La solitudine di una donna che pulisce la sua casa, prega, cucina per sé il pane, siede in attesa: azione del racconto minima, corollario esistenziale potenzialmente vastissimo, il problema della resa poetica di un’esistenza chiusa nel gesto banale. Presentato al 30____70 Doc Fest, Birthday di Hilal Baydarov traduce l’abitudinario in lirico seguendo la via della forma e raccontando i gesti semplici della donna tramite un’armatura visiva molto pensata, alla ricerca di un’immagine esauriente che comprima la realtà per farla passare nella cruna dell’ago del significante. Per molti versi è estetizzazione illegittima.
Non tutto però è ricompreso e controllato: mentre la ricorsività dei gesti abitudinari si presta a un’esteriorità raffigurabile e montabile, la solitudine della donna non è risultato di un processo di elaborazione linguistica, quanto piuttosto una condizione che motiva la rappresentazione e infonde una direzione narrativa, ma inizia prima di essere rappresentata e continua dopo il margine apposto dai titoli di coda; per questo essa sfugge sempre la pressione della messa in scena e si agita contro la disposizione inquadrante che cerca di congelarla in estremi décatrage o in simbolismi più o meno scoperti – dalle inferriate di una finestra che raccontano di una virtuale prigionia sofferta al serpente altrettanto carcerato di un gioco al telefonino, fino alle Note di Bresson inquadrate su uno scaffale, a dichiarare forse un’ambizione.
L’impenetrabilità dei gesti, per quanto programmati dal racconto, è la prova di una conservazione anti-narrativa che supera la posizione formalizzante. È difficile dire quanto questo contro-movimento sia frutto di una disponibilità dello sguardo stesso a lasciarsi superare: è piuttosto nella durezza stessa del mondo rappresentato che riposa un rifiuto taciturno contro cui la forma si dimena a gran voce, incapace, così centrata su se stessa, di raggiungere la potenzialità poetica di ciò che si ritiene impoetico. [Leonardo Strano]
Adieu au langage
Uno dei sogni cinematografici di Rossellini era quello di riuscire a filmare la vita di un uomo per una giornata intera, limitandosi a riprendere ogni suo gesto di vita quotidiana, rincorrendo quell’idea di cinema come puro specchio del reale, un’estensione della vita che recupera l’assenza dell’autore come strumento per abbattere la distanza tra occhio e obiettivo.
Tante volte, registi provenienti da diversi tipi di cinema, di grandi e piccole produzioni, hanno perseguito quest’idea di visione semplice e allo stesso tempo originaria, applicando però una specificità, un conflitto anche banale o comunque una variante che scongiurasse la ripetitività. È il caso anche di Bègue di Olivier Duval, presentato al 30____70 Doc Fest, che riprende la vita di un ragazzo con un disturbo del linguaggio, intento ad affrontare ogni aspetto delle proprie incombenze relazionandosi con il mondo che lo circonda e servendosi anche dell’esperienza di questo documentario stesso come strumento di guarigione.
Siamo proprio dalle parti di un piccolo esperimento rosselliniano: l’elemento filmico indietreggia e assume un ruolo sia testimoniale che pedagogico, e proprio nel compiere questo gesto riscopre la potenza di una semplicità quasi disarmante, che apre allo spettatore una serie di innumerevoli strade interpretative.
Proprio come il parlato del protagonista del film si inceppa, così il linguaggio di questo piccolo e timido documentario si ritrae, coscientemente in attesa di mostrarsi attraverso la potenza primigenia del cinema, quella volta a recuperare la perfezione riproduttiva della fotografia e allo stesso tempo la soggettività di chi sta dietro la macchina da presa che nel tentativo di annullarsi rivela, in questo presente dove ognuno tenta invece di emergere attraverso specifici propositi autoriali, un’unicità commovente e, soprattutto, sincera. [Mario Blaconà]
De rerum natura
Come da lezione del più grande maestro del cinema di paesaggio Werner Herzog, Laguna Negra, opera del giovane regista peruviano Felipe Esparza, presentata al 30____70 Doc Fest, dichiara da subito l’intento di fare della natura stessa un personaggio vero e proprio, se non essa stessa la protagonista del film.
In questo senso la permeabilità degli sfondi montani delle Ande che avvolgono una piccola comunità peruviana è assoluta: la persona diventa il paesaggio e il paesaggio diventa persona, rivelando un equilibrio radicale che raffigura l’essere umano come uno dei tanti elementi che popolano l’ambiente, negando non solo l’antropocentrismo ma anche la sua minaccia, filmando anche le nuove generazioni come assolutamente in linea con le tradizioni ataviche dei genitori.
Sono molti i documentaristi che si rifugiano sulle Ande per ritrovare questo immutabile senso di bilanciamento con gli spazi naturali, e da questo punto di vista l’alternanza sistematica di piani lunghi e dettagli di cui si compone Laguna Negra riesce a donare sia l’intimità che deriva da un’esistenza simbiontica con il paesaggio sia l’assoluta parità d’importanza nell’ecosistema di un essere umano in relazione con qualsiasi altro elemento, come un albero battuto dal vento, o come le fredde acque di un torrente, in cui due fragili uomini provano a immergersi, timorosi del freddo e della forza dell’acqua.
L’accostamento poetico piuttosto che drammaturgico delle immagini ci porta inoltre in una dimensione ancora più extra umana, proprio perché la narrazione che legge la realtà diventa essa stessa una forma filtrata dallo sguardo e non un’effettiva visione a tutto campo, che va incontro a un universo indifferente al viziato protagonismo dell’occhio incamerato dalla ragione, rivelando l’istinto come l’unica via per abbracciare il reale. [Mario Blaconà]