Ora i ragazzi stanno fuori da scuola,
imparano a farsi male, sanno canzoni a memoria.
Intorno al fuoco di un’estate che scuoia si giurano per sempre
prima che il sempre muoia.
(Stokka e MadBuddy, Canzoni a memoria)
Due adolescenti sull’altalena si stringono in un abbraccio. Lei cerca l’attenzione di lui, che sembra distrarsi un po’ troppo.
Essenzialmente, BloccoNove (presentato a SalinaDocFest e a Filmmaker) ci racconta questo: una storia d’amore. Sullo sfondo, le popolari di Niguarda. I protagonisti, Miriam e Kevin, sono immortalati con una limpidezza che scavalca ogni inganno del linguaggio scandalistico. Una narrazione lucida e delicata, che si costruisce nella somma di gesti naturali e inattesi. I registi (sono tre: Michele Pablo Silva, Federico Frefel e Léa Delbes) riescono a non cadere nel tranello dello stereotipo di genere a cui lo spettacolo seriale e cinematografico ci ha abbondantemente abituato, ovvero il racconto difficile delle vite “marginali” dei ragazzi di periferia.
Non da meno, il cinema del reale ha rinvigorito, negli ultimi tempi, lo sguardo del documentarista e l’ha educato a una nuova forma di ascolto che definiremmo “morale”, ovvero legata all’atteggiamento di chi scrive le sue storie senza imporsi sui personaggi, modificando la realtà a suo piacimento. Ma questa posa è diventata a sua volta stereotipata, quasi una regola dogmatica da dover rispettare per costruire un’immagine corretta, un modo di fare cinema quasi scontato. La si insegna a scuola e i documentaristi di domani la applicano alla lettera. Il rischio diventa quello di visitare un luogo e i suoi abitanti, sapendo già in partenza cosa cercare e cosa voler filmare. I registi di BloccoNove, invece, fanno un salto in avanti: accolgono la realtà degli eventi ma non la addomesticano, al contrario si fanno sedurre, assieme a noi, e vivono in totale relazione con i minimi eventi che costellano le giornate dei personaggi (qualcosa di molto simile a ciò che era già riuscito a fare Alessandro Comodin con L’estate di Giacomo).
In BloccoNove nessuna battuta è mai scontata perché imprevedibile, nessun luogo è mai troppo ostile da sommergere la vitalità dei suoi abitanti. Le storie che riusciamo appena a cogliere dai dialoghi della madre o degli amici non sono chiare fino in fondo, ma restituiscono quel colore tipico della chiacchiera colloquiale domestica. L’eco della vita rimane fuori fuoco, inciso con l’inchiostro sulla pelle, o ai margini dell’inquadratura stretta sui due giovani. L’unica vera finestra sul quartiere e sulla vita di periferia sono le canzoni incise dai rapper del blocco, quelle che i protagonisti cantano orgogliosamente per strada o in stanza.
Superato il rischio di una narrazione prolissa o priva di stimoli, emerge in maniera naturale la predominanza dell’amore: ingenuo e commovente, quindi sconfinato. Uno sprigionarsi di emozioni che non si limita al bacino sentimentale fra i due protagonisti, ma che investe anche il rapporto familiare, l’alleanza del gruppo di amici, fino al febbrile coinvolgimento nella sorpresa di aprire una scatola di scarpe nuove. Ogni minimo gesto ripreso dalla camera riflette, più che una scelta morale, una relazione affettiva: lo scavalcamento della barriera fra documentario e vita.