Verso la fine di Transit Circle, mediometraggio di Stephan Knauss vincitore del 30 70 DOC FEST, c’è un’immagine fortissima, un segno costellazione di altri segni che risolve in un’equazione prospettica gli scenari di esistenza nel paesaggio della Cina post-industriale: è l’immagine di un cartellone che pubblicizza un paradiso immobiliare, fatto di campi da golf e laghetti, con grande abbondanza di verde e insediamento urbano integrato. È l’immagine della possibilità concreta di un luogo “dove tutta la bellezza arriva nel momento giusto”, l’immagine, cioè, di uno spazio in cui finalmente giunge la bellezza attesa nel tempo, promessa dal tempo, la bellezza della prospettiva di un futuro fantastico spazializzato qui, ora, nel presente bidimensionale. L’immagine bidimensionale che è concretizzazione di un’utopia.
Un’utopia che (si pensi soprattutto a Il principio speranza di Ernst Bloch, testo che è anche ricognizione di utopie del ‘900) da patria sognata nell’infanzia, luogo in cui nessuno è mai stato e che alla fine però corrisponde alla genesi di ognuno, al momento di piena realizzazione dell’uomo diventa prodotto commerciale, vendibile, consumabile nel presente, e quindi inganno, illusione prospettica, trompe l’oeil: perché come può un’utopia essere bidimensionale quando la sua legge è la dimensione di profondità?
Questo inganno si ribalta e si ritrova nello spaesamento esistenziale della protagonista e dei suoi coetanei: è nella tranquilla accettazione dell’incertezza costitutiva del presente e nell’ammissione dell’abbandono della fase infantile della propria vita (fase di “gioco” creativo) a favore della fase di “consumo” frustrato dell’adultità che si delinea l’atteggiamento di una generazione che vive anestetizzata in una landa desolata spacciata per futuro utopico (la determinazione geografica ha un peso relativo, la desolazione dell’area metropolitana di Hangzhou è la desolazione globalizzata da molte altre realtà). Ambiguo il ruolo della natura (non quella bidimensionale del cartellone) in questo scenario di industrializzazione intrascendibile: essa si mostra nella desolazione, compare come germoglio tra le macerie, ma questo suo mostrarsi, questo suo ritorno, è per l’uomo un segno di possibile salvezza o il sigillo del tutto che circolarmente transita, tra distruzione e riaggregazione? [Leonardo Strano]
Nazionalpopolare
Da tempo il microcosmo ideale per raccontare la Cina contemporanea è la famiglia, che racchiude in sé stessa il passato del collettivismo comunista e il presente del capitalismo di Stato, fondendo la spersonalizzazione del regime dittatoriale del ventesimo secolo con l’individualismo selvaggio del tutti contro tutti del ventunesimo. È proprio questa sottotraccia che emerge in The Choice di Gu Xue, presentato al 30 70 DOC FEST, girato in un unico piano sequenza e testimone di una riunione famigliare per decidere come affrontare quelli che saranno probabilmente gli ultimi mesi di una zia malata, ospedalizzata in gravi condizioni.
Imparata la grande lezione di Wang Bing (pensiamo a un film come Mrs Fang), Gu Xue capta con lucidità le piccole ipocrisie di chi anche nei confronti di un proprio caro ragiona come sul posto di lavoro, sacrificando ogni cosa sull’altare della funzionalità. Nel film non c’è spazio per nessun tentativo di empatia nei confronti del dolore che deve provare l’anziana zia, intrappolata in un ospedale senza l’amore dei propri parenti, ma a predominare sono esclusivamente le economie del tempo e le organizzazioni di un già annunciato funerale.
In un contesto così potente per la sua negatività il cinema riesce allo stesso tempo a ritirarsi, rifuggendo i primi piani sui volti e limitandosi a dei semplici pan da destra a sinistra e viceversa, e a implementare la sua forza nel distacco fisico dai suoi protagonisti, per trasmettere il loro distacco emotivo dalla sofferenza altrui.
Il documentario cinese ancora una volta ci parla di una Nazione che si prepara a guidare l’economia mondiale senza però riuscire a trovare la propria identità, intrappolata tra un’idea distorta di socialismo e un capitalismo che succhia le anime e le trasforma in numeri da poter incasellare e sfruttare a suo vantaggio. [Mario Blaconà]
Una ricerca in divenire
Già presentato a Doclisboa e in altre cornici internazionali molto attente alla sperimentazione, Den Geniale Epoke di Natalia Ciepiel arriva in anteprima italiana fuori concorso al 30 70 DOC FEST con una molteplicità di istanze e possibili letture al suo seguito.
Profondamente ibrido per dispositivi e gradi di messinscena attivati nella sua breve durata, incluso l’utilizzo di elementi finzionali dal carattere magico, il film nasce dallo spunto dolorosamente autobiografico della morte del padre della giovanissima autrice per inseguire, sul filo di una sofisticata irrequietezza, il fantasma presente di un’assenza ineludibile.
Non un’opera classicamente intesa intorno all’elaborazione di un lutto familiare, ma piuttosto una pratica di ostinata ricognizione nelle pieghe del reale e dell’inquadratura, pacatamente infiammata dall’attesa della manifestazione quasi spiritica di un messaggio da un mondo altro, che qui è anche il fuori campo di immagini protese ad accoglierlo.
Den Geniale Epoke è un esercizio – per nulla peregrino, potremmo anzi dire iniziatico – di riassegnazione di senso ai segni che nella vita attraversano il nostro sguardo, suggerendoci – senza alcuna prova possibile a confermarlo – la sensazione di aver già assorbito il corso degli eventi futuri, quelli che restano evidentemente sconosciuti fino al loro presentarsi, ma che a posteriori finiscono per inondare di smarrimento la nostra coscienza.
Complice anche la presenza della natura – non siamo tra le strade di una grande città danese, ma in un luogo di periferia o provincia, circondato da boschi e scogliere –, il film anela l’inquietudine di una vertigine emozionale, quello per cui le cose, dopo la perdita, “sembrano uguali a prima”, ma allo stesso tempo impercettibilmente trasformate, come se una mano invisibile ne avesse corretto qualche dettaglio e a noi spettasse il compito di coglierlo. Se i fantasmi sono l’espressione di un desiderio, Den Geniale Epoke sembra anche dire che le immagini sono la maniera in cui il desiderio rincorre se stesso. [Marco Longo]