Stavrogin: …Nell’Apocalisse l’angelo giura

che il tempo non esisterà più.

Kirillov: È molto giusto, preciso, esatto.

Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità,

il tempo non esisterà più, perché non ce ne

sarà più bisogno. È un’idea giustissima.

Stavrogin: Dove lo nasconderanno?

Kirillov: Non lo nasconderanno in nessun

posto. Il tempo non è un oggetto, è un’idea.

Si spegnerà nella mente.

(Fëdor Dostoevskij, I demoni)

 

Ivan, da solo in una stanza di pietra, suona una campana. Da prima i rintocchi sono riportati attraverso un preciso realismo sonoro, ma progressivamente l’audio inizia a impastarsi in un unico fluire, trasformandosi in una musica atonale che porta il bambino a girare disperatamente per questo ambiente spoglio. La realtà si confonde con il sogno, fino a quando allo spettatore appare chiaro che distinguere il piano onirico da quello fattuale significherebbe mentire a se stessi.

Lo stalker accompagna il professore e lo scrittore a bordo di un piccolo carrello su rotaia, attraverso un non-luogo generato forse dalla caduta di un meteorite, la Zona. La macchina da presa rimane attaccata ai personaggi, in modo tale che all’ingresso della Zona lo spettatore non riconosca altro che le loro figure, ma il tratto più distintivo è il rumore del carrello sulle rotaie, inizialmente chiaro e ripetitivo fino al fastidio, ma progressivamente sfumato anche questo verso un tappeto sonoro che si trasforma in una musica elettronica libera e aperta.

Queste due scene tratte da L’infanzia di Ivan e Stalker, di Andrej Tarkovskij, sono eccellenti esempi di quella che intimamente era la visione della realtà di uno dei più grandi cineasti della storia del cinema.

Difficile parlare di Tarkovskij nel ventunesimo secolo? In questo avamposto di un futuro non ancora palesatosi e allo stesso tempo di un passato ormai tramontato dietro alla sublimazione reazionaria della società solida, in un assoluto presente insomma in cui all’apparenza “scolpire il tempo” diventa un esercizio di inseguimento di una dislocazione sempre più ambigua, sembrerebbe proprio di sì. Ma, andando oltre i “legami distrutti tra la personalità e la società”, dietro la nebbia di un regista ormai cristallizzato nel mito e nella frase, che a dirla tutta sa un po’ di cliché e di assunto critico a priori, “il cinema di Tarkovskij è senza tempo”, appare possibile intravedere quanto la visione del mondo-immagine tarkovskiano sia in realtà l’unica possibile in questo universo contingente, soprattutto all’interno di questa funesta contemporaneità.

Entrambe le scene citate ripercorrono quell’idea di un mondo in cui compito preciso dell’artista è quello di comunicare con le sue capacità l’effettiva evanescenza della vita. Contro il deformato materialismo che ogni pensiero unico cerca di far proprio per irreggimentare le coscienze delle masse, Tarkovskij parte da una concezione di materiale cinematografico nel quale “l’elemento principale è costituito dal disvelamento della logica del pensiero di una persona”, che quindi detta l’ordine di successione degli avvenimenti, la cui “nascita è soggetta a speciali leggi e la cui espressione talvolta esige forme che si differenziano dalle costruzioni logico-speculative”. Ecco che quindi disciogliere il suono intellegibile di una campana o di un carrello su rotaie in una musica onirica e trascendentale non ci porta su due piani diversi, ma semplicemente ci permette di capire che il percepire una sensazione è la medesima cosa del capire un concetto e che di fatto, trascendenza e immanenza si muovono su due rette che da parallele diventano inevitabilmente e poeticamente coincidenti.

Non è un caso che il fraintendimento e la frustrazione più nera del non essere riuscito a consegnare a quanta più gente avrebbe voluto questo messaggio di amalgama tra pretesa di realtà ed effettiva astrazione (dolce paradosso di verità), si sia materializzato (o smaterializzato, appunto), nella sua ultima opera, Sacrificio.

Nel film la fiducia di Alexander nel rivedere un albero rinsecchito germogliare di nuovo, frustrata dal passaggio di alcuni aerei da caccia che lasciano presagire una guerra nucleare, è il triste punto d’arrivo di un’impotenza sul mondo moderno, di cui Tarkovskij, cacciato da un’Unione Sovietica intrisa del realismo (finto)socialista di Brežnev, che aveva piegato il popolo a una stantia propaganda di finta fattualità, era già riuscito a intravedere il marciume in potenza. In Sacrificio il regista russo decide di fatto di soffiare sulla candela trasportata con lentezza in Nostalghia, frustrato da una realtà deprivata della propria poesia. Si chiude di fatto qui la vita artistica di questo Andrej Rublev postmoderno, iconoclasta della prospettiva rovesciata: con una malinconica invettiva finale contro il pragmatismo radicale dell’essere umano, vincente nella sua tirannia.

Ma è da oggi, trentaquattro anni dopo la sua morte, che il punto di vista di Tarkovskij ritorna a chiederci il conto.

Quando l’accumulo e l’insistenza di una semplificazione dell’esistente non riesce più a tenere il passo con un mondo che si moltiplica in continuazione, quando la deformazione e il tradimento del materialismo dialettico marxista da parte di un biopotere ormai, forse, inscalfibile, non può più fare i conti con se stesso e non riesce più a tenere il calcolo di quali siano le sue vittorie e le sue sconfitte, e se abbia senso ormai definirle tali, ecco che quel realismo tanto caro ai detrattori di Tarkovskij non è più solo uno e semplice, ma viene moltiplicato dalla liquidità, reso solo uno dei tanti possibili. Nell’era della post verità quindi, dove ogni evento muta e diventa perfettamente descrivibile da una miriade di fattualità diverse, a causa di una cultura del consumo ormai spinta fino al parossismo, quell’interfacciarsi con l’intellegibile, quel sentire al posto del semplice capire (o la coincidenza tra queste due istanze), sembra rimasta l’unica strada percorribile in mezzo al fango del relativismo contemporaneo.

Come può sembrare ormai possibile per Alexander, recuperare la spiritualità oggi se non scoprendo l’inganno del percorso logico deduttivo del potere e abbattendo la finta barricata tra arte e vita, una vita ormai cieca che non basta più a se stessa senza la sua estensione ontologica più vera?

Parafrasando con una dislocazione dialettica quel “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, in un mondo che non è più in grado di reggere la sua arborescenza, in cui il rapporto causa-effetto ha (ma quanta ambiguità per arrivarci) scoperto la sua porosità, il cinema di Tarkovskij riesce ancora a materializzare il tempo, un tempo sicuramente ripetuto all’infinito, ma che non per questo è meno individuabile, cercando ancora quell’orizzontalità nel respirare l’esistenza e l’arte intrinseca che la caratterizza, quel rizoma su cui Deleuze cercava di portare in modo così sincero i propri studenti.

L’intrinseca bellezza di questo tipo di κίνησις quindi non è solo la durata diegetica nell’opera filmica, questo tempo seppur meraviglioso che il regista russo ha modellato in un mondo ancora afflitto dal razionalismo, ma è anche la persistenza extradiegetica che si rifrange sul presente. Non è dunque esatto affermare che il cinema di Tarkovskij sia effettivamente “senza tempo”, ma piuttosto che proprio in virtù del fatto che lo abbia indagato così affondo, sia in grado di leggere ogni epoca successiva alla sua realizzazione conformandosi alle sue drammaticità più peculiari.

Un’icona stretta insomma, in un angolo di una chiesa ortodossa, che nega la prospettiva dell’Occidente rinascimentale, e che si astrae nella sua meravigliosa, stratificata e commovente semplicità.

 

Ossia nel nostro mondo tutti i legami tra la personalità e la società sono stati a tal punto distrutti che oggi l’unica cosa che sembra importante è di cercare di ristabilire il ruolo dell’uomo nel proprio destino personale. A questo scopo l’uomo dovrà ritornare al concetto della propria anima, alla sofferenza della propria anima, e dovrà cercare di collegare la propria coscienza con i propri atti. Ci si dovrà abituare al fatto che la tua coscienza non può essere tranquilla se tu sei consapevole del fatto che tutto va in senso opposto rispetto a ciò che tu pensi e si dovrà reagire a questo stato di cose con la sofferenza della propria anima che reclama la coscienza della propria responsabilità e della propria colpa.

(Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo)