogrammi. Una parte significativa della selezione ha questa freschezza: è il caso, soprattutto, di Black Medusa di Ismaël e Youssef Chebbi. Con buona pace del pressbook, delle interviste e quant’altro, non è il #metoo che si ravvisa dietro la protagonista, giovane dark lady che adesca uomini nelle notti di Tunisi per poi aggredirli con violenza, o ucciderli. La violenza che lei pare aver originariamente subìto, un flirt spensierato che degenera in un disturbante fisting orale, è mostrata in modo troppo onirico e irreale (troppi toni biancastri in quel flashback, in un film altrimenti scurissimo) per essere un semplice rattoppo causale. No, quella scena è piuttosto un indice enigmatico del vero fulcro del film: la paura del contatto. Lo conferma, peraltro, l’unica vittima che lei sembra risparmiare: un tassista che non la tocca, ma va a masturbarsi lontano dal suo sguardo. La paura del contatto infatti non appartiene tanto alla protagonista, quanto alla città intera: senza che alcuna programmaticità o intenzionalità in questo senso da parte degli autori sia rintracciabile o anche solo probabile, sulla superficie di Black Medusa si accumulano i segni di una minaccia oggi avvertita come esiziale nell’inconscio collettivo di molte città del bacino mediterraneo (e non solo), ovvero l’airbnbizzazione, la trasformazione dei centri in (costosi) musei a cielo aperto con conseguente disgregazione del tessuto urbano vivente, spersonalizzazione, auto-ghettizzazione, anonimato. Il contatto tra gli abitanti smette insomma di essere la linfa della città. Proprio in un museo, infatti, ha luogo la scena forse più filmicamente felice di Black Medusa, l’unica in cui il bianco-e-nero non è un elegante tratto di penna, ma un fraseggio ampio e arioso, occasionato dall’inseguimento di un’imprecisata figura umana. Più in generale, le facciate dei palazzi, le tangenziali, i vicoli popolari deserti sono tutti segni muti (come la protagonista, del resto), di cui è palpabile il timore che essi non rimandino a null’altro che la differenza di classe che immediatamente manifestano. Su questi sintomi vuoti, sintomi del potenziale svuotamento dell’anima della città, i due autori si soffermano a lungo senza costruire alcun discorso programmatico, e in effetti non ce n’è bisogno affinché la storia della protagonista si imponga come il travestimento onirico di una diffusa angoscia socio-urbanistica: a questo basta e avanza la muta abbondanza di questi sintomi (un altro esempio: un parco affollato, in una fascia oraria presumibilmente tardo-pomeridiana; la cinepresa indietreggia molto, molto lentamente, fino a che a lato dell’inquadratura appaia un’imprecisata costruzione tardo-modernista che sembra torreggiare minacciosamente sul resto del quadro). È la tipica “rabdomanzia” semicosciente che riesce ai film imperfetti nel senso migliore del termine, quelli che non temono di sfrangiarsi (p.es., qui, nella non saldissima direzione degli attori) pur di affidarsi in toto a una preziosa, vitale sensibilità esplorativa.
Chi invece sembra già “nato imparato” è Vinothraj P.S., talento visivo purissimo che vari cineasti del Tamil Nadu (da tempo tra le realtà regionali più vitali del subcontinente indiano) hanno aiutato a emergere, fino al meritato primo premio di questa Tiger Competition. Un’anziana inquadrata dall’alto che per minuti scodella la poca acqua che affiora da una pozzanghera sotto a una roccia; stacco, una fila di donne che aspettano il loro turno per prenderne a propria volta. In qualsiasi altro film, queste sarebbero state le prime due inquadrature, quelle che presentano l’ambiente su cui si svolgerà l’azione, segnato da una micidiale siccità. In Pebbles (“ciottoli”), invece, sono le ultime due: arrivano quando non c’è più alcuna nuova informazione da recepire (che quella regione sia segnata dalla siccità l’abbiamo capito da un pezzo), ma abbiamo orecchie per il pattern sonoro della ripetitiva scodellatura, e occhi per quello geometrico della disposizione a schiera delle donne, oltre che per il contrasto tra quella orizzontalità e la verticalità dell’inquadratura precedente. Occhi e orecchie affinati, durante la proiezione, da un fuoco di fila di soluzioni di regia di imbarazzante varietà: ogni scena sembra girata da tre registi diversi – tutti ottimi, beninteso, e senza che intervenga nessuna disarmonia o ridondanza perché le poche componenti su cui tutto si regge (un padre, un figlio, un ambiente semidesertico) sono pur sempre un fine, e non un mezzo. Massima sensibilità per il paesaggio, come per il dramma di un padre indifendibile e di un figlio fedele against all odds, ma nessun bisogno di psicologia: tutto è veicolato in poche ma precisissime pennellate gloriosamente esteriori. E se sulla tavolozza abbondano le digressioni, è perché il dinamismo registico di Vinothraj P.S. è innanzitutto ludico: in un universo spietatamente strumentale come quello, la dimensione del gioco è sempre dietro l’angolo, evidente persino in un allucinante caccia al topo per non morir di fame, seguito dal povero animale azzoppato, infilzato e arrostito. Conscio che le due facce della medaglia sono inseparabili, quella infernalmente nevrotico-ossessiva del padre come quella innocentemente ludica del figlio, Vinothraj P.S. si sforza di sbilanciarsi sul secondo e di ricalcarne l’atteggiamento. Perché a un certo punto si mette dei ciottoli in bocca? Così, tanto per fare. O meglio, come impareremo solo alla fine, per collezionarli. Così, per gioco.
Nessun tentativo, per quanto velleitario, di definire che cosa sia il cinema può prescindere da questa gratuità. Per i bilanci ci sarà tempo dopo la seconda tranche, prevista per giugno, ma già dopo queste prime sezioni appare chiaro che le mille contingenze che un festival si trova costretto a navigare (anche tragiche, come in questo 2020-2021) non hanno fatto perdere di vista al nuovo IFFR cosa sia il cinema, dove trovarlo, come assemblarne gli esempi, quali talenti promuovere.