C’è un’opera letteraria che descrive perfettamente le declinazioni di senso che stanno attraversando questo periodo di clausura, ed è Ciò che resta del fuoco di Jacques Derrida. A metà tra un saggio e uno scambio epistolare, lo scritto analizza tutto ciò che implica essere ridotti a una traccia, alla cenere lasciata da un incendio. Qualsiasi piano dell’esistenza incompleto, derivativo per imposizione esterna, monco, è una traccia del fuoco che divampa da una vita sincera e completa, vissuta al massimo delle proprie possibilità. La cenere, in un certo senso, conserva tutte le caratteristiche del fuoco, le testimonia, ma è fredda, ferma e fragile. In questa dispersione del tempo e dello spazio, che si fa traccia dello scorrere pieno, si adagia delicatamente e malinconicamente l’ultimo film di Filippo Ticozzi, Dissipatio, presentato nel Concorso Internazionale Mediometraggi del 61° Festival dei Popoli.

Cineasta che ha portato al centro della sua filmografia il senso della sopravvivenza, dell’allineamento con il trauma e con la mutilazione (emotiva e fisica), del rapporto tra l’uomo e l’inanimato, Ticozzi sembra trovare nella drammaticità di questo periodo storico anche una continuazione naturale del proprio discorso, stavolta mettendovi al centro se stesso, immolandosi come propaggine dell’essere umano, diviso tra la sofferenza del non poter più essere un animale sociale e un’ambigua a delicata ambizione all’ascetismo e alla solitudine. In mezzo a queste due incombenze esistenziali c’è lo sguardo: un occhio che spoglia ogni superficie limitrofa in un secco bianco e nero, che qui non assume né il senso classico del ricordo (e del resto che ricordo può esserci senza eventi da ricordare?) né tanto meno quello di un cinema che si dichiara come finzione in quanto privato dei colori della realtà, ma piuttosto minimizza l’esistente tramutandolo nel suo simulacro, in una sua versione addormentata e posseduta dalla stasi.

In parte ispirato a un saggio di Gilles Deleuze, L’esausto, e in parte al quasi omonimo romanzo distopico Dissipatio H.G. di Guido Morselli, l’ultimo lavoro del regista di Pavia ci fa intendere la dimensione di questo lockdown come qualcosa di naturalmente portato alla relativizzazione, partendo dal concetto di immobilismo inteso come resistenza all’iperattività della società contemporanea (come personaggio, in questo senso, Ticozzi diventa quasi un partigiano dell’inviluppo) fino a lasciarci con un’importante domanda, che potremmo anche estendere al di là della contingenza di questi mesi: siamo veramente convinti che l’originale sia un’altra cosa rispetto al suo simulacro? Che il fuoco che divampa in un incendio sia così diverso dalla cenere che rimane, una volta che tutto si è spento? [Mario Blaconà]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/dissipatio/


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I frutti puri impazziscono

Birco Clinton la Barouba vive a Napoli. Il suo, come quello dei suoi amici, è un nome d’arte: trae ispirazione da un personaggio di una serie televisiva, mixato con quello dell’ex presidente USA e di un “ricco e grasso uomo del Mali”. È originario della Costa d’Avorio e sogna di diventare una stella del coupé décalé: un genere musicale che affonda le sue radici nella tradizione tribale della cultura africana, riadattata su frequenze elettroniche dance-hall. Per farlo, punta tutto sull’esito positivo di una festa organizzata in onore della sua crew: l’Armée Rouge. La data della grande esibizione è il 24 dicembre.

La macchina da presa di Luca Ciriello segue il protagonista in ogni fase della preparazione: dalla povera casa in lamiera della periferia, dove vive con altri compagni che lo sostengono sui social, alle strade in cui corteggia le passanti invitandole alla festa, fino alla serata finale in cui si giocherà il tutto e per tutto. “Non sarà un cous-cous senza salsa”, ci garantisce Birco.

La danza di cui il protagonista si (auto)celebra campione è un insieme di fenomeni tanto assurdi quanto originali, a tratti addirittura incomprensibili se visti sullo schermo: un ballo che si avvicina alla dimensione del rito, per cui i partecipanti sono invitati a donare più soldi possibili durante l’esibizione. Chi darà di più sarà celebrato al microfono nei successivi brani, o all’interno dei video realizzati grazie al denaro ottenuto. Una danza, quella del coupé décalé, che spalanca le porte del tribale e del gesto arcaico del dono, per cui il lavoro del regista è stato, come lui stesso ha dichiarato, uno “studio antropologico” delle forme meticce del nostro presente. Quelle che, a suo tempo, James Clifford aveva definito “l’indefinita ricomponibilità” di antichi oggetti e simboli culturali, che acquisiscono nuovo senso all’ombra di un presente segnato dall’instabilità e dallo sradicamento di intere popolazioni.

L’Armée Rouge è un bel documentario che, nella sua linearità, apre le porte a vari piani: in primis l’occasione di scoprire un genere musicale sconosciuto nel nostro paese; ma anche un film che è il ritratto reale di un giovane e della sua passione, senza false testimonianze o estremizzazioni scandalistiche. Ci viene offerta soprattutto una riflessione schietta sulle giovani comunità africane in Italia, che paiono scomparire dal nostro raggio di interesse nel momento stesso in cui sopravvivono a uno sbarco per iniziare una nuova vita. Molte domande nascono spontanee mentre si osservano questi uomini e queste donne: qual è il ricordo della loro casa e cosa hanno realmente trovato arrivando in Italia? In che misura concetti come famiglia, edonismo, attaccamento al denaro, sacrificio e speranza sono letteralmente stravolti dalla loro esperienza di vita e dalla storia culturale che si portano alle spalle? Quanti anni hanno? Quali sono i nomi che si nascondono dietro Fatou La Gazzelle, Othman La Prière, Adjoss De Milan? Restano in testa l’eco delle risate, il desiderio di voler stare bene assieme. [Davide Perego]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/larmee-rouge/


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La vita a prova di proiettile

Presentato fuori concorso nella sezione Highlights, Bulletproof è l’acclamato documentario di Todd Chandler che, forte di una diffusa selezione in molti festival di settore, prova a fare il punto su uno dei temi “caldi” della contemporaneità americana, già al centro di molti film di fiction e non-fiction del terzo millennio: l’esplorazione problematica del rapporto tra paura, violenza e sicurezza a partire dalla cornice delle stragi scolastiche che hanno saturato la cronaca nera statunitense negli ultimi due decenni.

Cosa significa sentirsi oggi al sicuro a scuola negli Stati Uniti? Come prevenire quelle sparatorie, apparentemente impredicibili, e che tuttavia caratterizzano in termini di possibilità concreta la vita quotidiana negli istituti di ogni ordine e grado? Con spirito wisemaniano e un’attitudine critico-osservativa intorno ai propri materiali, tutti tesi a sviscerare la complessità di diversi contesti, il film mostra anzitutto come, accanto ai rituali ormai iconici della scuola americana – dalle parate alle partite di basket, dalle lezioni agli annunci radiodiffusi – la vita degli studenti tra aule, mense e cortili stia introiettando forme nuove e sempre più pervasive di “risposta” performativa al pericolo: esercitazioni di primo soccorso e autoisolamento nel caso in cui ci si ritrovi intrappolati in classe durante una sparatoria di massa, addestramento specifico all’uso di armi da fuoco necessarie a neutralizzare la minaccia, fiere sulla sicurezza scolastica e conseguenti investimenti non solo sugli ormai irrinunciabili metal detector, ma anche su armadietti-bunker, lavagne e banchi antiproiettile, granate accecanti, e via dicendo.

Come affermato da una delle molteplici, inquietanti figure che attraversano il film, la minaccia della violenza non sembra più contemplare le variabili dei “se” e dei “perché”. Tale è la certezza che possa manifestarsi, che a divenire urgente è soltanto la risposta alla domanda: quando? Senza giudizi apparenti, Bulletproof parte da questa evidente falsa coscienza per testimoniare la deriva culturale di un paese che alla prevenzione, alla lettura sociologica e comprensione psicologica di singoli e contesti, preferisce di gran lunga il controllo, la simulazione, l’implementazione percettiva di una presunta contro-violenza difensiva, di cui la presenza ormai diffusa di forze dell’ordine e addetti alla sicurezza nelle scuole è diventata emblema. Poco importa che la paura di un ignoto quotidiano, da cui doversi proteggere aprioristicamente, finisca per dare forza a precise retoriche politico-sociali e per alimentare business pervasivi e fuori controllo, che normalizzano contromisure surreali e allarmanti, fino a intaccare le possibilità stesse della vita quotidiana.  [Marco Longo]

Per vedere il film: https://www.mymovies.it/ondemand/popoli/movie/bullett-proof/


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