LA VOLPE (Michael Powell, Emeric Pressburger, 1950)
Film maledetto della coppia Powell e Pressburger, La volpe fu massacrato al montaggio dal produttore David O. Selznick, scontento del risultato e amareggiato dai pochi primi piani della moglie Jennifer Jones. Solo nel 1985 si rimise mano alla versione originale restaurando il director’s cut, più lungo di mezzora rispetto alla pellicola in circolazione. Finalmente disponibile in dvd italiano, il film è da considerare oggi una delle pietre miliari della poetica dei due autori, al pari di Narciso nero e Scarpette rosse, oltre a offrirsi come un’opera aperta a interessanti letture sulla psicologia della protagonista femminile. Una bella zingara – inseparabile dal suo cucciolo di volpe – promette al padre di sposarsi al primo pretendente finendo nelle solide braccia di un reverendo per fuggire da un focoso signorotto locale, che tornerà a pretendere le sue attenzioni. Il conflitto tra ragione e sentimento, e ancora di più tra spirito e carne si dibatte in un’eroina scissa, la cui parte animale (la volpe che tiene sempre in grembo) ne rappresenta in realtà l’anima, lasciata in custodia presso il focolare domestico anche quando si seguiranno le tracce del demonio, in una sequenza in cui dominano meravigliosi totali illuminati da un magistrale Technicolor. Il titolo originale (Gone to Earth) preannuncia il tragico finale, che scioglie il conflitto, facendo tornare alla madre-terra colei che non è stata in grado di preservare l’anima dalla devastazione della passione. [Daniela Persico]
LA CONDIZIONE UMANA (Kobayashi Masaki, 1959-61)
Kobayashi Masaki è conosciuto in Occidente soprattutto per i film in costume, su tutti l’ipnotico horror antologico Kwaidan – Storie di fantasmi (Kaidan, 1964) e il film di samurai Harakiri (Seppuku, 1962), meditazione cinica sui legami tra storia e potere. La distribuzione in dvd della trilogia di La condizione umana (Ningen no jōken, 1959-1961), in giapponese con sottotitoli in italiano, è l’occasione per scoprire un Kobayashi attivo sul fronte dei film contemporanei, più vicini al suo sentire e centro di quasi tutto il suo cinema. Ispirato tanto all’omonimo romanzo di Gomikawa Junpei, quanto ai ricordi bellici dello stesso regista (pacifista costretto ad arruolarsi, spedito in Manciuria, che rifiuta le promozioni per protesta), La condizione umana è un ritratto epico e insieme tragico di un giovane ingenuo e idealista negli anni crudeli intorno alla Seconda Guerra Mondiale. Per evitare il servizio militare, Kaji (interpretato con trasporto da Nakadai Tatsuya) finisce in Manciuria sotto occupazione giapponese a gestire un campo di lavoro di prigionieri cinesi. Nel tentativo di mantenere una dimensione civile, si scontra con i superiori e porta all’esecuzione di molti. Finisce arruolato forzatamente e poi prigioniero di guerra in Unione Sovietica. Lo sguardo umanista di Kobayashi racconta con precisione dolorosa la distruzione delle illusioni sotto la forza di conformismo cieco e sbronza imperialista giapponese. Grande successo critico, poi finito nell’oblio, è un tassello fondamentale nella storia del cinema giapponese. [Stefano Locati]
CLÉO DALLE 5 ALLE 7 (Agnès Varda, 1961)
Realizzato con un budget esiguo in bianco e nero, a eccezione dei titoli di apertura a colori sui tarocchi, Cléo dalle 5 alle 7 è il capolavoro di Agnès Varda. Cléo (Corinne Marchand) è una cantante frivola e vanesia la cui vita leggera viene sconvolta dall’angosciosa attesa dei risultati di un esame medico, verso il quale nutre un forte presentimento negativo. Nell’arco di due ore, come suggerisce il titolo del film, Varda segue la sua affascinante protagonista tra le vie di Parigi, in un percorso di presa di coscienza che culminerà nell’incontro con un soldato (Antoine Bourseiller) in attesa di partire per l’Algeria. Seguendo il ritmo discontinuo del tempo interiore di Cléo, a volte dilatato in minuscoli gesti e altre accelerato nella precipitosa corsa verso l’epilogo, si assiste alla decomposizione delle sue certezze, in sincrono con quella di un intero Paese. La vicinanza con l’evento traumatico della malattia risveglia in Cléo una nuova consapevolezza, mentre con grazia e intelligenza Varda mostra il passaggio dall’ossessione di essere vista come donna di spettacolo, bella, giovane e capricciosa, al suo riappropriarsi di uno sguardo autentico verso il mondo che la circonda, e in particolare verso la città di Parigi, che, tra caffè e boutique, saltimbanchi e passanti anonimi, amplifica il senso di smarrimento e di impotenza della solitaria protagonista. Nello spazio sospeso condiviso con il soldato si completa la metamorfosi di Cléo, pronta ad abbandonare la paura per l’accettazione grazie alla vicinanza di uno sconosciuto che, più di tutte le altre persone della sua vita, appare l’unico in grado di vedere la sua vulnerabilità e di entrare in connessione con la sua angoscia. Questo tempo svuotato e soggettivo, apice del convivere di bellezza e morte, ritrova Cléo ormai trasformata e finalmente adulta, soggetto attivo nella sua vita. [Carlotta Centonze]
MORGAN MATTO DA LEGARE (Karel Reisz, 1966)
Finalmente disponibile in home video in Italia uno dei tasselli fondamentali del free cinema inglese, irriverente opera cardine di un movimento che – come tutti i coevi – si prefiggeva di spezzare l’insieme dei dogmi e delle normative sociali, politiche e culturali imposte dalla classe borghese dominante. Morgan matto da legare (Morgan: A Suitable Case for Treatment) è una bizzarra commedia satirica che smaschera i costrutti perbenisti e conformi della società dell’epoca in nome di una libertà primordiale ormai perduta, capace solo di sopravvivere – e non del tutto – nel regno animale. Tra eccentriche gag ed espliciti riferimenti al contesto culturale dell’Inghilterra degli anni Sessanta, il film di Reisz ruota attorno al tentativo di riconquista da parte di Morgan (David Warner) della moglie Leonie (Vanessa Redgrave) – da cui il rimando all’animale più nobile della savana – decisa a risposarsi con un altro uomo. Morgan è un outsider cresciuto nella fede marxista, incompreso fino a essere considerato pazzo: rifiuta categoricamente ogni imposizione esterna, a partire dall’imperativo di costruire una famiglia o avere un lavoro stabile. Rigetta le tristi e innaturali regole della società in cui vive identificandosi – fino alla totale simbiosi – con la figura del gorilla, un King Kong che invade la città non solo per amore ma per spezzare quelle invisibili catene sociali che hanno tentato di addomesticarlo. La conclusione è amara: “un’isola in un mondo di dolore” può esistere solo nella fantasia. [Vanessa Mangiavacca]
COSÌ BELLA, COSÌ DOLCE (Robert Bresson, 1969)
Un foulard candido che atterra delicatamente al suolo, una camicia bianca che si macchia di rosso carminio: il suicidio della sedicenne Elle si compie fuori campo, ma si materializza, negli occhi e nel cuore dello spettatore, attraverso poche eccezionali campiture. Nel confrontarsi con la novella La mite (1876) di Fëdor Dostoevskij, Robert Bresson abbandona il bianco e nero per sperimentare un mezzo espressivo sino a quel momento temuto, perché dispersivo e “difficile da dominare”. Esattamente come la giovane moglie interpretata da Dominique Sanda, così bella e così dolce da rendere arduo qualunque tentativo di controllo e di intima comprensione da parte del marito Luc che, avvinto dai sensi di colpa, non ha altri strumenti per cercare di assolversi che la parola, la ricostruzione verbale. Eppure, in quello che oggi chiameremmo reboot più che trasposizione – tanta è la distanza formale dalla fonte letteraria – la parola non è veicolo del racconto, né chiave per l’introspezione psicologica. Al contrario è elemento funzionale all’immagine, e un appiglio illusorio sempre parziale, imperfetto, incapace di penetrare tanto i pensieri della mite consorte, quanto lo sguardo imperturbabile della domestica che ascolta. Capolavoro derubricato a opera minore dalla critica dei primi anni Settanta, Così bella e così dolce coglie, nonostante e in virtù dell’atonalità emotiva dei suoi personaggi, le dinamiche più complesse e sottili della prevaricazione maschile, rintracciando nel possesso e nelle aberranti logiche borghesi dello scambio le ragioni dell’inattuabilità di qualsiasi discorso amoroso. [Francesca Monti]
PAROXISMUS (Jesús Franco, 1969)
Una donna fatale fa ritorno dall’oltretomba per vendicarsi degli aguzzini che l’hanno torturata e uccisa. Considerato da alcuni il capolavoro del regista spagnolo, è senz’altro tra quelli che testimoniano al meglio lo spirito jazzistico-onirico di un approccio filmico basato sulla dissoluzione della linearità narrativa a favore dell’improvvisazione libera e delle variazioni circolari sul tema. I riferimenti a Sacher-Masoch del titolo internazionale (Venus in Furs) sono posticci e trovano riscontro solo nel nome della protagonista Wanda e in alcune scene di sadismo, peraltro ricorrenti nella cinematografia di Franco. Tra echi di Vertigo e Marienbad, la glaciale Maria Rohm si vendica di Klaus Kinski, Dennis Price e Margaret Lee in scene sensualmente visionarie che rilucono come frammenti preziosi in un’opera avvolta da un senso di incompiutezza e approssimazione. Approssimazione anche nel senso di avvicinamento: al film che sarebbe potuto essere, con più soldi, più tempo a disposizione. È come se ogni film di Franco non fosse solo tale ma anche lo studio per il film stesso, ancora da fare. Ma si parla pur sempre del regista più prolifico della storia, che nel 1969 ne gira altri 7 e a fine carriera avrà superato i 200. A ciò si aggiunga che la versione americana (rimaneggiata al montaggio dal distributore con l’aggiunta di un voice over del protagonista) e quella italiana (a lungo irreperibile e edita per la prima volta in dvd) sono due film completamente diversi… [Alessandro Stellino]
AMERICA, AMERICA DOVE VAI? (Haskell Wexler, 1969)
Per curiose coincidenze di distribuzione il 2020 ha visto sovrapporsi l’uscita su Netflix de Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin e quella in home video di America, America dove vai? (Medium Cool) di Haskell Wexler. Sono due testi che nascono dallo stesso nodo storico – le manifestazioni alla convention democratica di Chicago del 1968 – e si pongono lo stesso interrogativo – l’esistenza della vittima come segno della Storia, o anche la legittimità di quella concezione tragica che vede proprio la vittima come segno necessario per l’avanzamento del nuovo – ma ragionano e rappresentano in modo molto diverso: il primo dal lato della problematizzazione dello sguardo, il secondo dal lato di una (presunta) storicizzazione della coscienza politica. Il film di Wexler, importante direttore della fotografia qui al suo primo film da regista (e sceneggiatore), ancora sorprende: scritto in una sintassi mista allora inedita, tra i corsivi impazziti della macchina da presa, condotta a mano dal cineasta stesso nelle strade della protesta sessantottina, e i grassetti regolari di una storia di finzione costruita dentro alla vicenda storica, è un gesto di “cinema diretto” che intercetta l’immagine viva di un’America priva di direzione. Immagine viva non soltanto per la vicinanza sensoriale alle atmosfere, ma perché interrogata da un’intuizione, da un problema di posizione rispetto all’evento, da un’apertura sempre presente al senso tragico della Storia. Il documentario sulla lavorazione del film si intitola Look Out, Haskell: It’s Real perché in un momento di violenza, ripreso nel film, si sente questa frase gridata ad alta voce al regista. [Leonardo Strano]
TAKING OFF (Milos Forman, 1971)
Un debutto americano memorabile e mai abbastanza ricordato e celebrato, quello di Milos Forman nel 1971. A breve distanza dai suoi exploit nella nová vlna ceca e dalle conseguenze della primavera di Praga, il regista, ormai esule, si affida alla crème della controcultura dell’epoca – Jean-Claude Carrière tra gli sceneggiatori, la cassavetesiana Lynn Carlin e Buck Henry, umorista e sceneggiatore di Il laureato, tra gli interpreti – per realizzare un limpido esempio di opera sintonizzata sul proprio tempo e insieme vaticinante sull’avvenire prossimo. In un montaggio lucido e spietato le ingenuità della generazione che credeva di cambiare il mondo, rappresentate da stralci di un’audizione musicale, si alternano alla dabbenaggine di quella dei genitori, totalmente all’oscuro di quanto stia avvenendo tra le mura domestiche. La tragicomica indagine che i coniugi Tyne avviano, in cerca della figlia Jeannie, diviene così la miccia che fa esplodere le contraddizioni in seno ai milieu apparentemente inconciliabili. A passare alla storia è soprattutto la sequenza della sessione di marijuana collettiva a cui si prestano gli adulti square, immediatamente accostata a M.A.S.H., Il dittatore dello stato libero di Bananas o Shampoo nel novero delle scene cult e dissacranti dell’epoca. Ma è tutto Taking Off a meritare un tardivo recupero, agevolato dalla riedizione in dvd per A&R. [Emanuele Sacchi]
EFFETTO NOTTE (François Truffaut, 1973)
Storia di un set e di una troupe al lavoro, film che racconta la realizzazione di un film che non vedremo mai se non nel suo farsi disorganico, Effetto notte (La nuit américaine) è stato troppo facilmente scambiato per una piccola enciclopedia del fare cinema, un bignami del mestiere, e così trasmesso a chi del cinema voleva imparare nozioni, nomenclature e prassi, come da un libro di scuola. Dietro alle vesti di una commedia quasi rosa, fatali per un’amicizia decennale quale quella con Godard, Truffaut elabora intorno a carrelli, gru, luci, e gattini insofferenti ai ritmi della fiction, qualcosa di molto più personale e irriducibile: una meditazione sospesa tra vocazione e vanità, tra l’inseguire il sogno – da soli, con gli altri, con alcuni sconosciuti che in poche settimane diventano fratelli e amanti, per poi separarsi fino a chissà quando – e il riconoscerne l’assoluta, malinconica penultimatività rispetto alla vita, che non a caso si intromette in modo impertinente, nel gioco di una gravidanza tenuta nascosta come nello shock di una morte improvvisa. Un film sulle convenzioni, sui patemi e sullo sforzo di trarne una conoscenza, sullo stereotipo e sul tradimento dell’ideale, e insieme sul bisogno di non cedere al disincanto, al cinismo, alla sordità (letterale, non a caso, nel regista interpretato dal regista). Così, anche non visto, il misterioso Vi presento Pamela esiste laddove qualcuno sfidi l’inutile con la bellezza di un gesto, fosse anche per mezzo di un effetto speciale inventato a Hollywood. [Marco Longo]
GLI AMICI DI GEORGIA (Arthur Penn, 1981)
Come molte altre opere perdute a causa delle ristrettezze economiche in cui la MGM versa ormai da anni, anche Gli amici di Georgia (Four Friends) non è mai riuscito a guadagnarsi il restauro del suo master originale, rimanendo disponibile solo in standard quality. Grazie alla recentissima edizione italiana in dvd è ora però finalmente possibile rivedere anche da noi uno dei pezzi di storia del cinema americano più rappresentativi della tarda New Hollywood. Costantemente in lite con le major finanziatrici dei suoi film, licenziato due volte da datori di lavoro illustri come Burt Lancaster e Sam Spiegel, e diviso per anni tra cinema, teatro e televisione, Arthur Penn andò sempre in cerca di un arte che ne supportasse la visione narrativa profondamente americana ma allo stesso tempo contaminata da istanze fondanti della messa in scena europea, prima fra tutte la nouvelle vague. Gli amici di Georgia è uno spaccato degli USA anni ’60 capace infatti di coniugare gli stilemi del grande romanzo americano con le dislocazioni tipiche di uno storytelling più improntato all’evocatività dell’immagine come contenente assoluto di senso. Le vicende dei quattro protagonisti ci restituiscono un’idea di cittadino statunitense di metà Novecento sempre eterno esule in una terra straniera, mai completamente accettato dal tessuto sociale in cui è nato e mosso dalla costante inquietudine di spingersi verso quell’epilogo del Secolo Breve che avrebbe segnato per tutto il mondo occidentale la fine inevitabile della Storia. [Mario Blaconà]